Archivio Blog

Cerca nel blog

22 feb 2012

Né qui né altrove – Una notte a Bari - di Gianrico Carofiglio


«E tutto si era svolto in quella trama di strade squadrate e regolari nelle quali, in certi pomeriggi deserti d’estate, quando c’era il maestrale, e l’aria era nitida, ogni angolo sembrava il punto di fuga verso un infinito pieno di promesse.»

Tutto accade in una notte. Tre amici si incontrano per caso dopo oltre vent'anni dai tempi della loro giovinezza e, appunto, della loro amicizia. L'incontro, che sulle prime sembra una banale rimpatriata, si trasforma ben presto in una drammatica resa di antichi conti. Lo scenario è una Bari sempre in bilico fra presente e passato. Fra il non più e il non ancora. È un libro drammatico, ma chi lo ha letto mi dice (e la cosa mi fa un enorme piacere) che ci sono dei passaggi in cui si ride molto. Far ridere è una cosa che amo particolarmente. 
Gianrico Carofiglio, dalla recensione di Salvo Fallica su: L'Unità (06/11/2008)

E’ difficile credere che un piccolo libro di centosessanta pagine possa ricacciarti indietro di trent’anni con una tale prepotenza da spingerti a desiderare di afferrare il primo volo verso quella che senti ancora nel profondo essere “la tua città”, per verificare se ogni angolo di quelle vie “squadrate e regolari” del centro murattiano o il groviglio di vicoli della città a forma d’aquila, nella quale Babbo Natale si riposa durante l’anno, combacia ancora perfettamente con gli angoli dei tuoi ricordi.


Attraverso una storia che sembra davvero banale in rapporto al passato che evoca, emergono uno dopo l’altro i nomi e le storie che pensavo di aver dimenticato, ma che illuminati da una sapiente guida, trovano ora il giusto posto tra le immagini confuse e le foto sfocate di un’adolescenza che ancora non vuole mettersi a riposo. E si rincorrono uno dopo l’altro: i cinema (Gran Cinema Oriente, Gran Cinema Margherita, Cinema Orfeo, Cinema Jolly) i circoli privati (la Vela, Unione, Barion), le discoteche (Rainbow, Snoopy, Merendero, Cellar, Privé), i locali (La Taverna del Maltese, il Pellicano), i negozi (Panificio Veneto, “la” Saicaf), i quartieri (Murat, Libertà, Carrassi, Città vecchia), le vie (Sparàno, Dante, Principe Amedeo, Corso Vittorio Emanuele, Andrea da  Bari, Roberto da Bari, via Sagarriga Visconti, via Brigata Bari, Corso Cavour), lo stadio della Vittoria e il disco volante di Renzo Piano, le spiagge e gli stabilimenti (San Francesco, il Trampolino, il Canalone, la Pineta con la pista di pattinaggio), i film trasmessi dalla Rai solo a Bari alle 10 di mattina nel periodo della Fiera del Levante, gli scandali (Punta Perotti), lo sbarco dei quindicimila “(avete letto bene: quindicimila, tutti su una sola nave)” albanesi del 1991, l’incendio del Petruzzelli.

Più di tutto, la totale sensazione di sconfitta nel ricordo di qualcosa che si è perduto per sempre:

