Nell'ottobre
del 1928 Virginia Woolf fu invitata a tenere due conferenze sul tema Le donne e
il romanzo. È l'occasione per elaborare in maniera sistematica le sue molte
riflessioni su universo femminile e creatività letteraria. Risultato è questo
straordinario saggio, vero e proprio manifesto sulla condizione femminile dalle
origini ai giorni nostri, che ripercorre il rapporto donna-scrittura dal punto
di vista di una secolare esclusione attraverso la doppia lente del rigore storico
e della passione per la letteratura.
Protagonista
assoluta di questo saggio è la ricerca. Ce lo dice la stessa Virginia Woolf
nella prima delle due conferenze tenute presso la Arts Society di Newnham e la
Odata di Girton nell’ottobre del 1928 (i due scritti, riveduti e ampliati,
hanno dato vita al libro) come sia difficile parlare delle donne e del romanzo,
e questa riflessione dà il via ad una lunga ed esaustiva dissertazione
sull’argomento. Sarebbe possibile "offrirvi
alcune osservazioni su Fanny Burney, alcune altre su Jane Austen. (…) Ma quando
mi sono messa a considerare l’argomento ho capito non sarei stata in grado di
consegnarvi un nocciolo di verità". Si dipana così una lunga
riflessione sul tema donne e creatività: la Woolf immagina di ripercorrere una
giornata qualunque del prototipo di una scrittrice contemporanea. È solo un
pretesto per poter ampliare il discorso e dare al lettore un vero e proprio
spaccato della condizione della donna intellettuale del suo tempo, risultato di
una esclusione continua delle donne dalla scena letteraria e artistica in
generale.
Questo
lavoro della Woolf viene dunque considerato come un vero e proprio manifesto
della condizione femminile e presa ad esempio da generazioni di femministe. Ma
sarebbe limitante leggere quest’opera solo da un unico punto di vista. Si
tratta infatti di una lettura piacevole, scevra da toni accademici e ben
lontana da intenti precettistici: l’accento è puntato sulla semplice
considerazione che per una donna - ai tempi della Woolf ma forse anche oggi -
era sempre impossibile potersi dedicare alla scrittura o alla semplice lettura,
alla riflessione, al pensiero, proprio in virtù del fatto che le era precluso
uno spazio fisico all’interno della casa, una stanza tutta per sé, né tanto
meno una rendita che le permettesse di mantenersi e le regalasse quella
‘piccola libertà’ di potersi dedicare all’arte. Non si tratta di un pamphlet
polemico, né di invettiva sociale, quanto piuttosto di una lunga e pacata
riflessione che ci svela come per la Woolf sia inconcepibile potersi dedicare
ad una forma d’arte quale che sia restando inseriti negli ingranaggi della
società. È per lei impossibile concepire una scrittrice, una musicista una
pittrice che debba occuparsi anche delle incombenze della casa, in quanto
l’arte è sinonimo sempre di concetti eterni ed infiniti difficilmente
conciliabili con il tempo della giornata.
Una stanza tutta per sé rimane comunque
una carrellata, per usare un termine cinematografico, sulla condizione della
donna artista attraverso la storia, una carrellata punteggiata dalle evidenti
mancanze con le quali le donne hanno sempre dovuto fare i conti. Virginia Woolf
parte da un personaggio fittizio, quello di Judith "la sorella di
Shakespeare", per illustrare che una donna con gli stessi doni del bardo
avrebbe visto negate tutte le opportunità date a lui di sviluppare il talento,
solo perché esse sono chiuse alle donne; le possibilità che le si offrono sono
due: essere una scrittrice, e venire indicata come folle, o arrendersi al
volere del padre e trovare marito. E’ a lei che si ispira nel finale, quando
sostiene che Judith "riprenderà quel
corpo che tante volte ha dovuto abbandonare. Prendendo vita dalla vita di tutte
le sconosciute che l’avevano preceduta, come suo fratello aveva fatto prima di
lei, lei nascerà".
Virginia
Woolf esamina anche le carriere dei vari autori di sesso femminile, tra cui
Aphra Behn, Jane Austen, le sorelle Brontë e George Eliot. Queste ultime in
particolare, vengono criticate per aver lasciato che la rabbia dovuta
all'esclusione dal mondo attivo, traspaia dalla loro letteratura, errore che
non commette ad esempio Jane Austen. La rabbia è un altro elemento fondamentale
del saggio, e la Woolf la attribuisce all'incapacità della donna di riuscire a
liberarsi dal peso della "men's sentence".
