Archivio Blog

Cerca nel blog

30 apr 2025

Un cappello pieno di ciliege, di Oriana Fallaci

 Avevo iniziato a leggere questo libro molti anni fa e non ero riuscita a superare le prime dieci pagine. Adesso, forse complice un’età più avanzata e una maggiore sensibilità verso il passato e le radici, l’ho divorato, rivedendo in ogni sforzo di ricerca la voglia che mio papà aveva, negli ultimi anni della sua vita, di risalire lungo il suo albero genealogico, raccogliendo nomi, date e relazioni. Purtroppo non le storie dietro. Chi sa se, per rendere onore al lavoro di mio papà, quando sarò anche io in pensione avrò voglia di ripercorrere almeno un ramo della vita, quando [come scrive Oriana Fallaci] ero qualcun altro che ora vive nei miei geni.

Nota: Io avrei scritto “ciliegie”… ma mi sono posta un dubbio e infatti [rif.Wikipedia]: Nel faldone che contiene il prologo del libro, il titolo manoscritto dall'autrice riporta la grafia ciliege, che viene preferita alla grafia canonica ciliegie con la i (Corriere della Sera Magazine, 24 luglio 2008, pag. 51). La scrittrice volle che venisse lasciato senza i (Nel baule di Oriana, tutta una vitaCorriere Fiorentino, 24 luglio 2008) utilizzando una grafia arcaicizzante.




[…] sapevo che quei personaggi non potevano essere un frutto della mia fantasia perché li sentivo dentro di me, condensati nel mosaico di persone che da un lontano giorno d'estate costituivano il mio Io, e portati dai cromosomi che avevo ricevuto dai due giovani forti e belli e spavaldi. Le particelle d'un seme non sono forse identiche alle particelle del seme precedente? Non ricorrono forse di generazione in generazione, perpetuandosi? Nascere non è forse un eterno ricominciamento e ciascuno di noi il prodotto d'un programma fissato prima che incominciassimo, il figlio d'una miriade di genitori?

Esplose allora un'altra ricerca: quella delle date, dei luoghi, delle conferme. Affannosa, frenetica. Resa tale dal futuro che mi sfuggiva di mano, dalla necessità di far presto, dal timore di lasciare un lavoro incompiuto. E come una formica impazzita dalla fretta di accumular cibo

corsi a rovistar tra gli archivi, i mastri anagrafici, i conciari, i cabrei, gli Status Animarum. Cioè gli Stati Anime. I registri nei quali, col pretesto di individuare deli tenuti al precetto pasquale, il parroco elencar abitanti di ogni pieve e di ogni prioria raggruppand nuclei familiari e annotando ciò che serviva a catalogarli.


L'anno o la data completa della nascita e del battesimo, del matrimonio e della morte, il tipo di lavoro e il reddi-to, il patrimonio o l'indigenza, il grado di educazione o l'analfabetismo. Rozzi censimenti, insomma. Scritti a volte in latino e a volte in italiano, con la penna d'oca e l'inchiostro marrone. L'inchiostro, asciugato con una rena lucida e argentea che il tempo non aveva dissolto e che al contrario s'era incollata alle parole rendendole sfolgo-ranti, così a raccoglierne un granello col dito ti pareva di rubare un bruscolo di luce che era un bruscolo di verità.

E pazienza se in alcune pievi e priorie i registri eran stati divorati dai topi o distrutti dall'incuria o mutilati dai barbari che strappan le pagine per venderle agli antiquari, pazienza se a causa di questo non trovai i personaggi più remoti. Ad esempio quelli che, secondo un foglio della cassapanca perduta, nel 1348 avevan lasciato Firenze per sfuggire alla peste di cui il Boccaccio parla nel Decamerone e rifugiarsi nel Chianti. Quelli delle storie narrate dalle due voci c'erano, e li trovai dal primo all'ultimo. I loro nipoti e pronipoti, lo stesso. Nel caso dei nipoti e dei pronipoti scoprii addirittura particolari che le due voci non mi avevan fornito, creature nelle quali potevo identificarmi fino allo spasimo, di cui potevo supporre ogni gesto ed ogni pensiero, ogni pregio ed ogni difetto, ogni sogno ed ogni avventura. Sicché la ricerca si mutò in una saga da scrivere, una fiaba da ricostruire con la fantasia. Sì, fu a quel punto che la realtà prese a scivolare nell'immaginazione e il vero si uni all'inventabile poi all'inventato: l'uno complemento dell'altro, in una simbiosi tanto spontanea quanto inscindibile. E tutti quei nonni, nonne, bisnonni, bisnonne, trisnonni, trisnonne, arcavoli e arcavole, insomma tutti quei miei genitori, diventarono miei figli. Perché stavolta ero io a partorire loro, a dargli anzi ridargli la vita che essi avevano dato a me.