 “Ti manca il colore del cielo, eh?” disse Giampiero con un tono pieno d’orgoglio, come se l’avesse dipinto lui, quell’azzurro. In quel momento, nell’oscurità, mi sembrava di rivedere quel cielo – e quell’azzurro dilagante – con gli occhi pieni di meraviglia di chi ritorna da un lungo viaggio in un paese lontano. Lo rivedevo con gli occhi di Paolo, attraverso i suoi ricordi.
“Mi manca? Non me lo sono mai chiesto”. Sembrava che la domanda lo avesse colpito e fece una lunga pausa. “Però se devo rispondere, se mi ci fai pensare, sì, mi manca. Mi manca la luce di certe giornate spazzate dal maestrale. E mi manca quell’azzurro”. Fece un’altra pausa, breve, come per elaborare un’intuizione inattesa. “Magari adesso sto per dire una stronzata pazzesca – una cosa da emigrato – ma mi sembra di non aver mai visto da nessuna parte del mondo un azzurro perfetto come quello. Mi viene da dire che è l’idea platonica dell’azzurro.”
“E cos’altro ti manca?” chiesi allora.
“Cos’è una seduta di autocoscienza?” Ma si vedeva che si era messo in moto qualcosa, nella sua testa,, e che aveva voglia di rispondere. Non a me, probabilmente, ma a se stesso. Ci pensò per un poco.
“Lo dico come mi viene. Mi manca anche il colore del mare, in quei giorni di maestrale. Quando ci sono le onde ma l’acqua è lo stesso trasparente come un cristallo, ed è contemporaneamente blu, e verde,  e del colore della sabbia che c’è sotto. Mi manca l’odore di quel mare.”
Socchiuse gli occhi e fece una breve pausa.
“E sapete cosa mi manca più di tutto, a pensarci? Mi manca il profumo della focaccia. Se dovessi dire una cosa sola, direi: l’odore della focaccia. Davvero l’olfatto è il senso della memoria. Io ho l’impressione che, se sentissi di nuovo quell’odore – dubito che capiterà – potrei ricordare cose che sono seppellite nella memoria e che probabilmente sono perdute per sempre”

Non so quanto questo libro sappia parlare a chi non ha negli occhi il colore di quel cielo e di quel mare e non ha nelle narici il profumo della focaccia (e delle “sgagliozze”), ma a me ha rimestato emozioni che credevo sopite, se non perdute. Ho tremato leggendo alcuni nomi, associando i ricordi e ho avuto voglia, improvvisamente, di rivederli. Non so, però, se avrò mai il coraggio di andare alla riscoperta di quei posti che nella mia memoria hanno un posto speciale e sono ricoperti di uno spesso strato dorato, e vedere che magari son cambiati per sempre. 
E il tempo è passato davvero, se solo con Google Maps riesco a tornare in via De Giosa 48 e ad avere un tuffo al cuore nel pensare cosa c’era vicino a quel citofono che avrò suonato mille volte, con mille emozioni che mi spingevano dentro ogni volta... Sembra il gioco del “Trova le differenze” della Settimana Enigmistica. Mio Dio, mi dico, come potrei tornare, adesso?

Chi lo sa quanto i nostri ricordi dipendono dal ricordo e quanto invece dalla fantasia e dal nostro bisogno di confrontarci. Con le bugie, con le illusioni, con le storie.

Le sgagliozze

Paolo ruppe il silenzio.
“Ci stanno ancora quelli che friggono le sgagliozze?”
Mi fece un effetto strano sentirgli pronunciare quelle parole antiche.

Le sgagliozze sono sottili fette di polenta, fritte in olio di freni per tir (o in qualcosa che gli assomiglia molto) e vendute a Bari Vecchia, per strada. Tipico e buonissimo cibo da strada barese. Salutare come il crack.
Quando spiego cosa sono le sgagliozze, l’immediata (e del tutto legittima) domanda è sempre: cosa c’entra la polenta con Bari? Voglio dire: ti aspetteresti che la polenta fritta sia il tipico street food di Ponte di Legno o Pergine Valsugana. A Bari, attenendoci a categorie un po’ ovvie, per strada, nei cartocci di carta da panificio, dovrebbero vendere le cozze fritte.


Sta di fatto però che nella città vecchia da sempre ci sono questi personaggi pittoreschi che friggono fettine di polenta e le vendono, alla faccia dell’ente nazionale per la protezione del fegato. “Ci stanno ancora” risposi “sotto la Muraglia vicino a San Nicola e a Piazza Mercantile, stanno” “Le sgagliozze. Assurdo. Non dicevo questa parola da venticinque anni e adesso che l’ho pronunciata mi sta facendo venire in mente tante cose che mi ero dimenticato. A cominciare dall’odore tremendo che veniva da quell’olio. C’era una vecchia che vendeva le più buone di tutte”.

