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13 nov 2014

Papillon

Il racconto è stato scritto insieme a Cristiana Rossetti, nell'ambito del corso di scrittura organizzato da Lello Gurrado presso Biblioteca di Cernusco sul Naviglio (MI), ottobre 2014.
 
 

Capitolo 1

Il destino a volte ci stupisce, regalandoci un'anima gemella che risponde ai nostri bisogni più intimi e riflette i nostri stati d'animo come se fossimo davanti a uno specchio. Di solito capita in amore, a me è capitato per amicizia.
Mi chiamo Ginevra e ho diciotto anni. Vivo a Roma e sono una ragazza assolutamente normale, che vive in una famiglia borghese, e non ho pretese particolari rispetto ai ragazzi della mia età. Sono stata adottata da piccola, non ricordo nulla dei miei genitori naturali, ma i miei genitori adottivi non mi hanno mai fatto mancare l'affetto che si deve a una figlia, perciò l'adozione è per me solo una nota anagrafica.
 


 La mia timidezza mi porta naturalmente a sviluppare relazioni più virtuali che reali. Si sa che è più facile raccontarsi a uno schermo che a due occhi che ti scrutano nell'anima, e io non faccio eccezione a questa regola. Da qualche mese soprattutto, sono piuttosto pantofolaia e il tempo libero dagli studi - frequento l’Università di scienze sociali - lo trascorro a scrivere. Mi sono iscritta a un sito nel quale è possibile condividere i propri racconti, e ho fatto amicizia con alcuni ragazzi che condividono con me questa passione.
Sono rimasta piuttosto colpita da Julia, una ragazza della mia età. Abbiamo gli stessi gusti letterari e uno stile molto simile nello scrivere, perciò' spesso lavoriamo insieme a dei racconti. Nel privato ci raccontiamo della nostra vita ed è stato sorprendente scoprire le similitudini tra di noi: entrambe adottate, entrambe frequentiamo università di tipo socio-psicologico, entrambe suoniamo il sax e pattiniamo. Entrambe siamo sole, col sogno di un principe che sia più reale che azzurro.
Ci scriviamo soprattutto di notte, fuori dal caos di ogni giorno, quando la città dorme e le anime come le nostre vagano nei tormenti cercando il perché delle cose. Nella mia camera dalle pareti azzurre, seduta a letto e rintanata sotto il piumone, il tablet appoggiato sulle gambe, ascolto le voci di chi parla nel buio. La voce di Julia sembra l'eco della mia ed è sorprendente ogni giorno scoprire un particolare della sua vita che è presente anche nella mia. Non ho sorelle, e se mi fosse concesso di sceglierne una, credo che sceglierei lei. Abbiamo la stessa passione per la psicologia, soprattutto per tutto ciò che ha attinenza con il funzionamento della nostra psiche, le reazioni inconsce, i meccanismi di autodifesa, i conflitti sopiti e l'ipnosi, come strumento per portare alla luce tutto ciò che la nostra mente preferisce rimuovere dallo stadio della coscienza. Una notte abbiamo fatto un gioco tra noi, che abbiamo chiamato "alla ricerca del ricordo perduto", per far emergere in noi il primissimo ricordo di bambine, e la cosa straordinaria è stata che le immagini che avevamo erano molto simili: entrambe giocavamo davanti a uno specchio.
