Il racconto è stato scritto insieme a Cristiana Rossetti, nell'ambito del corso di scrittura organizzato da Lello Gurrado presso Biblioteca di Cernusco sul Naviglio (MI), ottobre 2014.
Capitolo 1

Mi chiamo Ginevra e ho diciotto anni. Vivo a Roma e sono
una ragazza assolutamente normale, che vive in una famiglia borghese, e non ho
pretese particolari rispetto ai ragazzi della mia età. Sono stata adottata da
piccola, non ricordo nulla dei miei genitori naturali, ma i miei genitori
adottivi non mi hanno mai fatto mancare l'affetto che si deve a una figlia,
perciò l'adozione è per me solo una nota anagrafica.
Sono rimasta piuttosto colpita da Julia, una ragazza
della mia età. Abbiamo gli stessi gusti letterari e uno stile molto simile
nello scrivere, perciò' spesso lavoriamo insieme a dei racconti. Nel privato ci
raccontiamo della nostra vita ed è stato sorprendente scoprire le similitudini
tra di noi: entrambe adottate, entrambe frequentiamo università di tipo
socio-psicologico, entrambe suoniamo il sax e pattiniamo. Entrambe siamo sole,
col sogno di un principe che sia più reale che azzurro.
Ci scriviamo soprattutto di notte, fuori dal caos di ogni
giorno, quando la città dorme e le anime come le nostre vagano nei tormenti
cercando il perché delle cose. Nella mia camera dalle pareti azzurre, seduta a
letto e rintanata sotto il piumone, il tablet appoggiato sulle gambe, ascolto
le voci di chi parla nel buio. La voce di Julia sembra l'eco della mia ed è
sorprendente ogni giorno scoprire un particolare della sua vita che è presente
anche nella mia. Non ho sorelle, e se mi fosse concesso di sceglierne una,
credo che sceglierei lei. Abbiamo la stessa passione per la psicologia,
soprattutto per tutto ciò che ha attinenza con il funzionamento della nostra
psiche, le reazioni inconsce, i meccanismi di autodifesa, i conflitti sopiti e
l'ipnosi, come strumento per portare alla luce tutto ciò che la nostra mente
preferisce rimuovere dallo stadio della coscienza. Una notte abbiamo fatto un
gioco tra noi, che abbiamo chiamato "alla ricerca del ricordo
perduto", per far emergere in noi il primissimo ricordo di bambine, e la
cosa straordinaria è stata che le immagini che avevamo erano molto simili:
entrambe giocavamo davanti a uno specchio.
Julia e io amiamo la musica e suoniamo entrambe il sax.
Lo abbiamo scelto per motivi diversi: suo papà è un diplomato al conservatorio
e l'ha spinta verso la musica fin da piccola. Ha iniziato a suonare il
clarinetto, poi ha cambiato strumento e ora studia sax. Io l'ho scelto perché
adoro la musica jazz, e mi aveva colpito in particolare un assolo di Clarence
Clemons. Entrambe troviamo nella musica un rifugio importante. Quando suoniamo
siamo tutt'uno con il nostro strumento, diventiamo allo stesso tempo respiro
che corre dall'ancia attraverso il freddo metallo, dita che spingono i tasti
quasi meccanicamente, come se conoscessero in ogni istante la posizione da
assumere per vibrare all'unisono con i nostri sentimenti, e note che si
propagano nell'aria ricongiungendosi nel nostro cuore all'emozione che le ha
generate.
Il pattinaggio è il nostro sport preferito, fin da
piccole. Quando indossiamo gli stivaletti di pelle, diventiamo due angeli
volanti e sfrecciare sulla pista mentre le nostre gambe si incrociano, si
allargano e si ricongiungono, ci fa sentire molto vicini a degli angeli.
Questa sorprendente sintonia ha fatto nascere in noi il
desiderio di incontrarci, così abbiamo concordato di vederci a Firenze, a metà
strada, il 4 novembre, giorno in cui ricorre l'alluvione dell'Arno del 1966.
L'acqua è un altro dei nostri elementi comuni, soprattutto quella che vortica
nelle tempeste, indomabile come il nostro spirito.
