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6 feb 2012

Quattro giorni


6 febbraio 2011

Erano giornate tiepide d’inverno. Ma per quanto tiepide fossero, faceva freddo la mattina presto. O forse il freddo era dentro di noi, ne pervadeva le fibre. O forse era la stanchezza soltanto, la paura.

Quella mattina era una domenica. Il Grande Raccordo Anulare era deserto e percorremmo facilmente i quaranta chilometri che ci dividevano da te. Niente caffè, niente colazione. Lo stomaco non c’era più. Era stato risucchiato dalla tensione. Volevamo vederti, volevamo dirti «siamo qui fuori». Era importante per noi che tu sapessi che eravamo vicini, anche se non potevamo restarti accanto. Sapevamo che era importante anche per te.

Passammo molto tempo in sala d’attesa, un salottino con due divani di pelle, appena fuori dalla terapia intensiva. Una macchinetta dell’acqua, per spezzare la gola riarsa dall’aria secca. Una macchinetta vicina, per qualcosa di caldo, quando proprio non ce la facevamo più a tenere gli occhi aperti e ci sentivamo fortemente in colpa a chiuderli seppure per un attimo. Camici verdi in giro. Avanti, indietro. Vociare dietro la porta. Cercavamo di capire le parole, ma sentivamo solo il sottofondo delle voci, nulla che ci potesse aiutare a sapere quello che volevamo: «come sta?»

Infine la porta si apre, si parla, si discute. Non è critica la situazione. E’ grave, ma non critica. Ce la possiamo fare? Mi senti? I medici dicono che ce la possiamo fare.


Entro. Possiamo entrare uno per volta, di più non si può.

Sei piccola in un letto enorme.

Sei nuda, sotto le lenzuola.

Questo ti dà fastidio, sei sempre stata molto riservata e ti dà fastidio che anche un solo lembo della tua pelle sia alla vista di chiunque, medici e infermieri, ai quali però lo sai, non interessa altro che farti stare meglio. Mi lavo le mani con l’amuchina. Sei delicata. Sei a rischio di infezioni. Non voglio portartele io. Sono anche io con camice verde,  sovrascarpe azzurre. Non voglio portarti nulla se non il mio cuore dolente. Mi guardi, non sembri tu, con la maschera dell’ossigeno, l’ago per le flebo direttamente nel collo, perché le tue vene si sono ristrette ad un filo e si rifiutano di portarti medicine e cibo, tanti piccoli tubi che ti girano intorno e in alto. A destra, la scansione del tempo ritmata dal battito del tuo cuore, bum bum bum.

Mi siedo accanto a te e ti prendo la mano. Mi dici che sei trattata bene e sei contenta. Sono contenta anche io, perché so che per te è importante il rispetto, perché so che ora che ti senti indifesa qualunque cosa ti potrebbe impaurire. Ti prendo la mano, sto attenta a sfiorarti perché ho paura di quei tubi. Guardo il monitor, cerco di capire come funziona. L’occhio si abitua alla linea che va su e giù. L’orecchio si assuefa al tuo cuore, bum bum bum. Ti assopisci, sei stanca. Stanca di lottare. Nella tua vita hai sofferto al punto che adesso sembra che tu ti sia arresa. Sai di dover restare lì, buona, mentre cercano di curare il tuo respiro, di fare in modo che l’anidride carbonica si scambi correttamente con l’ossigeno. Puntuale l’emodinamica. Puntuale il cambio delle flebo. Molti specialistici si susseguono. E’ domenica, apprezziamo che ci sia gente che rinuncia a qualcosa per visitarti.

Scaduto il tempo. Vado fuori. «Ci vediamo più tardi».

Torno nel salottino e lascio il posto agli altri. Anche loro vogliono starti accanto. Abbiamo tutti diritto, ma nelle comunità la libertà degli uni termina dove inizia la libertà degli altri. Anche qui vige la regola: esco io, entri tu. Prima o poi rientrerò anche io.

Prima di andare via, ci fanno entrare. Ti lamenti di un medico per una battutaccia che ha fatto «Ero a casa a vedere la partita ed ora sono qui». Ci dici che volevi rispondere «Poteva starsene a casa», ma non lo hai fatto, chissà se perché non ne avevi più voglia, se perché per te non era più importante, o solo perché non ne avevi più la forza.

Siamo andati a casa. Non potevamo restare, era inutile restare lì a dormire sui divani.

Abbiamo cenato in silenzio, ascoltando il rumore dei nostri denti che trituravano l’aria, perché non avevamo voglia di nulla, se non che arrivasse presto il giorno dopo per venire da te. Ci siamo annullati in te. Non contava più nulla quello che eravamo o avevamo fatto. Vivevamo per te e per il sollievo che potevamo darti. Noi non eravamo più niente. Niente sensazioni, niente emozioni. Finché tu non fossi uscita di lì, noi saremmo stati niente.

1 commento:

  1. Posso capire il tuo stato d'animo. Sii forte e sorridile sempre....Con affetto.

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