Julia e io amiamo la musica e suoniamo entrambe il sax. Lo abbiamo scelto per motivi diversi: suo papà è un diplomato al conservatorio e l'ha spinta verso la musica fin da piccola. Ha iniziato a suonare il clarinetto, poi ha cambiato strumento e ora studia sax. Io l'ho scelto perché adoro la musica jazz, e mi aveva colpito in particolare un assolo di Clarence Clemons. Entrambe troviamo nella musica un rifugio importante. Quando suoniamo siamo tutt'uno con il nostro strumento, diventiamo allo stesso tempo respiro che corre dall'ancia attraverso il freddo metallo, dita che spingono i tasti quasi meccanicamente, come se conoscessero in ogni istante la posizione da assumere per vibrare all'unisono con i nostri sentimenti, e note che si propagano nell'aria ricongiungendosi nel nostro cuore all'emozione che le ha generate.
Il pattinaggio è il nostro sport preferito, fin da piccole. Quando indossiamo gli stivaletti di pelle, diventiamo due angeli volanti e sfrecciare sulla pista mentre le nostre gambe si incrociano, si allargano e si ricongiungono, ci fa sentire molto vicini a degli angeli.
Questa sorprendente sintonia ha fatto nascere in noi il desiderio di incontrarci, così abbiamo concordato di vederci a Firenze, a metà strada, il 4 novembre, giorno in cui ricorre l'alluvione dell'Arno del 1966. L'acqua è un altro dei nostri elementi comuni, soprattutto quella che vortica nelle tempeste, indomabile come il nostro spirito.
La mattina del 4 novembre avevamo appuntamento presso Santa Maria Novella alle undici. Presi con calma il Freccia Rossa delle nove e mi sedetti sulle poltrone di velluto rosso, rannicchiandomi in quel sedile per dedicarmi a sognare la magia di quell'incontro. Mi chiedevo come sarebbe stata, perché non avevamo fino ad allora sentito nemmeno il bisogno di vederci in fotografia, in fondo non era importante. Avevamo appuntamento al bar proprio di fronte la testata dei binari e avevamo stabilito che non avremmo usato nessuno stupido ausilio, un fiore, un colore, per riconoscerci: ci saremmo riconosciute guardandoci negli occhi.
Il viaggio fu quindi pieno di attesa per quell'evento così particolare della mia vita, e pieno di tensione. Mi domandavo se davvero avremmo saputo riconoscerci tra la gente e che delusione sarebbe stata per noi se avessimo dovuto ricorrere al cellulare, per incontrarci.
Quando arrivai ero in anticipo e gironzolai per la stazione e appena fuori, lungo la strada che dalla stazione di Santa Maria Novella porta al Duomo. Alle undici meno cinque ero in stazione, con il cuore che batteva a mille e un sorriso che sembrava essersi mummificato sul mio volto per la gioia di quell'incontro. Alle undici meno tre ero al bar, davanti alla vetrina, che guardavo le originali composizioni di panettoni che annunciavano il Natale. Alle undici in punto mi specchiai in quella vetrina per controllare che tutto fosse in ordine. Fui contrariata dal vedere che qualcosa in me stonava. Non erano i capelli neri, lunghi e ricci che scendevano ordinati sulle spalle, né gli occhi chiari che luccicavano di gioia. Non erano i vestiti, un paio di jeans e giaccone di pelle con sotto un pullover nero e una camicia bianca.
Ciò che non tornava era che l'immagine sulla vetrina si muoveva diversamente da me, con lo stesso stupore nel volto che probabilmente avevo io. Era insieme essere davanti a uno specchio che si muoveva per dispetto in modo autonomo e l'impressione di essere stata rituffata indietro nel tempo, all'epoca del mio primo ricordo da bambina, fu così forte che per un attimo mi sembrò di svenire.
L'immagine di me riflessa nella vetrina in quell'istante scomparve, per poi comparire più nitida e reale davanti a me, fuori dal bar.
«Ginevra?»
«Julia?»