La mattina del 4 novembre avevamo appuntamento presso
Santa Maria Novella alle undici. Presi con calma il Freccia Rossa delle nove e
mi sedetti sulle poltrone di velluto rosso, rannicchiandomi in quel sedile per
dedicarmi a sognare la magia di quell'incontro. Mi chiedevo come sarebbe stata,
perché non avevamo fino ad allora sentito nemmeno il bisogno di vederci in
fotografia, in fondo non era importante. Avevamo appuntamento al bar proprio di
fronte la testata dei binari e avevamo stabilito che non avremmo usato nessuno
stupido ausilio, un fiore, un colore, per riconoscerci: ci saremmo riconosciute
guardandoci negli occhi.
Il viaggio fu quindi pieno di attesa per quell'evento
così particolare della mia vita, e pieno di tensione. Mi domandavo se davvero
avremmo saputo riconoscerci tra la gente e che delusione sarebbe stata per noi
se avessimo dovuto ricorrere al cellulare, per incontrarci.
Quando arrivai ero in anticipo e gironzolai per la
stazione e appena fuori, lungo la strada che dalla stazione di Santa Maria Novella
porta al Duomo. Alle undici meno cinque ero in stazione, con il cuore che
batteva a mille e un sorriso che sembrava essersi mummificato sul mio volto per
la gioia di quell'incontro. Alle undici meno tre ero al bar, davanti alla
vetrina, che guardavo le originali composizioni di panettoni che annunciavano
il Natale. Alle undici in punto mi specchiai in quella vetrina per controllare
che tutto fosse in ordine. Fui contrariata dal vedere che qualcosa in me
stonava. Non erano i capelli neri, lunghi e ricci che scendevano ordinati sulle
spalle, né gli occhi chiari che luccicavano di gioia. Non erano i vestiti, un
paio di jeans e giaccone di pelle con sotto un pullover nero e una camicia
bianca.
Ciò che non tornava era che l'immagine sulla vetrina si
muoveva diversamente da me, con lo stesso stupore nel volto che probabilmente
avevo io. Era insieme essere davanti a uno specchio che si muoveva per dispetto
in modo autonomo e l'impressione di essere stata rituffata indietro nel tempo,
all'epoca del mio primo ricordo da bambina, fu così forte che per un attimo mi sembrò
di svenire.
L'immagine di me riflessa nella vetrina in quell'istante
scomparve, per poi comparire più nitida e reale davanti a me, fuori dal bar.
«Ginevra?»
«Julia?»
Capitolo 2
Rimasi sconcertata quando Ginevra si voltò: mi parve di
essere davanti ad uno specchio. La somiglianza era stupefacente, sembravamo due
gocce d’acqua, non fosse che per quel piccolo neo sopra il mio labbro
superiore. Com’era possibile? Avevo sentito parlare della teoria secondo la
quale in qualche parte del mondo ciascuno avrebbe un sosia, ma non l’avevo mai
creduta possibile. Almeno, fino a quel momento. Feci il giro della vetrina e
quando fummo faccia a faccia, mi feci avanti e porsi la mano a Ginevra:
«Ciao,
Ginevra, finalmente ci conosciamo di persona.»
«Ciao
Julia, piacere di conoscerti, sono... senza parole.» rispose Ginevra.
«Eh,
sì, effettivamente, anch’io, mi sembra di vedere… me stessa.» le feci eco.
Superato il primo momento di stupore, ci consultammo su
come trascorrere la giornata. Io avevo il treno per Milano alle 20:00, mentre
Ginevra l’aveva qualche minuto dopo per rientrare a Roma, ma fino a quel
momento eravamo libere di girare per la città, alla quale entrambe eravamo profondamente
legate. Era una bella giornata e decidemmo di dirigerci, innanzitutto, verso la
zona del mercato coperto, vicino a San Lorenzo, dove volevo comperare qualche
specialità toscana da portare a casa, poi di procedere verso il Ponte Vecchio, fermandoci
ad ammirare il Duomo, e quindi passare dalla parte opposta dell’Arno. A quel
punto avremmo deciso cosa fare: andare verso il Giardino di Boboli o dirigerci verso
il Forte di Belvedere dal quale si poteva ammirare l’intera città. Con questo
programma di massima, uscimmo dalla stazione e ci dirigemmo verso la nostra prima
tappa.