Tratto
da:
“In questo libro breve
ma non veloce, costruito, anzi, sull’indugio, affilato ma variegato, ansioso ma
ironico, una retorica si nutre dell’altra, un genere sconfina nell’altro. Il
saggio assume il passo del racconto, la storia quello dell’invettiva, l’analisi
della condizione culturale della donna – che sarà ripresa, discussa e
approfondita dal movimento femminista – si affida tanto al perentorio aforisma
quanto alla metafora inattesa. La rêverie poetica, di cui il testo è pervaso
come da un sottile liquore o da una lucida droga, spalanca il pozzo profondo
delle immagini originarie, maschili e femminili – la luce, l’ombra, il fuoco,
la terra, il dardo, la torcia, la caverna, - rovesciandone le funzioni e
illuminando i processi di separazione, conversione e riunione di maschile e
femminile nell’androginia. Quel “matrimonio dei contrari” che secondo Virginia
Woolf deve consumarsi nella mente dell’artista perchè la creazione abbia luogo,
è il rito officiato qui dalle immagini”
Prefazione al
libro, Marisa Bulgheroni, Maggio 1980
Estratti dal libro
Il saggio
La sola cosa che potevo fare era offrirvi un’opinione su una
questione piuttosto secondaria: una
donna, se vuole scrivere romanzi, deve avere soldi e una stanza per sé, una
stanza propria. [...] Per ciò che mi riguarda, le donne e il romanzo rimangono
due problemi senza soluzione. Ma per farmi perdonare farò del mio meglio per
raccontarvi come sono giunta a questa opinione sulla stanza e sul denaro.
Cercherò di riprodurre davanti a voi, nella maniera più completa e più libera possibile,
il processo mentale che mi ha condotto a un simile risultato. [...] Dalle mie
labbra udirete una serie di bugie, ma forse c’è tra di esse qualche verità
nascosta; tocca a voi cercare questa verità, e decidere se, almento in parte,
essa merita di essere ricordata. In caso contrario, butterete naturalmente
tutto nel cestino, e non se ne parlerà più.
[...] Eccomi dunque (chiamatemi Mary Beton, Mary Seton, Mary
Carmichael o come meglio vi piace, non ha alcuna importanza) seduta sulla
sponda di un fiume, una settimana o due fa, un bel giorno di ottobre, assorta
nei miei pensieri. Questo collare di cui vi ho già parlato, le donne e il
romanzo, il bisogno di giungere a qualche conclusione su un argomento che evoca
ogni sorta di pregiudizi e di passioni, pesava ancora sul mio collo, piegandolo
verso terra. A destra e a sinistra certi arboscelli, rossi e dorati,
splendevano con i colori del fuoco, anzi sembravano bruciare. Sulla riva
opposta i salici piangevano il loro perpetuo lamento, con la loro capigliatura
rovesciata. Il fiume rifletteva il cielo, il ponte e l’arboscello in fiamme, e
non appena lo studente aveva disturbato col suo remo i riflessi sull’acqua,
questi si richiudevano dietro di lui, completamente, come se egli non fosse mai
esistito. Avrei potuto stare lì l’intera giornata a pensare. Il mio pensiero –
per chiamarlo con un nome assai più degno di quanto in realtà non meritasse –
aveva gettato la sua lenza, per pescare nella corrente. Ondeggiava, un minuto
dopo l’altro, qua e là, fra i riflessi e le piante acquatiche, lasciandosi
sollevare dall’acqua e poi ridiscendendo, finché... conoscete quel piccolo
strappo, quell’improvviso conglomerarsi dell’idea all’estremità della lenza; e
poi la cauta manovra per tirarla fuori, per non perdere la preda. Ahimé, una
volta sull’erba, com’era piccolo, com’era insignificante questo mio pensiero;
proprio uno di quei pesci che il buon pescatore butta di nuovo nell’acqua
perchè possano divenire più grossi e meritare un giorno la padella. [...] Ma
per quanto piccolo, possedeva tuttavia quella misteriosa qualità che hanno
tutti i pensieri della sua specia: non appena immerso nella mente,
immediatamente diventava molto eccitante e molto importante; guizzando e
sommergendosi come un dardo, scintillando qua e là, creava attorno a sé un
turbine tale di altre idee, che non si riusciva più a stare seduti.