5 apr 2025

Il coraggio di provarci di Cristina Scocchi




 [Mio padre] era insegnante e aveva una capacità innata: tirare fuori il meglio dalle persone.

«Cristina, non permettere al tuo punto di partenza di definire chi vuoi diventare. Tanto più dura è la salita, tanto più sarai forte e allenata quando arriverai alla meta. E se non ci arrivi non importa, avrai avuto il coraggio di provarci, e non è poco. Non ti inchinare di fronte a chi non stimi, anche se può spianarti la strada, non tradire mai i tuoi valori e dai il massimo ogni giorno. E se alla fine realizzerai i tuoi sogni, ricordati di aiutare chi è rimasto indietro e chi non ce l'ha fatta. […] Di fronte a chi non stimi, anche se può spianarti la strada, non tradire mai i tuoi valori e dai il massimo ogni giorno. E se alla fine realizzerai i tuoi sogni, ricordati di aiutare chi è rimasto indietro e chi non ce l'ha fatta.»

Una lezione importante, a cui si è aggiunta quella dei crisantemi. Molto coltivati in Riviera, sono fiori che vanno accuditi giorno dopo giorno nei mesi caldi, protetti dalle piogge di settembre, riparati dal freddo improvviso delle notti di ottobre, quando la fioritura giunge al termine, in vista del momento in cui dovranno essere perfetti per la commemorazione dei defunti.

Era un compito impegnativo, che coinvolgeva diverse persone della mia famiglia in una sorta di catena, ognuna intenta a fare la sua parte, perché bastava poco per rovinare il raccolto e vanificare tutti gli sforzi.

Nel corso della mia carriera mi sono trovata spesso a ripensare a quel modo di lavorare insieme, ognuno responsabile e concentrato sul proprio compito ma senza mai perdere d'occhio gli altri, pronti a intervenire se qualcuno accusava stanchezza o tensione.

Da soli non si ottiene nulla: ecco la seconda lezione che non ha mai perso la sua efficacia, neanche lontano da Coldirodi. Perché le aziende sono fatte prima di tutto dalle persone che ci lavorano, dalle menti che le animano, dal tempo trascorso insieme da esseri umani che interagiscono tra di loro in un ufficio o in una fabbrica. Credo sia conclusa l'epoca in cui un'azienda poteva essere gestita dall'alto, da leader che stanno soli in testa al gruppo, indicando la strada e detenendo il potere. Il leader oggi non balla da solo, non dà le spalle al gruppo, ma lo guida e lo sorregge.

[…]

Se da una parte resta l'anomalia che il merito non viene spesso premiato, dall'altra si è aggiunta l'aggravante di fette sempre più ampie di popolazione che non hanno la possibilità di avanzare sulla scala sociale. Nonostante i passi in avanti, per le donne è ancora molto difficile affermarsi, in alcuni casi lo è addirittura lavorare; per i giovani la precarietà è un incubo ricorrente.

Chi guida un'impresa - un microcosmo che tesse continuamente relazioni con l'esterno e spesso con mondi anche molto lontani tra loro - non può ignorare queste dinamiche.

Il suo compito, oggi, è integrare il valore con i valori, gli obiettivi e i parametri economici e finanziari con quelli etici, sociali e ambientali. Perché di tutto questo non possiamo più fare a meno, se vogliamo affrontare quest'epoca di crisi continue.

