
Di giorno in casa si boccheggiava alla ricerca di un fresco respiro che desse tregua alla sensazione di essere al centro di un incendio, e se appena ci si affacciava al balcone, si rientrava ustionati dalle ringhiere bollenti. Chi doveva uscire di casa, si trascinava tra i fumi dell'asfalto molle con l'occhio all'orologio in cima al palazzo della banca di via Cavour per scoprire il nuovo record dei gradi di asfissia e la percentuale di umidità.
La notte ci si trascinava per la casa senza scampo alla ricerca del posto più fresco, illudendosi di fare un po' di corrente, aprendo tutte le porte e le finestre all'aria bollente. Ci si sarebbe spogliati del proprio corpo per dar sollievo all'anima impregnata anch'essa di sudore.
Per chi come me ha vissuto sulla pelle quelle giornate in cui nemmeno il mare riusciva a dare sollievo, queste pagine potranno essere un tuffo in una stagione che oramai è lontana nel tempo: l'estate.
"Non ci sono più le mezze stagioni", cita un detto... ma nemmeno quelle intere si fanno trovare.
Estratto dal Capitolo IV.
Una volta all'anno, in questa città, arriva il caldo.
Non è una sorpresa. Lo si aspetta fin dalla primavera, quando si spande il profumo dei fiori e le cravatte si allentano al sole, quando diventa più piacevole fermarsi a chiacchierare per strada o alle finestre aperte, da un lato all'altro delle strette vie del centro e dei vicoli. Mo' viene il calDo, dicono allora le comari, stendendo allegre le lenzuola sulle corde, che magari uniscono i balconi di due palazzi diversi; lo dicono sorridendosi, ma nelle loro voci c'è una sottile nota di preoccupazione. Perché lo sanno che il caldo, quello vero, è una faccenda seria e terribile.
Il caldo, quello vero, non giunge all'improvviso. Ha le sue date fisse, e si muove come una flotta militare, attraversando il mare in parata. Si fa preannunciare da qualche nuvola, e magari da un rovescio improvviso, così, giusto per creare un'illusione, un diversivo prima dell'attacco finale. I cani annusano l'aria, alcuni emettono un guaito irrequieto. I vecchi sospirano.
Arriva una notte che, contrariamente al solito, non regala refrigerio, ed è quello il segnale. Gli uomini girano per casa cercando invano una combinazione di finestre aperte che formi un po' di corrente. Le giovani madri sorvegliano il sonno dei bambini, non riuscendo a liberarsi del fantasma di racconti di neonati scoperti morti all'alba, nella culla.
Il sole sorge temutissimo, il primo giorno di caldo. Entra in cielo come una nave da guerra in porto, minaccioso e fiammeggiante. E non dà scampo. Gli ambulanti vengono sorpresi mentre sono già in strada e subito si ritrovano zuppi sotto il carico di merce che, se deperibile, tenteranno di riparare e mantenere attraente, ma con scarsi risultati: tutto sembrerà avvizzito, povero, brutto. Come gli stessi venditori, impegnati a richiamare con roche grida l'attenzione delle donne, che si guardano bene dall'uscire sui balconi, se appena possono evitarlo. Peggio ancora va ai commercianti, immobili in trepida attesa sulle soglie dei negozi, il cui interno diventa inabitabile se sprovvisto di lenti ventilatori.
Si salvano le chiese, le cui navate fresche vengono invase dalle bizzoche e da chi, in altri periodi dell'anno, è più occupato a peccare che a redimersi. Le donne bagnano con pezze inumidite i bambini più piccoli e lì tengono all'ombra, e per i più grandicelli preparano una tinozza d'acqua fresca che presto diventerà calda, però almeno lì farà divertire, tra spruzzi e grida.