La vita
La vita [...] è ardua, è difficile, una lotta continua.
Richiede un coraggio e una forza giganteschi. Più che altro, forse, poichè
siamo creature d'illusione, richiede fiducia in se stessi
Uomini e donne
Per secoli le donne sono state gli specchi magici e
deliziosi in cui si rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata. Senza questa
facoltà, la terra probabilmente sarebbe ancora palude e giungla. [...] Se la
donna comincia a dire la verità, la figura nello specchio rimpicciolisce: l’uomo
diventa meno adatto alla vita. [...] La visione dello specchio è per loro
immensamente importante, perchè carica la loro vitalità; stimola il loro
sistema nervoso. Se gliela togliete, l’uomo può morire, come il cocainomane
privato della droga.
Le donne e l’arte
Scrivere un’opera di genio è quasi sempre un’impresa di
prodigiosa difficoltà. Tutto sembra opporsi alla possibilità che il lavoro
venga fuori bello e intero, come era stato concepito nella mente dello scrittore.
Di solito le circostanze materiali vi si oppongono. I cani abbaiano, la gente
interrompe: bisogna fare soldi; la salute non regge. Oltre a queste difficoltà,
ad accentuarle e a renderle ancor più intollerabili, c’è la notoria
indifferenza del mondo. Esso non chiede alla gente di scrivere poesie, romanzi
e libri di storia; non ne ha alcun bisogno. Non gli interessa se Flaubert trova
la parola giusta, né se Carlyle verifica scrupolosamente questo o quell’altro
fatto. Naturalmente, non vuole pagare per ciò che non gli serve. E così lo
scrittore, Keats, Flaubert o Carlyle, è alla mercé (soprattutto durante gli
anni creativi della giovinezza) di ogni forma di distrazione e di
scoraggiamento. Una maledizione, un grido di estrema sofferenza, si leva da
questi libri di analisi e confessione. [...] Se nonostante tutto ciò qualcosa
viene fuori, è un miracolo; probabilmente nessun libro nasce intero e privo di
distorsioni, come era stato concepito.
Ma per la donna, pensavo, guardando gli scaffali vuoi [N.d.R. riferito alla letteratura del ‘500] queste
difficoltà erano infinitamente più grandi. In primo luogo, avere una stanza
tutta per sé, e non diciamo una stanza tranquilla o a prova di rumori, era
completamente impossibile, a meno che i suoi genitori fossero eccezionalmente
ricchi o molto nobili, perfino agli inizi del Novecento. Poiché i suoi soldi
spiccioli, che dipendevano dalla buona volontà di suo padre, bastavano appena
per provvederla di vestiti, non si poteva certo avvalere di certe consolazioni di
cui invece si avvalevano perfino Keats, Tennyson o Carlyle, tutti e tre
piuttosto poveri, facendo una lunga gita a piedi, un piccolo viaggio in
Francia, oppure prendendo un alloggio separato, il quale, anche se abbastanza
miserabile, era sempre un rifugio contro le pretese e le tirannie della
famiglia. Queste difficoltà materiali erano formidabili; ma assai peggiori erano
quelle immateriali. L’indifferenza del mondo, che faceva tanto soffrire Keats e
Flaubert e altri uomini di genio, nel caso della donna non era già
indifferenza, bensì ostilità. Il mondo non diceva loro, come agli altri
scrittori: Scrivete se volete; per me è esattamente lo stesso. Il mondo diceva
ridendo: Scrivere? A che cosa vi serve scrivere?
[...] Aphra Behn [...] dimostrò che si poteva guadagnare del
denaro con la penna, benché questo significasse forse il sacrificio di qualche
piacevole qualità; e così a poco a poco, invece di essere prova di follia e
infermità mentale, l’attività letteraria divenne praticamente importante. [...]
A mano a mano che il Settecento avanzava, centinaia di donne cominciarono a
pagarsi le loro piccole spese con questo sistema, e a contribuire alle spese
della casa traducendo, oppure scrivendo innumerevoli cattivi romanzi, dei quali
nemmeno nei testi scolastici si trova oggi un cenno.