[…]

Siamo entrati nell'epoca in cui l'intelligenza artificiale generativa diventerà presto di massa: che cosa resterà all'uomo? Non certo la capacità di calcolo o di previsione. Ci resterà la capacità di creare, immaginare, dare la direzione. Ci resteranno l'empatia, i valori e il merito, che sono la chiave per creare una leadership etica e inclusiva, in grado di mettere le persone al primo posto, di dare a tutti, senza distinzione, senza esclusioni e divari, l'opportunità di dimostrare il proprio talento, perché il punto di partenza non deve più determinare chi puoi diventare. E questo sarà possibile solo quando capiremo che la leadership non è potere, è responsabilità.


Chi, come me, è a capo di un'azienda, in virtù del suo ruolo gode di un enorme privilegio: può, con le proprie azioni, migliorare il benessere delle persone e delle comunità. Le aziende sono fatte di persone, e noi che abbiamo l'onore di guidarle siamo investiti di un'importante funzione sociale, alla quale non possiamo e non dobbiamo sottrarci. Per i suoi collaboratori, un amministratore delegato non deve essere solo il capo, ma una persona di cui sentono di potersi fidare, perché ha valori etici e morali in cui si riconoscono.


La leadership non è vincere la corsa a tutti i costi, non è ambire al podio. La leadership è conoscenza, empatia, etica e coraggio. È prendersi cura delle persone che si incontrano in quei quarantadue lunghissimi chilometri di cui è fatta la vita di ciascuno di noi.

Ninfee nere di Michel Bussi

  




Acconsento a che si instauri il delitto di sognare
Se sogno, sogno ciò che mi viene vietato
Mi dichiarerò colpevole. Mi piace avere torto
Agli occhi della ragione il sogno è un bandito

Louis Aragon


Forse vi sembrerà strano che un'anziana come me se ne vada in giro così in piena Giverny e nessuno o quasi la noti. Meno che mai i poliziotti. Ve lo dico io, fate l'e-sperimento, mettetevi a un angolo di strada, una qualsiasi, un boulevard di Parigi o la piazza della chiesa di un villaggio, quello che volete voi, un posto qualunque dove ci sia gente. Fermatevi una decina di minuti e contate i passanti, sarete sbigottiti dal numero di anziani. Ogni volta saranno più numerosi degli altri. Innanzi tutto perché è così, ci sono sempre più anziani al mondo, non fanno che ripetercelo. Poi, perché gli anziani non hanno altro da fare che gironzolare per strada. Intine, e soprattutto, perché non si notano, è così. La gente si volta per l'ombelico al vento di una ragazza, si fa di lato per far passare il manager che accelera il passo o la banda di giovani che occupa tutto il marciapiede, indugia con lo sguardo sulla carrozzina col bebè dentro e la mamma dietro, ma un vecchio o una vecchia sono... invisibili, proprio perché passano così lentamente che sembra facciano parte della scena, come un albero o un lampione. Se non mi credete fate la prova. Fermatevi. Bastano dieci minuti. Vedrete.

Bene, torniamo alla nostra faccenda. Dato che ho il privilegio di vedere senza essere vista vi comunico che quel giovane


Sappiate allora una cosa, una sola: in tutta questa serie di eventi non esiste la minima coincidenza. Nient è lasciato al caso in quest'affare, al contrario. Ogni elemento al posto giusto nel momento giusto. Ogni pezzo di quest'ingranaggio criminale è stato sapientemente disposto, e credetemi, giuro sulla tomba di mio marito, niente potrà fermarlo.


Recensione:

https://www.eleonoraderrico.it/recensione-ninfee-nere-la-scrittura-di-bussi-mi-ha-stregata

23 gen 2025

Il giardino delle farfalle, Dot Hutchinson




“… la gente era partita per le guerre, / affidando ai miti occhi delle stelle, a notte, / dalle alte torri azzurre, la custodia / di quei fiori
EDGAR ALLAN POE