Strada facendo, parlammo del più e del meno, di come avevamo
passato la settimana e di come erano le nostre famiglie adottive. Raccontai a
Ginevra che mia mamma è molto
protettiva, e che questo suo atteggiamento risale a quando da piccola avevo
trascorso molto tempo in ospedale per una malattia. Io talvolta mi sento
soffocare e, per reazione, quando capita, mi rifugio in camera a suonare il
sax.
«Non
so che dire,» mi disse Ginevra,
«mia mamma vuole sempre
sapere dove vado con chi vado a che ora torno. Forse anche questa è una forma
di iper-protezione. Non sono stata in ospedale come te tanto tempo, ma anch’io
sono un po’ cagionevole di salute, sarà quello?”
Giungemmo al mercato coperto, animato anche all’esterno
da tante bancarelle coloratissime e cariche di oggetti in pelle di artigianato
locale. Come me, anche Ginevra era affascinata dai portafogli. In particolare,
ce n’era uno che conteneva due elastici e mi ricordava un gioco di mio nonno, per
cui a seconda di come si apriva, la banconota in mezzo si trovava bloccata o
libera per essere usata.
«Questi
oggetti mi piacciono da morire,»
dissi a Ginevra. «Quasi
quasi me ne prendo uno, così ho anche un ricordo del nostro incontro.»
«Hai
ragione,» concordò Ginevra,
«lo prendo anch’io, perché
piacciono anche a me. In effetti anch’io ho qualche ricordo, vago. Mi pare di
aver visto un gioco simile, ma non so né dove, né quando.» Così comprammo due di questi
piccoli portafogli, Ginevra lo prese con colori prevalentemente solari, mentre io
sul verde acqua.
A chi ci incrociava, sembravamo due gemelle in giro per
la città; notammo perfino di avere la stessa camminata – passo rapido, falcata
lunga – e la stessa abitudine di fermarci improvvisamente e voltarci di scatto
ad ammirare una vetrina o una bancarella. Fu proprio la proprietaria di una bancarella di sciarpe e
pashmine, che ci mise la pulce nell’orecchio, chiedendomi, mentre ammiravo una
sciarpa colorata, se desideravo regalarla a mia sorella, visto che i colori le
si addicevano. Rimasi di stucco e replicai:
«No
signora, si sbaglia, non siamo sorelle! È vero, c’è una forte somiglianza, ma...
non lo siamo.»
Anche Ginevra intervenne: «No
signora, si sbaglia, abitiamo in città diverse, abbiamo genitori diversi, siamo
amiche e siamo qui di passaggio.»
La signora rimase perplessa, ma non disse nulla, forse
perché aveva notato che effettivamente avevamo due accenti differenti, una romano
e l’altra milanese.
Ci allontanammo in direzione del Ponte Vecchio, mentre
Ginevra mi diceva di voler cercare un paio di orecchini da abbinare a un
ciondolo cui era molto legata. Stavamo attraversando il Ponte, quando fummo
attratte dalla vetrina di una di quelle antiche gioiellerie, ove erano esposti
oggetti d’oro e d’argento, antichi e moderni. Ginevra fu affascinata da
qualcosa e mi fece cenno di entrare nel negozio. Non c’era nessuno, in quel
momento. Il proprietario del negozio si avvicinò e ci chiese in cosa poteva
servirci. Ginevra gli indicò degli orecchini in vetrina, l’uomo li prese e li
posò sul bancone.
Fu allora che notai con stupore che il disegno richiamava
un ciondolo che possedevo anch’io e quando sollevai lo sguardo verso Ginevra,
lei aveva portato la mano al collo e stava mostrando all’uomo un pendente
simile al mio, aggiungendo: «Volevo
un paio di orecchini simili a questo a cui sono molto legata. Lei che ne pensa?»

Io risposi prontamente: “Io l’ho avuto da mia mamma che
mi ha sempre raccomandato di tenerlo con me, perché è molto prezioso.» E Ginevra aggiunse: «Anch’io l’ho avuto da mia mamma.» L’uomo ci guardò e ci chiese: «Ma, non siete sorelle?» Ancora sconcertate da quella
scoperta, facemmo le spallucce e ci riprendemmo ciascuna la propria metà del
ciondolo. Poi Ginevra acquistò gli orecchini, ringraziammo e uscimmo dal
negozio.