[...] Il denaro può nobilitare ciò che è frivolo finché non
è pagato. [...] La libertà intellettuale dipende da cose materiali. La poesia
dipende dalla libertà intellettuale. E le donne sono sempre state povere, non
soltanto in questi duecento anni, ma dagli inizi dei tempi. Le donne hanno
avuto meno libertà intellettuale di quanta non ne avessero i figli degli
schiavi ateniesi. Le donne, pertanto, non hanno avuto la più piccola
opportunità di scrivere poesia. Perciò ho insistito tanto sul denaro e sulla
stanza propria. Tuttavia, grazie agli sforzi di quelle oscure donne del
passato, di correi conoscere un po’ meglio la vita; grazie (e questo piò
sembrare strano a due guerre, quella di Crimea che fece uscire di casa Florence
Nightingale, e quella europea che, sessant’anni dopo, aprì le porte alla donna
di classe media, questi torti cominciano a trovare rimedio. Altrimenti non sareste
qui questa sera, e la vostra opportunità di guadagnare cinquecento sterline l’anno,
pur essendo ancora abbastanza precaria, sarebbe estremamente trascurabile.
[...] Perfino nell’Ottocento nessuno incoraggiava le donne a
diventare artisti. Al contrario, esse venivano disprezzate, schiaffeggiate,
ammonite ed esortate. Il bisogno di opporsi a tutto questo, di provare che non
era vero, doveva significare una notevole tensione dell’animo, e una continua
perdita di vitalità.
[...] Se una donna scriveva, doveva scrivere nel soggiorno
comune. [...] “Le donne non hanno mai una mezz’ora... che possono chiamare
propria” – veniva continuamente interrotta. [...] Un libro deve in qualche modo
adattarsi al corpo; e a prima vista possiamo predire che i libri delle donne
saranno più brevi, più concentrati di quelli degli uomini, e così fatti da non
richiedere molte ore di lavoro continuo e ininterrotto. Perchè interruzioni ce
ne saranno sempre.
[...] La letteratura è aperta a tutti. Non ti permetto, per
quanto bidello tu sia, di scacciarmi da questa aiuola. Chiudete a catenaccio le
vostre biblioteche, se volete; ma non potete mettere alcun cancello, alcun
catenaccio, alcun lucchetto alla libertà del mio pensiero.
[...] La storia dell’opposizione
degli uomini all’emancipazione delle donne è forse più interessante della
storia stessa dell’emancipazione
[...] La donna entra nella stanza... ma qui dovremmo
esaurire tutte le risorse della lingua inglese, e lasciar svolazzare
illegittimamente intere ghirlande di parole prima che una donna possa spiegare
ciò che accade quando ella entra in una stanza. Le stanze sono così diverse;
sono tranquille o tempestose; aperte sul mare, oppure sul cortile di un
carcere; vi è a volte il bucato appeso, e a volte splendono gli opali e sete;
sono dure come il crine o soffici come la piuma... basta entrare in qualunque
stanza di qualunque strada per sentirsi sbattere in faccia quella forza
estremamente complessa della femminilità. E come potrebbe essere altrimenti?
Poichè sono già milioni di anni che le donne stanno sedute in queste stanze,
sicché ormai perfino le pareti sono pervase della loro forza creativa, la quale
infatti eccede talmente la capacità dei mattoni e della malta che
necessariamente finisce per attaccarsi alle penne, ai pennelli, agli affari e
alla politica. Ma questa forza creativa è molto diversa dalla forza creativa
degli uomini. E dobbiamo dedurne che sarebbe mille volte peccato se venisse
ostacolata o sprecata, perché ce l’hanno guadagnata secoli e secoli della più
drastica disciplina, e non c’è niente che possa sostituirla. Sarebbe mille
volte un peccato se le donne scrivessero come gli uomini, o vivessero come gli
uomini, o assumessero l’aspetto degli uomini; poiché se due sessi non bastano,
considerando la vastità e la varietà del mondo, come ci potremmo arrangiare con
uno solo?
[...] E’ appunto quando ha luogo questa fusione che la mente
diventa pienamente fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà. Forse una
mente puramente maschile non può creare, e lo stesso vale per una mente
puramente femminile, pensavo.
