Quando si varca la soglia
di un manicomio non valgono più le regole comuni, e lo sanno tutti, dal più
infimo degli inservienti al più pazzo dei malati. Si vive in un equilibrio
fatto di abitudini, e smetti di pensare alle cose così come le pensavi prima. Da
quando sono entrata in ospedale, mi sono attaccata alle piccole sciocchezze che
mi riempivano la giornata, ero vorace di seguire pedissequamente quelle sequenze
organizzate di piccoli doveri: alzarsi, vestirsi, fare colazione, passare del
tempo nella sala comune, mangiare, riposare, passare del tempo nella sala
comune, cenare, dormire. Non mi era chiesto di decidere nulla, mi era
consentito smettere di pensare. E del resto, a cosa vuoi pensare? Le mie idee e
le mie speranze del futuro le avevo lasciate all’ingresso prima di entrare, insieme
ai vestiti e agli oggetti personali. Avevo imparato a reagire meccanicamente,
seguendo l’istinto. Azione e reazione. Mi alzavo se mi chiamavano, altrimenti restavo
tranquillo al mio posto, sempre, anche quando di fronte a me si svolgeva il più
grande degli orrori. Se mi lasciavo coinvolgere, trovavo il modo di soffocare le
urla e il pianto, la rabbia e la disperazione, e le rinchiudevo da qualche
parte dentro di me, nell’unico anfratto dove potevo sentirmi salva. Sola, ma
salva.
Foto: manicomio di Volterra
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