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4 mar 2015

Shared, di Carla Pavone

Quando si varca la soglia di un manicomio non valgono più le regole comuni, e lo sanno tutti, dal più infimo degli inservienti al più pazzo dei malati. Si vive in un equilibrio fatto di abitudini, e smetti di pensare alle cose così come le pensavi prima. Da quando sono entrata in ospedale, mi sono attaccata alle piccole sciocchezze che mi riempivano la giornata, ero vorace di seguire pedissequamente quelle sequenze organizzate di piccoli doveri: alzarsi, vestirsi, fare colazione, passare del tempo nella sala comune, mangiare, riposare, passare del tempo nella sala comune, cenare, dormire. Non mi era chiesto di decidere nulla, mi era consentito smettere di pensare. E del resto, a cosa vuoi pensare? Le mie idee e le mie speranze del futuro le avevo lasciate all’ingresso prima di entrare, insieme ai vestiti e agli oggetti personali. Avevo imparato a reagire meccanicamente, seguendo l’istinto. Azione e reazione. Mi alzavo se mi chiamavano, altrimenti restavo tranquillo al mio posto, sempre, anche quando di fronte a me si svolgeva il più grande degli orrori. Se mi lasciavo coinvolgere, trovavo il modo di soffocare le urla e il pianto, la rabbia e la disperazione, e le rinchiudevo da qualche parte dentro di me, nell’unico anfratto dove potevo sentirmi salva. Sola, ma salva.

Foto: manicomio di Volterra

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