Capitolo 2

Rimasi sconcertata quando Ginevra si voltò: mi parve di essere davanti ad uno specchio. La somiglianza era stupefacente, sembravamo due gocce d’acqua, non fosse che per quel piccolo neo sopra il mio labbro superiore. Com’era possibile? Avevo sentito parlare della teoria secondo la quale in qualche parte del mondo ciascuno avrebbe un sosia, ma non l’avevo mai creduta possibile. Almeno, fino a quel momento. Feci il giro della vetrina e quando fummo faccia a faccia, mi feci avanti e porsi la mano a Ginevra:
«Ciao, Ginevra, finalmente ci conosciamo di persona.»
«Ciao Julia, piacere di conoscerti, sono... senza parole.» rispose Ginevra.
«Eh, sì, effettivamente, anch’io, mi sembra di vedere… me stessa.» le feci eco.
Superato il primo momento di stupore, ci consultammo su come trascorrere la giornata. Io avevo il treno per Milano alle 20:00, mentre Ginevra l’aveva qualche minuto dopo per rientrare a Roma, ma fino a quel momento eravamo libere di girare per la città, alla quale entrambe eravamo profondamente legate. Era una bella giornata e decidemmo di dirigerci, innanzitutto, verso la zona del mercato coperto, vicino a San Lorenzo, dove volevo comperare qualche specialità toscana da portare a casa, poi di procedere verso il Ponte Vecchio, fermandoci ad ammirare il Duomo, e quindi passare dalla parte opposta dell’Arno. A quel punto avremmo deciso cosa fare: andare verso il Giardino di Boboli o dirigerci verso il Forte di Belvedere dal quale si poteva ammirare l’intera città. Con questo programma di massima, uscimmo dalla stazione e ci dirigemmo verso la nostra prima tappa.
Strada facendo, parlammo del più e del meno, di come avevamo passato la settimana e di come erano le nostre famiglie adottive. Raccontai a Ginevra che mia  mamma è molto protettiva, e che questo suo atteggiamento risale a quando da piccola avevo trascorso molto tempo in ospedale per una malattia. Io talvolta mi sento soffocare e, per reazione, quando capita, mi rifugio in camera a suonare il sax.
«Non so che dire,» mi disse Ginevra, «mia mamma vuole sempre sapere dove vado con chi vado a che ora torno. Forse anche questa è una forma di iper-protezione. Non sono stata in ospedale come te tanto tempo, ma anch’io sono un po’ cagionevole di salute, sarà quello?”
Giungemmo al mercato coperto, animato anche all’esterno da tante bancarelle coloratissime e cariche di oggetti in pelle di artigianato locale. Come me, anche Ginevra era affascinata dai portafogli. In particolare, ce n’era uno che conteneva due elastici e mi ricordava un gioco di mio nonno, per cui a seconda di come si apriva, la banconota in mezzo si trovava bloccata o libera per essere usata.
«Questi oggetti mi piacciono da morire,» dissi a Ginevra. «Quasi quasi me ne prendo uno, così ho anche un ricordo del nostro incontro.»
«Hai ragione,» concordò Ginevra, «lo prendo anch’io, perché piacciono anche a me. In effetti anch’io ho qualche ricordo, vago. Mi pare di aver visto un gioco simile, ma non so né dove, né quando.» Così comprammo due di questi piccoli portafogli, Ginevra lo prese con colori prevalentemente solari, mentre io sul verde acqua.