La bellezza dello scrivere
[...] La mente intera deve mostrarsi nuda e aperta, se
vogliamo creare la sensazione che lo scrittore sta comunicando la sua
esperienza pienamente e perfettamente. Ci deve essere libertà e ci deve essere
pace. Nessuna ruota deve cigolare, nessuna luce tremare. Le tende devono essere
ben chiuse. Lo scrittore, pensavo, finita la sua esperienza, deve sdraiarsi e
lasciare che la sua mente possa celebrare le sue nozze nel buio. Non deve né
guardare né mettere in dubbio ciò che sta accadendo.
[...] Finchè scrivete
ciò che volete scrivere, questa è la sola cosa che conta; e se conti per un
giorno o per un’eternità, nessuno può dirlo. Ma sacrificare un capello della
testa della vostra immagine, una sfumatura del suo colore, per far piacere a
qualche direttore di scuola con un vaso d’argento in mano, o a qualce
professore con il suo campione di misura nascosto nella manica della giacca,
quello è il più vile tradimento, e in confronto ad esso, la perdita della
fortua e della castità, che a quanto dicevano era il più grande dei disastri
umani, conta meno del morso di una pulce.
[... ] “La realtà” [...] ci sopraffà mentre torniamo a casa,
camminando sotto le stelle, e fa sì che il mondo silenzioso diventi più reale
di quanto non sia il mondo delle parole; e poi la si ritrova di nuovo sull’ìmperiale
di un autobus, in mezzo allo strepito di Piccadilly. Da’altra parte , a volte
sembra nascondersi dietro forme troppo lontane perchè ci sia possibile capire
la loro vera natura. Ma qualunque cosa essa tocchi, viene fissata e resa
permanente. E’ questo che ci resta, quando abbiamo gettato deitro la siepe la
buccia vuota del giorno; è questo che ci resta del tempo passato, dei nostri
amori e delle nostre avversioni. Orbene, lo scrittore, mi sembra, ha la
possibilità di vivere più di quanto possano vivere gli altri, in presenza di
questa realtà. Il suo compito è trovarla, raccoglierla e comunicarla agli
altri.
La sorella di Shakespeare
Immaginiamo, giacché ci riesce così difficile conoscere la
realtà, che cosa sarebbe successo se Shakespeare avesse avuto una sorella
meravigliosamente dotata, chiamata Judith, diciamo. Molto probabilmente
Shakespeare studiò – poiché sua madre era ricca – alla “grammar school”; gli
avranno insegnato il latino – Ovidio, Virgilio e Orazio - e qualche elemento di grammatica e di logica.
Era, come si sa, un ragazzo irrequieto, il quale cacciava di frodo i conigli, e
forse anche i daini; e dovette anche, prima di quanto avrebbe voluto, sposare
una donna dei dintorni, che gli diede un figlio un po’ più presto del solito.
Questa avventura lo spinse a cercare fortuna a Londra. Si interessava, a quanto
pare, di teatro; dicono che abbia cominciato facendo la guardia ai cavalli
presso l’ingresso degli attori. Presto imparò a recitare, divenne un attore di
successo, e si trovò al centro della società contemporanea; vedeva tutti,
conosceva tutti, sofggiava la sua arte sulla scena, il suo spirito per strada,
e riuscì perfino a essere ricevuto nel palazzo della regina. Intanto sua
sorella, così dotata, supponiamo, rimaneva in casa. Ella non era meno
avventurosa, immaginativa e desiderosa di conoscere il mondo di quanto non lo
fosse suo fratello. Ma non aveva studiato. Non aveva potuto imparare la
grammatica e la logica, e non diciamo leggere Orazio e Virgilio. A volte
prendeva un libro, magari un libro di suo fratello, e leggeva qualche pagina.
Ma poi arrivavano i suoi genitori e le dicevano di rammendare le calze o di
fare attenzione all’umido in cucina, e di non perdere tempo tra libri e carte.
Questi ammonimenti saranno stati netti, benché affettuosi, poiché si trattava
di persone agiate, che sapevano come debbono vivere le donne, e amavano la loro
figlia; anzi è molto probabile che ella fosse la figlia diletta di suo padre.
Forse riusciva a riempire di nascosto qualche pagina, su nell’attico; ma poi
aveva cura di nasconderle o di bruciarle. A ogni modo, non appena arrivata alla
pubertà, ella era stata promessa al figlio di un vicino mercante di lane. La
ragazza protestò che il matrimonio era per lei una cosa abominevole; sicché suo
padre la picchiò con violenza. Poi, cambiando tono, la pregò di non fargli
questo danno, questa vergogna di rifiutare il matrimonio. Le avrebbe regalato
una bella collana, oppure una bella gonna, diceva, con le lacrime agli occhi.