Scombussolate e piene di interrogativi che necessitavano
una risposta, decidemmo di fermarci a mangiare qualcosa per riflettere. Sedute
a un caffè, cercammo di risalire con la memoria ad eventi del passato
precedenti all’adozione, ma avevamo sensazioni, più che certezze, così
decidemmo che appena tornate a casa, saremmo andate alla scoperta di quel filo
invisibile che ci univa.
Capitolo 3
«In
araldica, la farfalla, l’insetto più gentile e l’unico grazioso, simboleggia
l’uomo virtuoso che cerca il lume della virtù. È una figura abbastanza rara.» Avevo cercato subito qualcosa
sulla farfalla sul mio smart-phone, e lo leggevo ad alta voce a Julia, mentre
addentavamo un panino appollaiate ad una rastrelliera del bar I fratellini,
vicino a Ponte Vecchio.
«Se è
rara, non dovrebbe essere difficile trovare notizie sulla nostra famiglia, non
credi?» osservò Julia.
Oramai davamo per scontato che fra di noi ci fosse un
legame molto più forte di una semplice amicizia. Tutte le coincidenze che
avevamo osservato tra di noi erano ben più che incastri del caso e imbrogli
della vita. Avevano un fondamento reale che era custodito in noi e che
entrambe, a questo punto, volevamo scoprire.
«Bingo!» dissi, scorrendo freneticamente
il dito sullo schermo del telefono. «Ghislardi,
di Faenza e Palazzo Ghislardi Fava a Bologna... aspetta, aspetta. Guarda questa
nota sulla Pietra di Bologna, un epitaffio funebre irrisolto che termina con
questi versi: Questo è un sepolcro che
non contiene salma / questa è una salma che non è contenuta da un sepolcro/ma
la salma stessa è a sé sepolcro. I cavalieri templari... mio Dio, quasi mi
spaventa!»
«Non ti perdere, Ginevra...» mi rimproverò Julia. «il gioielliere ha parlato di una
casata europea, non italiana. Prova a cercare Butterfly heraldry.»
mi suggerì.
Eravamo eccitate, questo non posso negarlo, forse io più di lei, che nonostante
tutto manteneva una flemma, è il caso di dirlo, “inglese”. Fu così che tra i
milioni di link che potevano apparirmi, ancora una volta il destino ci venne
incontro.
«Papillon. Si può dire anche così, vero? » chiesi a Julia. Il suo nome
straniero improvvisamente mi suggeriva che l’Inghilterra era un buon punto di
partenza per la nostra ricerca. «Papillon Family Crest and Name History. »
«Papillon è francese, a dire il vero. Non so perché ma mi
sembra la strada giusta... prova a leggere...»
«Primi
ritrovamenti in Essex... influenza normanna nella storia inglese, il linguaggio
a corte era il francese... sì, ma qui
non ne usciamo più... »
«Prova
ancora “Papillon England Italy”.»
Sapevamo dentro di noi che quella era la strada giusta,
ma tra tutti quei link, trovare quello giusto sembrava un’impresa. E invece
Julia aveva visto giusto. Ed ecco, David Papillon, membro del Parlamento nel
1649, sposato in seconde nozze a Anna Marie Calandrini, figlia di Giovanni
Calandrini e Marie Desmaistres. Giovanni Calandrini, figlio di Giuliano...
Giuliano, Julia.
«Giuliano Calandrini, Lucca. Senti, ma se ci andassimo
ora? » proposi a Julia.
Rinunciammo a Boboli e rientrammo in stazione per
prendere il primo treno per Lucca. Era impensabile, dopo tutte quelle
coincidenze, che il destino non fosse stato dalla nostra parte. Durante il
viaggio cercammo l’indirizzo di questo signore e appena arrivati a Lucca
prendemmo un taxi.
L’autista ci fermò davanti a un cancello in ferro battuto
e mura in pietra grezza che ci richiamò alla mente le fortezze medievali. Non
riuscivamo nemmeno a vedere la villa alla fine del viale alberato ma ci consolò
l’idea che quel posto era degno di una famiglia tracciata più volte nei siti di
araldica. Julia suonò al citofono e una voce ferma e risoluta ci gelò le vene.
Non riuscimmo a vincere la resistenza di quello che scoprimmo poi essere un
maggiordomo, ma una simpatica donna anziana passeggiava proprio nel viale di
fronte a noi, spinta su una sedie a rotelle da una domestica giovane e carina. Ci
confessò, qualche tempo dopo, che l’avevamo incuriosita abbastanza, così
giovani e sperdute, e per questo aveva ordinato alla sua accompagnatrice di
aprirci il cancello.