Fin dalle prime ore del mattino i litorali sono invasi, ma appaiono quasi immobili. Perché il caldo, quello vero, è una dimensione a parte in cui il tempo si dilata come le gambe nelle calze. Cambiano le parole e i suoni, e le idee hanno un altro corso, quando c'è il caldo vero. I ragazzi non tirano la fune, le ragazze non passeggiano in coppia o in quartetti sulla riva, mettendo in mostra cappellini vizzosi o i costumi a righe dalla cintura finta in vita, che lasciano scoperte la metà delle cosce; nessuno si produce in audaci tuffi dal pontile. Troppo caldo per muoversi tanto in un mare che smette subito di rinfrescare. Preferiscono starsene a mollo come trichechi, a condurre lente conversazioni interrotte di tanto in tanto da una breve immersione della testa. E balene spiaggiate sembrano panciuti commendatori semisdraiati sulla battigia, che chiacchierano di affari e di politica e leggono sonnacchiosi il quotidiano del mattino.
A mano a mano che le ore passano, il sole ha sempre meno pietà. Gli abituali argomenti di discussione sono spazzati via dal caldo, quello vero. Ci si guarda in faccia, pallisi e sofferenti, da una parte all'altra della strada, ci si scambia un cenno lento della mano, si mima con le labbra una frase di circostanza e si tira avanti, strascicando i piedi.
Fiorisce una specifica anneddotica: compa', stanotte per trovare un poco di sollievo mi sono messo a dormire sul pavimento; figuratevi, compa', io mi sono messo fuori al balcone solamente in mutande e cannottiera, e le zanzare mi hanno mangiato vivo, guardate qua che bozzi tengo sulle braccia. Le pagliette vengono sventolate sul volto a mo' di ventaglio, e i giovanotti dalle scarpe bicolori valutano al ribasso le signorine che passano lente, per limitare lo sforzo di un tentativo di conversazione.
Quando arriva il caldo, quello vero, scende sulla città un velo di silenzio e di preoccupazione, perché tutti sono sicuri che non finirà mai. Ogni abito, anche il più leggero, sembra una coperta di lana spessa, insopportabile, e aloni scuri di sudore impregnano la stoffa sotto le ascelle e sul torace. Costretti alla giacca e alla cravatta, gli impiegati in servizio, salendo e scendendo le scale degli uffici, pensano che dovranno lavare gli indumenti prima del tempo e sospirano per il costo dell'operazione, mentre le donne in età da marito diradano le uscite per la minor tenuta della messa in piega eseguita dal parrucchiere a domicilio.
Il caldo, quello vero, dura pochi giorni, e salvo rare eccezioni, questi pochi giorni cadono tra l'inizio e la metà di luglio. Giorni senza pioggia e senza pace, investiti di una luce violenta resa lattiginosa da un velo di vapore che ristagna a mezz'aria, come una condanna alla città. Giorni in cui gli anziani diventano taciturni, gli occhi perduti nel vuoto, nessuna storia da raccontare, nessuna lamentela sui mille dolori, nessuna critica velenosa ai vicini di casa o alle conoscenze del vicolo. Il respiro affannoso è una specie di lugubre commento sonoro; nemmeno monosillabo in risposta alle domande preoccupate dei figli su come si sentono.
Il caldo, quello vero, si insinua attraverso i pori e va a maneggiare le stanze dell'anima dove si conservano i ricordi, e gli anziani sono quelli che ne hanno di più. Si ritroveranno agli occhi eventi di molte estati prima, volti sorridenti e canzoni d'amore dimenticate, passeggiate in riva a un altro mare ancora più blu. Il caldo, quello vero, sa essere vigliacco e subdolo, e se la prende coi più deboli sfruttando la malinconia.
Sono pochi i giorni del caldo, quello vero. Ma in quei giorni l'atmosfera cambia, e la città diventa un altro posto. Ha il sapore del ghiaccio e l'odore del mare, ma può anche avere il nero colore della morte.
Il caldo, quello vero, viene dall'inferno.
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