A chi ci incrociava, sembravamo due gemelle in giro per la città; notammo perfino di avere la stessa camminata – passo rapido, falcata lunga – e la stessa abitudine di fermarci improvvisamente e voltarci di scatto ad ammirare una vetrina o una bancarella. Fu proprio la  proprietaria di una bancarella di sciarpe e pashmine, che ci mise la pulce nell’orecchio, chiedendomi, mentre ammiravo una sciarpa colorata, se desideravo regalarla a mia sorella, visto che i colori le si addicevano. Rimasi di stucco e replicai:
«No signora, si sbaglia, non siamo sorelle! È vero, c’è una forte somiglianza, ma... non lo siamo.»
Anche Ginevra intervenne: «No signora, si sbaglia, abitiamo in città diverse, abbiamo genitori diversi, siamo amiche e siamo qui di passaggio.»
La signora rimase perplessa, ma non disse nulla, forse perché aveva notato che effettivamente avevamo due accenti differenti, una romano e l’altra milanese. 
Ci allontanammo in direzione del Ponte Vecchio, mentre Ginevra mi diceva di voler cercare un paio di orecchini da abbinare a un ciondolo cui era molto legata. Stavamo attraversando il Ponte, quando fummo attratte dalla vetrina di una di quelle antiche gioiellerie, ove erano esposti oggetti d’oro e d’argento, antichi e moderni. Ginevra fu affascinata da qualcosa e mi fece cenno di entrare nel negozio. Non c’era nessuno, in quel momento. Il proprietario del negozio si avvicinò e ci chiese in cosa poteva servirci. Ginevra gli indicò degli orecchini in vetrina, l’uomo li prese e li posò sul bancone.
Fu allora che notai con stupore che il disegno richiamava un ciondolo che possedevo anch’io e quando sollevai lo sguardo verso Ginevra, lei aveva portato la mano al collo e stava mostrando all’uomo un pendente simile al mio, aggiungendo: «Volevo un paio di orecchini simili a questo a cui sono molto legata. Lei che ne pensa?»
L’uomo le chiese di toglierselo e di posarlo sul bancone per osservarlo meglio. Ginevra obbedì e lo posò. Rimasi senza parole: sembrava una farfalla, con il corpo a metà e un’ala soltanto.  Istintivamente portai anch’io la mano al collo per accertarmi che il mio ciondolo fosse ancora lì: non era identico a quello di Ginevra, era simmetricamente l’opposto. Me lo tolsi immediatamente , e lo appoggiai sul bancone, accanto a quello di Ginevra. Le due metà combaciavano perfettamente. L’uomo le prese in mano entrambe, le fissò e ci spiegò: «Sono state separate nel centro, ma, vedete, la cerniera permette di fissarle insieme. E’ un gioiello antico, molto prezioso. Direi che risale al 16 secolo. Se notate, i due diamanti su ciascuna ala sono uguali. Mi ricorda lo stemma di una casata nobiliare europea, Si tratta dello stesso gioiello.» Ginevra mi guardava ammutolita, mentre l’uomo continuava: «Sicuramente l’avrete avuto dai nonni o dai vostri genitori, non è così?»
Io risposi prontamente: “Io l’ho avuto da mia mamma che mi ha sempre raccomandato di tenerlo con me, perché è molto prezioso.» E Ginevra aggiunse: «Anch’io l’ho avuto da mia mamma.» L’uomo ci guardò e ci chiese: «Ma, non siete sorelle?» Ancora sconcertate da quella scoperta, facemmo le spallucce e ci riprendemmo ciascuna la propria metà del ciondolo. Poi Ginevra acquistò gli orecchini, ringraziammo e uscimmo dal negozio.
Scombussolate e piene di interrogativi che necessitavano una risposta, decidemmo di fermarci a mangiare qualcosa per riflettere. Sedute a un caffè, cercammo di risalire con la memoria ad eventi del passato precedenti all’adozione, ma avevamo sensazioni, più che certezze, così decidemmo che appena tornate a casa, saremmo andate alla scoperta di quel filo invisibile che ci univa.