Poteva forse disubbidirgli? Eppure la forza del suo talento al spinse al gesto
inconsueto. Una sera d’estate Judith fece fagotto con le sue cose, scese dalla
finestra e prese la strada di Londra. Non aveva ancora diciassette anni. Gli
uccelli che cantavano sulle siepi non erano più musicali di lei. Ella
possedeva, come suo fratello, la più viva fantasia, il più vivo senso della
musica delle parole. Come lui, si sentiva attratta dal teatro. Bussò alla porta
degli attori; voleva recitare, disse. Gli uomini le risero in faccia. L’amministratore
– un uomo grasso, dalle labbra spesse – proruppe in una gran risata. Disse
qualcosa sui cani ballerini e sulle donne che volevano recitare; nessuna donna,
disse, poteva essere attrice. Egli accennò invece... ve lo potete immaginare.
Nessuno le avrebbe insegnato a recitare. D’altronde non poteva mangiare nelle
taverne, né girare per le strade a mezzanotte. Eppure il genio di Judith la
spingeva verso la letteratura: ella desiderava cibarsi abbondantemente della
vita degli uomini e delle donne, studiare i loro costumi. Infine (poiché era
molto giovane e di viso somigliava molto a Shakespeare, con gli stessi occhi
grigi e la fronte curva) Nick Greene, l’attore-regista, ebbe pietà di lei;
Judith si trovò incinta di questo signore, e pertanto – chi può misurare il
fervore e la violenza del cuore di un poeta quando questo si trova prigioniero
e intrappolato nel corpo di una donna? – si uccise, una notte d’inverno, e
venne sepolta a un incrocio, là dove ora si fermano gli autobus, presso
Elephant and Castle.
[...] Ella morì giovane; ahimé non scrisse mai una parola.
Giace seppellita là dove si trova oggi la fermata degli autobus, presso
Elephant and Castle. Ora io credo che questa poetessa, che non scrisse mai una
parola e venne sepolta presso un incrocio, viva ancora. Vive in voi e vive in
me, e in molte altre donne che non si trovano qui questa sera, perchè stanno a
casa a lavare i piatti e a far dormire i bambini. Tuttavia essa vive; perchè i
grandi poeti non muoiono; sono presenze perenni; hanno bisogno soltanto di un’opportunità
per tornare fra noi, in carne e ossa. Ora questa opportunità, mi sembra, siete
finalmente in grado di offrirgliela voi. Poiché io credo che se viviamo ancora
un altro secolo – parlo della vita comune, che è la vera vita, e non delle
piccole vite isolate che ognuno di voi vive come individuo – e riusciamo ad
avere cinquecento sterline l’anno, ognuna di noi, e una stanza propria; se
abbiamo l’abitudine della libertà e il coraggio di scrivere esattamente ciò che
pensiamo; se usciamo un attimo dalla stanza comune di soggiorno e vediamo gli
esseri umani non sempre in relazione l’uno con l’altro bensì in relazione con
la realtà; e anche il cielo e gli alberi o ciò che si voglia; se guardiamo in
faccia il fatto, poiché si tratta di un fatto, che non c’è un solo braccio al
quale appoggiarsi, ma che dobbiamo fare la nostra strada da sole e che dobbiamo
essere in relazione con il mondo della realtà e non soltanto con il mondo degli
uomini e delle donne, allora si presenterà finalmente l’opportunità, e quella
poetessa morta, che era sorella di Shakespeare, ritorner al corpo del quale
tante volte ha dovuto spogliarsi. Attingendo la sua vita dalla vita di quelle
sconosciute che l’hanno preceduta, come prima di lei fece suo fratello, nascerà
la poetessa. La possibilità tuttavia che ella possa nascere senza quella
preparazione, senza quello sforzo da parte vostra, senza quella decisione che ci
vuole perchè una volta rinata ella possa vivere e scrivere il suo poema, è
comunque da scartarsi, poichè ciò sarebbe assolutamente impossibile. Ma io
sostengo che ella arriverà, se lavoriamo per lei; e che lavorare così, sia pur
nella povertà e nell’oscurità, vale la pena.
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