Vicino a una villa isolata c’è un bellissimo giardino dove è possibile trovare fiori lussureggianti, alberi che regalano un’ombra gentile e... una collezione di preziose “farfalle”: giovani donne rapite e tatuate in modo da farle assomigliare a dei veri lepidotteri. A guardia di questo posto da brividi c’è il Giardiniere, un uomo contorto, ossessionato dalla cattura e dalla conservazione dei suoi esemplari unici. Quando il giardino viene scoperto dalla polizia, una delle sopravvissute viene portata via per essere interrogata. Gli agenti dell’FBI Victor Hanoverian e Brandon Eddison hanno il compito di mettere insieme i pezzi di uno dei più complicati rompicapo della loro carriera. La ragazza, che si fa chiamare Maya, è ancora sotto shock e la sua testimonianza è ricca di episodi sconvolgenti al limite del credibile. Torture, ogni forma di crudeltà e privazione sembravano essere all’ordine del giorno in quella serra degli orrori, ma nella deposizione della giovane donna, che ha delle ali di farfalla tatuate sulla schiena, non mancano buchi e reticenze. Più Maya va avanti con il suo terrificante racconto, più Victor e Brandon si chiedono chi o cosa la ragazza stia cercando di nascondere.


https://www.qlibri.it/narrativa-straniera/gialli,-thriller,-horror/il-giardino-delle-farfalle


Quello che so di te, Nadia Terranova




So poco della notte
Ma la notte sembra sapere di me
E in più, mi cura come se mi amasse
Mi copre la coscienza con le stelle.
ALEJANDRA PIZARNIK

I bambini si incastrano nel tempo, è tutto quello che sappiamo di loro se li incontriamo da adulti, quando contengono l’infanzia dentro di sé come se l’avessero ingoiata e mai del tutto smarrita.


Dopo un po’ che sono entrate, cominciano a dubitare che esista un mondo oltre i giardini delle casette a valle, una quotidianità oltre il registro ospedaliero. I ricordi si scontornano, si fanno ossessivi, le lettere si diradano, per qualcuna finiscon9. La vita di prima, chi può dire se è esistita davvero?


Se tutto quello che ami scomparisse, sapresti ancora chi sei?


 

14 gen 2025

“Il ladro di anime” di Sebastian Fitzek




“Si dice che gli uomini manifestino la loro vera natura nelle situazioni estreme. Quando le circostanze non permettono piú di agire secondo i valori inculcati da anni di condizionamento esterno. Cosí una crisi diventa come un coltello affilato: toglie la buccia e lascia uscire il nocciolo, la condizione primigenia, non ancora formata e di solito dominata dall’istinto, in cui lo spirito di sopravvivenza prevale sulla morale.”


 “L’autore trapianta i propri pensieri nella testa dei lettori, li fa vedere, sentire, vivere e spesso li trasporta a migliaia di chilometri di distanza, in luoghi dove non hanno mai messo piede.” [Stephen King]


In un ospedale vicino Berlino un medico, alcuni pazienti e infermieri si ritrovano blindati in un manicomio al cui interno si è nascosto un serial killer capace di indurre in uno stato comatoso le proprie vittime, senza torcere loro nemmeno un capello. Quattro ore di lettura mozzafiato con un finale shockante, da consigliare a chi è appassionato di thriller psicologici. Sarà il lettore a dover risolvere l’indovinello finale, con l’aiuto di un piccolo indizio (ma questa è la parte piu semplice): “Buttami via quando hai bisogno di me, riprendimi quando non ti servo piú.

From Blogger iPhone client

11 gen 2025

Le bambine non esistono, Ukmina Manoori


Ukmina […] è una “bacha posh”, letteralmente una “bambina vestita da maschio”. Se esiste un nome per questa pratica, in Afghanistan, è perché è estesa. Un’antica tradizione afgana autorizza infatti le famiglie senza figli maschi a travestire una delle loro figlie per salvare l’onore dei genitori. In quella società dominata dai valori maschili, la mancanza di figli maschi è malvista, e soprattutto non è pratica: una femmina non può lavorare, non può uscire da sola per fare la spesa, non può aiutare nei lavori all’aperto. Una femmina è un fardello. È sufficiente tagliarle i capelli, e potrà assolvere i compiti riservati agli uomini. Secondo una superstizione afgana, una bacha posh potrebbe persino contribuire a scongiurare la malasorte e favorire la nascita di un maschio nella famiglia. Lo decidono i genitori alla nascita: basta la loro volontà e la figlia cambia aspetto, nome, identità. Diventa agli occhi di tutti il figlio maschio della famiglia.