Capitolo 3

«In araldica, la farfalla, l’insetto più gentile e l’unico grazioso, simboleggia l’uomo virtuoso che cerca il lume della virtù. È una figura abbastanza rara.» Avevo cercato subito qualcosa sulla farfalla sul mio smart-phone, e lo leggevo ad alta voce a Julia, mentre addentavamo un panino appollaiate ad una rastrelliera del bar I fratellini, vicino a Ponte Vecchio.
«Se è rara, non dovrebbe essere difficile trovare notizie sulla nostra famiglia, non credi?» osservò Julia.
Oramai davamo per scontato che fra di noi ci fosse un legame molto più forte di una semplice amicizia. Tutte le coincidenze che avevamo osservato tra di noi erano ben più che incastri del caso e imbrogli della vita. Avevano un fondamento reale che era custodito in noi e che entrambe, a questo punto, volevamo scoprire.
«Bingo!» dissi, scorrendo freneticamente il dito sullo schermo del telefono. «Ghislardi, di Faenza e Palazzo Ghislardi Fava a Bologna... aspetta, aspetta. Guarda questa nota sulla Pietra di Bologna, un epitaffio funebre irrisolto che termina con questi versi: Questo è un sepolcro che non contiene salma / questa è una salma che non è contenuta da un sepolcro/ma la salma stessa è a sé sepolcro. I cavalieri templari... mio Dio, quasi mi spaventa!»
«Non ti perdere, Ginevra...» mi rimproverò Julia. «il gioielliere ha parlato di una casata europea, non italiana. Prova a cercare Butterfly heraldry.» mi suggerì.
Eravamo eccitate, questo non posso  negarlo, forse io più di lei, che nonostante tutto manteneva una flemma, è il caso di dirlo, “inglese”. Fu così che tra i milioni di link che potevano apparirmi, ancora una volta il destino ci venne incontro.
«Papillon. Si può dire anche così, vero? » chiesi a Julia. Il suo nome straniero improvvisamente mi suggeriva che l’Inghilterra era un buon punto di partenza per la nostra ricerca. «Papillon Family Crest and Name History. »
«Papillon è francese, a dire il vero. Non so perché ma mi sembra la strada giusta... prova a leggere...»
«Primi ritrovamenti in Essex... influenza normanna nella storia inglese, il linguaggio a corte era il francese...  sì, ma qui non ne usciamo più... »
«Prova ancora “Papillon England Italy”.»
Sapevamo dentro di noi che quella era la strada giusta, ma tra tutti quei link, trovare quello giusto sembrava un’impresa. E invece Julia aveva visto giusto. Ed ecco, David Papillon, membro del Parlamento nel 1649, sposato in seconde nozze a Anna Marie Calandrini, figlia di Giovanni Calandrini e Marie Desmaistres. Giovanni Calandrini, figlio di Giuliano... Giuliano, Julia.
«Giuliano Calandrini, Lucca. Senti, ma se ci andassimo ora? » proposi a Julia.
Rinunciammo a Boboli e rientrammo in stazione per prendere il primo treno per Lucca. Era impensabile, dopo tutte quelle coincidenze, che il destino non fosse stato dalla nostra parte. Durante il viaggio cercammo l’indirizzo di questo signore e appena arrivati a Lucca prendemmo un taxi.