«Mi chiamo Anne Marie.
E sono la madre di Giuliano. Giuliano è morto, circa diciotto anni fa. Come
mai cercavate Giuliano? »
Fu istintivo per me non rispondere con le parole, ma
portare la mano al mio collo e mostrarle il gioiello prezioso nascosto sotto i
vestiti. Julia mi guardò e fece altrettanto. Anne Marie restò sbigottita e
senza parole, i suoi occhi iniziarono a vagare da una all’altra con un’emozione
visibile sulle mani che si appoggiavano ai braccioli e le gambe che premevano
sui poggiapiedi della sedia. Avrebbe voluto dirci qualcosa, si capiva dagli
occhi brillanti e vispi e dai muscoli tesi della faccia. Avrebbe voluto
afferrare quelle mezze farfalle per unirle in un volo, ma dopo poco,
inspiegabilmente quel tumulto interiore cessò:
«Entrate, vi offro un tè.» disse imbronciando il labbro
sul quale spuntava un dispettoso piccolo neo, quasi uno scarabocchio su quel
viso anziano ma ancora piuttosto bello.
Sedute a un tavolino sotto uno splendido gazebo, davanti
a tazze di tè di porcellana fine inglese, Anne Marie ci raccontò la storia
della sua famiglia. Molte ore dopo, verso l’imbrunire, ci chiese di restare a
cena da lei e si offrì di ospitarci per la notte. Scampanellò più volte per
chiamare la domestica, che arrivò asciugandosi le mani e rimettendosi in ordine
i capelli come se fosse stata colta di sorpresa, e chiese:
«È sveglia?»
La domestica fece un cenno con la testa e Anne Marie si rivolse a noi: «Venite con me.»
Sembrava una processione. Davanti Anne Marie e la
domestica che spingeva la sedia a rotelle lentamente, un passo dopo l’altro.
Dietro Julia, timorosa perfino di girarsi a guardarmi. E infine io.
Attraversammo lunghi corridoi dalle pareti di legno, ornati di quadri di
antichi nobili. Cassettoni antichi appoggiati alle pareti ci accompagnavano in
quello che avrebbe potuto essere un viaggio nell’antico passato di quella
famiglia. Cosa ci facevamo lì e cosa ci aspettava alla fine di quel lungo
corridoio non ci era ancora dato saperlo, ma era netta in me l’impressione che
qualche straordinario segreto stava per esserci svelato.
La domestica si fermò davanti ad una grossa porta in
noce, l’aprì, portò Anne Marie nella stanza in penombra e poi si affacciò per
farci cenno di entrare. Un grosso letto a baldacchino era su un lato della
stanza, con qualche candela che illuminava debolmente un viso anziano di donna.
Il corpo sotto quelle coperte doveva essere ben piccolo, forse macerato da un
dolore di lunga data.
«Geneviève, ti avevo detto che prima o poi sarebbero
tornate.»
Sussultai quando udii un nome così vicino al mio, ma
ancor più quando quello scricciolo di donna si voltò verso di noi.
Capitolo 4
Feci un sobbalzo quando la donna si girò: era identica ad
Anne Marie tranne per il neo, e la somiglianza delle due donne era
impressionante. Ginevra ed io ci guardammo con gli occhi sgranati, non
capivamo, mentre le due donne rimanevano in silenzio. Geneviève aveva sollevato
lo sguardo di sopra le coperte, con le lenzuola a mò di scudo, quasi a volersi
proteggere da un ennesimo dolore. Ci fissò da quella posizione per un po’, in
silenzio. Finalmente parlò.
“Ginevra? Julia?”
Rimanemmo interdette. Come faceva a conoscere i nostri
nomi? Anne Marie non li aveva menzionati e noi non ci eravamo presentate.
Come risvegliandosi da un lungo sonno, il viso della
donna si rianimò leggermente, le gote presero un po’ di colore, come se
improvvisamente il sangue avesse ripreso a circolare in quel corpo emaciato.
Non aspettandosi una risposta, proseguì: “Ho sempre sperato che un giorno
sareste tornate! Il mio desiderio si è avverato!”
Ginevra ed io ci guardammo sempre più perplesse.