[.…] Con la pubertà non si tratta più di un gioco, il problema si fa serio e va risolto in maniera molto semplice: ritorno al punto di partenza. Le ragazze devono dimenticare la shalwar kameez, indossare il niqab, chiudersi in casa, imparare i lavori domestici, prepararsi al matrimonio e alla maternità, accettare il ruolo attribuito alle donne. I mullah perseguono le recalcitranti che vorrebbero vivere nel peccato, quello della menzogna sulla loro identità. A dodici anni, quando le persone che le circondano cominciano a dire che dovranno portare un vestito da donna e un velo, loro soffocano già solo a immaginarsi abbigliate così. Sono cresciute come dei ragazzi, giocano con i maschi, vanno in giro per lavorare, andare a scuola, fare la spesa, sono libere come loro. E poi, un giorno, i genitori, i parenti, le autorità religiose, tutti dicono loro: adesso basta. Basta con gli allenamenti di tennis anche se sei campionessa dell’Afghanistan, basta con la scuola anche se avevi progettato di continuare a studiare, basta con gli amici anche se li conosci da quando eri piccola, basta con i capelli corti, basta con la vita senza limitazioni, diventerai una donna. Per molte di queste ragazzine è già troppo tardi. Sono state educate come dei maschi, sono cresciute con quel modello, e dall’oggi al domani viene detto loro di vestirsi, di muoversi, di comportarsi, di pensare, di agire come una femmina. Per alcune è semplicemente impossibile. Si rifiutano di diventare donne, semplicemente perché hanno assaporato la libertà degli uomini e sembra loro inimmaginabile rinunciarvi, abbandonare i propri sogni. Si immaginavano avvocate, politiche, dottoresse, pensavano di cambiare il mondo e di cambiare la vita delle loro sorelle. Sarebbe per loro come murarsi vive, gettarsi in prigione. Perciò si aggrappano alla menzogna in cui vivono fin dalla nascita. Escono sole, senza velo, lavorano a loro piacimento, vanno a scuola, fanno sport… Imbrigliano il loro corpo che si trasforma, nascondono il seno e lo imprigionano. Essere una bacha posh diventa così un modo per sopravvivere in una società profondamente conservatrice, dove le donne sono considerate cittadini di second’ordine e come tali subiscono privazione della libertà, violenze, leggi ingiuste.

(Prefazione di Stéphanie Lebrun)






Magnifico e tremendo stava l’amore di Maria Grazia Calandrone


“Domenico, lo sappiamo, ha tradito Luciana molte volte, anche gravemente. Eppure, se immagina lei fra le braccia di un altro, è trascinato in un’oscurità senza rimedio. Domenico è solo davanti al suo terrore e, per lui, tutto il mondo è remoto. Non vede piú quanto Luciana gli sia vicina. E cosí, l’allontana, senza rimedio. Per sempre. Anche quando i fatti sembreranno piú volte dire il contrario, dentro tutto è cambiato. Sfilacciata, proprio a un filo dal rompersi, la grammatura della fibra che legherebbe con naturalezza amato e amante. Quando lui torna alla realtà, anzi, al presente, niente è piú lo stesso, non c’è piú niente d’intatto. La violenza ha portato via con sé l’intero mondo che la precedeva. Luciana riesce a sfuggire a Domenico, si chiude a chiave in una stanza e chiama la polizia. Quello che prima era quasi normale o, quanto meno, sotteso al muto patto sociale di mantenimento economico, cioè quello che Domenico aveva visto fare al padre quando inseguiva la madre brandendo pezzi d’arredamento, durante il tempo della vita di entrambi è diventato intollerabile, è reato. O meglio, commettere violenza è considerato reato dal 1930. La novità è che adesso le donne la denunciano. Siamo però ancora in un momento di passaggio tra accettazione e intollerabilità della violenza sulle donne. La cultura profonda, cioè quella reale, la capillare vita dei cittadini, ciascuno inquadrato nel segreto della propria abitazione, non ha ancora assorbito l’assioma che una donna non vada picchiata, o addirittura uccisa. Solo nove anni prima, con la legge n. 442 del 5 agosto 1981, l’Italia era riuscita ad abrogare la rilevanza penale della causa d’onore nell’uccisione della moglie (il “delitto d’onore”, col quale al marito veniva parzialmente concessa per legge la vendetta sulla moglie fedifraga, perché l’uccisione della stessa era ritenuta non già un ammazzamento in sé, ma un modo umanamente comprensibile, da parte del tradito, di ripristinare la propria piena onorabilità: assassino sí, cornuto mai!) e solo nel 1993 la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne offrirà la prima definizione ufficiale di “violenza fondata sul genere”. In quell’ancora incerto 1990 arriva dunque una pattuglia, e un agente s’intrattiene sulla soglia di casa con Domenico, il quale ovviamente minimizza l’accaduto, riassumendolo come una normale discussione coniugale. Due chiacchiere fra uomini, una pacca sulle spalle, un ditino alzato ad ammonire per il futuro e l’agente va via, senza accertarsi delle condizioni della moglie e dei due bambini, di tre e un anno, i cui volti lampeggiano bianchi in fondo al corridoio.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)