L’autista ci fermò davanti a un cancello in ferro battuto e mura in pietra grezza che ci richiamò alla mente le fortezze medievali. Non riuscivamo nemmeno a vedere la villa alla fine del viale alberato ma ci consolò l’idea che quel posto era degno di una famiglia tracciata più volte nei siti di araldica. Julia suonò al citofono e una voce ferma e risoluta ci gelò le vene. Non riuscimmo a vincere la resistenza di quello che scoprimmo poi essere un maggiordomo, ma una simpatica donna anziana passeggiava proprio nel viale di fronte a noi, spinta su una sedie a rotelle da una domestica giovane e carina. Ci confessò, qualche tempo dopo, che l’avevamo incuriosita abbastanza, così giovani e sperdute, e per questo aveva ordinato alla sua accompagnatrice di aprirci il cancello.
«Mi chiamo Anne Marie.  E sono la madre di Giuliano. Giuliano è morto, circa diciotto anni fa. Come mai cercavate Giuliano? »
Fu istintivo per me non rispondere con le parole, ma portare la mano al mio collo e mostrarle il gioiello prezioso nascosto sotto i vestiti. Julia mi guardò e fece altrettanto. Anne Marie restò sbigottita e senza parole, i suoi occhi iniziarono a vagare da una all’altra con un’emozione visibile sulle mani che si appoggiavano ai braccioli e le gambe che premevano sui poggiapiedi della sedia. Avrebbe voluto dirci qualcosa, si capiva dagli occhi brillanti e vispi e dai muscoli tesi della faccia. Avrebbe voluto afferrare quelle mezze farfalle per unirle in un volo, ma dopo poco, inspiegabilmente quel tumulto interiore cessò:
«Entrate, vi offro un tè.» disse imbronciando il labbro sul quale spuntava un dispettoso piccolo neo, quasi uno scarabocchio su quel viso anziano ma ancora piuttosto bello.
Sedute a un tavolino sotto uno splendido gazebo, davanti a tazze di tè di porcellana fine inglese, Anne Marie ci raccontò la storia della sua famiglia. Molte ore dopo, verso l’imbrunire, ci chiese di restare a cena da lei e si offrì di ospitarci per la notte. Scampanellò più volte per chiamare la domestica, che arrivò asciugandosi le mani e rimettendosi in ordine i capelli come se fosse stata colta di sorpresa, e chiese:
«È sveglia?» La domestica fece un cenno con la testa e Anne Marie si rivolse a noi: «Venite con me.»
Sembrava una processione. Davanti Anne Marie e la domestica che spingeva la sedia a rotelle lentamente, un passo dopo l’altro. Dietro Julia, timorosa perfino di girarsi a guardarmi. E infine io. Attraversammo lunghi corridoi dalle pareti di legno, ornati di quadri di antichi nobili. Cassettoni antichi appoggiati alle pareti ci accompagnavano in quello che avrebbe potuto essere un viaggio nell’antico passato di quella famiglia. Cosa ci facevamo lì e cosa ci aspettava alla fine di quel lungo corridoio non ci era ancora dato saperlo, ma era netta in me l’impressione che qualche straordinario segreto stava per esserci svelato.
La domestica si fermò davanti ad una grossa porta in noce, l’aprì, portò Anne Marie nella stanza in penombra e poi si affacciò per farci cenno di entrare. Un grosso letto a baldacchino era su un lato della stanza, con qualche candela che illuminava debolmente un viso anziano di donna. Il corpo sotto quelle coperte doveva essere ben piccolo, forse macerato da un dolore di lunga data.
«Geneviève, ti avevo detto che prima o poi sarebbero tornate.»
Sussultai quando udii un nome così vicino al mio, ma ancor più quando quello scricciolo di donna si voltò verso di noi.