Finalmente intervenne Anne Marie. “Care ragazze, capisco la vostra perplessità,
ora vi spiego cosa è successo. Tanti anni fa, mio figlio Giuliano si era
trasferito in Inghilterra per lavoro. Qui aveva conosciuto la sua seconda
moglie, Yvette che gli aveva dato una splendida bambina. Per festeggiare questo
evento, Giuliano aveva fatto una sorpresa a sua moglie e aveva organizzato un
viaggio - una sorta di seconda luna di miele, loro due soli - alle Hawaii. La
bambina era rimasta a casa con me e la tata, Dorothy. Purtroppo nessuno di noi
sapeva che non li avremmo mai visti tornare da quel viaggio, perché sulla via
del ritorno dall’Isola di Hawaii l’elicottero sul quale viaggiavano precipitò
per una tempesta.”
“Ma perché la bambina non rimase con lei, Anne Marie?”
chiesi.
Intervenne Geneviève, che prese un po’ di coraggio,
sentendo parlare Anne Marie.
“Giuliano non aveva fratelli, ma era molto legato a mio
figlio, Giovanni, che come seppe dell’accaduto, volle prendersi cura della
bambina, che allora non aveva nemmeno un anno. Lui viveva in Italia e si era
appena sposato con Marina, la quale gli aveva dato una figlia più o meno della
stessa età. Le avrebbe cresciute insieme, come sorelle così le due bambine si
sarebbero tenute compagnia. Ma il destino ci era avverso: pochi mesi dopo,
durante un breve soggiorno a Crotone per lavoro, dove si era recato con la
moglie e le due bambine, il 14 ottobre 1996, Giovanni e la moglie furono
investiti da un’alluvione in cui persero la vita. Le due bambine si salvarono
grazie ai pianti e alla tenace ricerca dei soccorritori e dei cani che le
ritrovarono in una culla in una zona sopraelevata rispetto alla zona
alluvionata.”
“Che ne è stato delle bambine?” chiese Ginevra.
Seguì un lungo momento di silenzio: le due donne anziane si
guardarono, e, come consultandosi silenziosamente, annuirono. Era giunto il
momento di rivelare loro la verità.
Anne Marie riprese a parlare e disse: “Dopo l’alluvione
cercarono i parenti più prossimi alle bambine, ossia le nonne. Ci prendemmo in
cura ciascuna la propria nipotina, e le avremmo trattenute con noi, se non
fosse stato per i nonni che si opposero a causa di vecchi dissapori con i
rispettivi figli, contrasti che li avevano allontanati da casa e dalla
famiglia. Fu così che ci costrinsero a metterci in contatto con un ente che si
occupava di adozioni e le due bambine di lì a poco vennero nuovamente separate
l’una dall’altra per diventare parte di altre famiglie, che avevano tanto
desiderato avere dei figli, ma che non erano mai arrivati. Mia nipote andò in
Lombardia”, “mentre la mia andò nel Lazio” proseguì Genevieve. “Fu un dolore
straziante per noi”, aggiunse, “sapere che non potevamo cercarle, sapere come
stavano, farci vive.” “Prima di lasciarle andare, affidammo ai futuri genitori
un oggetto che chiedemmo loro di far avere alle bambine, quando fossero un po’
cresciute. Li pregammo anche di non menzionarne mai la provenienza, casomai
fossero state mosse dalla tipica curiosità dei ragazzi.”
“E l'oggetto sarebbe...” chiedemmo contemporaneamente, io
e Ginevra, portandoci d'istinto la mano al collo.
Anne Marie e Geneviève si fissarono brevemente e
risposero: “Ciascuna ricevette la metà di una farfalla, un antico gioiello di
famiglia dei Papillon.”
Rimanemmo a bocca aperta, mentre le mani sfioravano quel
cimelio di famiglia che ci assegnava un ruolo, un’appartenenza in questo angolo
della Toscana. “Ma allora, noi siamo …” Non riuscii a terminare la frase. Anne
Marie e Genevieve, con le lacrime agli occhi, la completarono per me. “Siete
cugine, siete seconde cugine e siete le nostre nipotine.”
***
Guardai Genevieve e lei guardo' me. Senza nemmeno
parlarci, ci sfilammo le nostre collane, e ce le scambiammo, come una muta
promessa nuziale.
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