“La luce interiore cambia la sostanza delle cose visibili.” 

(da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”).


“L’amore non vissuto: nei piú spietati con sé stessi, si trasforma in arte. Nei temperamenti piú dolci, in una forma ecumenica di compassione. Tutti gli altri ospitano un sepolto vivo, che approfitta di ogni distrazione. Occorre un continuo stato di veglia, una traccia di rabbia persistente, per non farsi incrinare dal suo lamento, che è il proprio lamento – la prima voce dentro la propria voce.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)


 “Tu con la faccia dura e senza sogni sulla mia pelle sai lasciare i segni, sulle ferite poi ci metti il sale io non capisco questo strano amore, Ma dovrei fare esattamente come fa un cane buono con il suo padrone, contro di te che sai tenere banco, coprire con gli stracci un cuore stanco Piú di cosí non so piú cosa dare piú di cosí che cosa fa piú male, perderti adesso e non vederti piú, ricominciare come lo vuoi tu. Piú di cosí mi chiedi e mi pretendi, piú di cosí mi stringi e poi mi stendi, e a denti stretti io ti dico sí perché ti amo.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”).


“La violenza domestica è un precipizio argilloso dentro il quale si scivola, in caduta verticale. Si rompe un argine. Nei primi tempi, a fatica, si risale la china, ancora fradici di dolore, perché l’idea della salute è ancora attiva, in entrambi. L’aggredito reagisce spontaneamente e l’aggressore, sinceramente, si pente. Sconvolto dalle lacrime, Domenico chiede perdono a Luciana. S’inginocchia. E le ripete tutto l’amore pazzo che ha per lei. Purtroppo, restando accanto all’aggressore, l’aggredito gli concede un permesso, muto e concreto, a ogni episodio piú grande. L’aggredito scivola di un altro passo, poggia quasi di schiena sulla china fangosa. E scivola l’aggressore, avvinghiato com’è. Non si può piú fermare. Cosí, è un crescendo. Qualunque gesto troppo ripetuto crea dolore, anche l’amore. “Riconosco l’amore dal dolore lungo tutto il corpo”, scrive Marina Cvetaeva. Figuriamoci pugni e schiaffoni. Questo buio improvviso nei tuoi occhi viene da lontano. Non vedi piú il presente, non mi vedi piú. Io non sono piú io, sono il fantasma di una madre amata fino all’odio, sono il tuo amore di bambino deluso, sono la solitudine dei pomeriggi con le tende chiuse e le voci degli altri fuori, nel sole. Le punizioni, quel tuo non essere abbracciato mai. La progressione della furia domestica di Domenico è sempre quella, il crescendo alieno che ha preso possesso del suo corpo la prima volta che ha alzato le mani contro la moglie: comincia dalle urla, onde sonore gonfie di vertigine, prorompe sugli oggetti fino a farsi male. Infine, si accanisce sul corpo di Luciana. Prima schiaffi, spintoni, capelli e braccia strattonate. L’atto terminale è mettere le mani alla gola di Luciana, stringere. L’andamento di un’organizzazione compulsiva. Spesso i bambini assistono. I bambini, spesso, vedono tutto. Questo padre che cambia colore. Lo sfacelo sul viso e le macerie, attorno. Il silenzio vibrante che piomba sulla casa dopo la tempesta, mamma che coglie cocci dal pavimento come i fiori dal prato nei giorni felici, mette in piedi le sedie ancora intere. Non ci sono ghirlande, c’è silenzio. Il silenzio di lui che si è sfogato. Il silenzio di loro cinque, che hanno avuto paura. È quella che oggi chiameremmo “violenza assistita”, definizione apparsa per la prima volta nel maggio 2000 su Il Raccordo, bollettino della commissione scientifica del Cismai (Coordinamento italiano servizi contro maltrattamento e abuso all’infanzia), costituitasi l’anno precedente. La “violenza assistita” è considerata una seria aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia e viene punita con un aumento di metà della pena a carico dell’autore del reato. Il bambino interiore di Domenico in aperto conflitto coi suoi Bambini Veri. Che sono lí, presenti, e hanno tutti i diritti del presente. In quale punto di questa montatura Domenico potrebbe fermarsi, estirparsi dal petto, con lo spolverio nero di zolla e radici, la pianta maligna che lo avvelena? La differenza tra violenza e follia è il dominio che si può esercitare sull’impulso, l’attimo prima d’essere invasi dall’irrefrenabile, dal maremoto della solitudine. Perché nessuno ti chiede se c’è un punto dove ti puoi fermare?” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)