Capitolo 4

Feci un sobbalzo quando la donna si girò: era identica ad Anne Marie tranne per il neo, e la somiglianza delle due donne era impressionante. Ginevra ed io ci guardammo con gli occhi sgranati, non capivamo, mentre le due donne rimanevano in silenzio. Geneviève aveva sollevato lo sguardo di sopra le coperte, con le lenzuola a mò di scudo, quasi a volersi proteggere da un ennesimo dolore. Ci fissò da quella posizione per un po’, in silenzio. Finalmente parlò.
“Ginevra? Julia?”
Rimanemmo interdette. Come faceva a conoscere i nostri nomi? Anne Marie non li aveva menzionati e noi non ci eravamo presentate.
Come risvegliandosi da un lungo sonno, il viso della donna si rianimò leggermente, le gote presero un po’ di colore, come se improvvisamente il sangue avesse ripreso a circolare in quel corpo emaciato. Non aspettandosi una risposta, proseguì: “Ho sempre sperato che un giorno sareste tornate! Il mio desiderio si è avverato!”
Ginevra ed io ci guardammo sempre più perplesse. Finalmente intervenne Anne Marie. “Care ragazze, capisco la vostra perplessità, ora vi spiego cosa è successo. Tanti anni fa, mio figlio Giuliano si era trasferito in Inghilterra per lavoro. Qui aveva conosciuto la sua seconda moglie, Yvette che gli aveva dato una splendida bambina. Per festeggiare questo evento, Giuliano aveva fatto una sorpresa a sua moglie e aveva organizzato un viaggio - una sorta di seconda luna di miele, loro due soli - alle Hawaii. La bambina era rimasta a casa con me e la tata, Dorothy. Purtroppo nessuno di noi sapeva che non li avremmo mai visti tornare da quel viaggio, perché sulla via del ritorno dall’Isola di Hawaii l’elicottero sul quale viaggiavano precipitò per una tempesta.”
“Ma perché la bambina non rimase con lei, Anne Marie?” chiesi.
Intervenne Geneviève, che prese un po’ di coraggio, sentendo parlare Anne Marie.
“Giuliano non aveva fratelli, ma era molto legato a mio figlio, Giovanni, che come seppe dell’accaduto, volle prendersi cura della bambina, che allora non aveva nemmeno un anno. Lui viveva in Italia e si era appena sposato con Marina, la quale gli aveva dato una figlia più o meno della stessa età. Le avrebbe cresciute insieme, come sorelle così le due bambine si sarebbero tenute compagnia. Ma il destino ci era avverso: pochi mesi dopo, durante un breve soggiorno a Crotone per lavoro, dove si era recato con la moglie e le due bambine, il 14 ottobre 1996, Giovanni e la moglie furono investiti da un’alluvione in cui persero la vita. Le due bambine si salvarono grazie ai pianti e alla tenace ricerca dei soccorritori e dei cani che le ritrovarono in una culla in una zona sopraelevata rispetto alla zona alluvionata.”
“Che ne è stato delle bambine?” chiese Ginevra.
Seguì un lungo momento di silenzio: le due donne anziane si guardarono, e, come consultandosi silenziosamente, annuirono. Era giunto il momento di rivelare loro la verità.
Anne Marie riprese a parlare e disse: “Dopo l’alluvione cercarono i parenti più prossimi alle bambine, ossia le nonne. Ci prendemmo in cura ciascuna la propria nipotina, e le avremmo trattenute con noi, se non fosse stato per i nonni che si opposero a causa di vecchi dissapori con i rispettivi figli, contrasti che li avevano allontanati da casa e dalla famiglia. Fu così che ci costrinsero a metterci in contatto con un ente che si occupava di adozioni e le due bambine di lì a poco vennero nuovamente separate l’una dall’altra per diventare parte di altre famiglie, che avevano tanto desiderato avere dei figli, ma che non erano mai arrivati. Mia nipote andò in Lombardia”, “mentre la mia andò nel Lazio” proseguì Genevieve. “Fu un dolore straziante per noi”, aggiunse, “sapere che non potevamo cercarle, sapere come stavano, farci vive.” “Prima di lasciarle andare, affidammo ai futuri genitori un oggetto che chiedemmo loro di far avere alle bambine, quando fossero un po’ cresciute. Li pregammo anche di non menzionarne mai la provenienza, casomai fossero state mosse dalla tipica curiosità dei ragazzi.”
“E l'oggetto sarebbe...” chiedemmo contemporaneamente, io e Ginevra, portandoci d'istinto la mano al collo.
Anne Marie e Geneviève si fissarono brevemente e risposero: “Ciascuna ricevette la metà di una farfalla, un antico gioiello di famiglia dei Papillon.”
Rimanemmo a bocca aperta, mentre le mani sfioravano quel cimelio di famiglia che ci assegnava un ruolo, un’appartenenza in questo angolo della Toscana. “Ma allora, noi siamo …” Non riuscii a terminare la frase. Anne Marie e Genevieve, con le lacrime agli occhi, la completarono per me. “Siete cugine, siete seconde cugine e siete le nostre nipotine.”
***
Guardai Genevieve e lei guardo' me. Senza nemmeno parlarci, ci sfilammo le nostre collane, e ce le scambiammo, come una muta promessa nuziale.
 Il destino a volte ci stupisce, regalandoci un'anima gemella che risponde ai nostri bisogni più intimi e riflette i nostri stati d'animo come se fossimo davanti ad uno specchio. Ma adesso tornava tutto, tornava anche il tempo perduto, magicamente ricomposto su quelle piccole ali di farfalla che battevano ai margini del nostro cuore.

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