From Blogger iPhone client

15 ago 2022

Zucchero bruciato di Avni Doshi

 




Scritto molto bene, il libro è ricco di immagini insolite, originali, e le quattrocento pagine circa scorrono leggere, attraversando il dolore di una vita e la sensazione di impotenza e rabbia che l’Alzheimer lascia come ricordo principale bei caregiver. 


Contrariamente ad altri libri che raccontano l’involuzione dei malati di Alzheimer, qui la malattia fa solo da sfondo alla relazione tra Tara, la madre, e Antara, sua figlia, un rapporto complesso la cui definizione è già nella scelta dei nomi: Antara è la negazione di Tara.


Proprio nella età in cui Antara potrebbe finalmente ragionare con sua madre e farle scontare il dolore da lei provato nel seguirla ovunque nelle sue ribellioni, perfino nell’allontanamento dal padre, Antara si trova di fronte una madre che non ricorda più nulla. O forse ricorda solo qualcosa, quel volto che sua figlia incessantemente ogni giorno copia da una vecchia fotografia, e che potrebbe unirle o lacerare il loro rapporto per sempre.


“Sono in macchina da sola, viaggio verso l’appartamento di Ma per prendere le sue cose e mi sento inceppata come il nastro di una cassetta, indecisa su come prepararla a dire addio e al miglior modo per farlo. Perché anche noi dobbiamo metabolizzare questa inappellabile fine, tanto quanto lei, anche se sarà difficile, dato che lei sarà sempre lì, giorno dopo giorno, con lo stesso aspetto e lo stesso modo di comportarsi. Questa è una perdita lunga ed estenuante, in cui si sparisce un pezzettino alla volta. Forse, allora non c’è altro da fare se non aspettare, aspettare finché lei non sarà più lo nel suo guscio, e allora potrà iniziare il lutto, un lutto pieno di rimorsi perché non ci saremo mai chiarite.


Credevo che crescere significasse che con l’età tutte le mie domande avrebbero trovato risposta, che in futuro i miei desideri sarebbero stati esauditi ma, mente gli anni passano e io mi ritrovo a rimpiangere la mia giovinezza, si è consolidata l’abitudine ad attendere. È radicata in profondità, una cosa di cui sembra non riesca a liberarmi. Mi chiedo se, quando sarò vecchia e fragile e vedrò la fine prendere forma davanti a me, sarò ancora lì ad aspettare l’arrivo del futuro.


La perderò un poco alla volta. Alla fine sarà come una casa da cui mi sono trasferita, dove non c’è più niente che mi sia familiare.”


Avni Doshi, Zucchero bruciato