La focaccia

La focaccia barese si prepara mescolando farina di grano tenero, sale, lievito e acqua. Ne deriva un impasto piuttosto liquido che si versa in una teglia rotonda, si condisce con olio, pomodori freschi, olive e poi si cuoce nel forno a legna. Proprio perchè l’impasto è liquido, i pezzi di pomodoro e le olive sprofondano nella pasta, creando e riempiendo dei piccoli crateri morbidi che diventano le parti più buone della focaccia. 


Si mangia calda ma non bollente, avvolta in un pezzo di carta da panificio, uscendo da scuola, al mare, per cena o anche per pranzo (o merenda o anche colazione, ma questa è roba da esperti): veloce, economico e deliziosamente unto.

San Nicola

Paolo Rumiz ha scritto che tutti in Russia, sanno riconoscere perfettamente su una carta geografica dov’è Bari, appunto per via di san Nicola.
La storia è singolare. Le ossa del santo furono rubate a Mira (oggi Demire) in Turchia nel 1087 da un equipaggio di marinai baresi che le portarono nella loro città, fino alla sprovvista di un santo patrono. Fu così che Nicola diventò coattivamente il protettore di Bari. Ogni richiesta di restituzione incontrò un cortese ma fermo diniego. L’argomento, non privo di originalità, era che san Nicola aveva scelto Bari come sua città. Se fosse stato contrario all’idea, avrebbe impedito il furto delle sue ossa o scatenato una tempesta per impedire la fuga dei marinai baresi. 
Non essendosi verificato nessuno di questi eventi, l’unica interpretazione possibile era che san Nicola volesse rimanere a Bari. E se questo discorso non vi convince, peggio per voi.

[...] Nei secoli successivi alla traslazione (adoro questo eufemismo) delle ossa da Mira a Bari, il culto di Nicola, che secondo la leggenda e la devozione era un santo dispensatore di doni, si diffuse in tutta Europa e fu poi esportato dagli olandesi a Nuova Amsterdam (detta poi New York), dove l’ex vescovo di Mira, che da quelle parti chiamano Santa Klaus, diventò addirittura Babbo Natale.
[...] “Scusa, ma se Babbo Natale è san Nicola perchè non lo dice nessuno? Io non l’ho letto su nessun giornalino, su nessun libro. Nemmeno la maestra ce lo ha mai detto. Se fosse vero dovrebbero dirlo. “ “Non lo dice nessuno perchè è un segreto. Lo sappiamo in pochi. Babbo Natale vuole essere lasciato in pace quando torna a casa sua – a Bari – per riposarsi”. [...] Ero contento e basta, come succede solo ai bambini. Avevo scoperto di abitare in un luogo straordinario, un luogo unico al mondo: il paese segreto di Babbo Natale. Era una cosa incredibile, era la magia che irrompeva all’improvviso nella mia vita. Ed era una cosa mia, soltanto mia. “Ma allora, se è un segreto io non posso dirlo a nessuno?” Ho la faccia di mia madre stampata nella memoria mentre indugia qualche secondo appena prima di rispondere. Mentre mi accarezza la fronte, spostando con due dita i capelli che mi ricadevano sugli occhi. La sua faccia sullo sfondo buio di tanti ricordi indistinti, o perduti per sempre. “Potrai dirlo solo ai tuoi bambini, quando sarai grande. Solo a loro”

Il porto

Il porto è un universo a parte. Se ti capita di girarci di notte, non riesci a capire come possa essere così sterminato, come sia possibile che un posto così grande sia contenuto nella città, quando – ti sembra – potrebbe essere il contrario. Che la città sia contenuta, tutta, in quel vasto territorio sconosciuto, con squarci che assomigliano al palcoscenico di un sogno inquietante, dove sembra che valgano regole diverse da quelle del mondo esterno.




L’aquila

“Vi siete accorti che Bari ha la forma di un’aquila?”
“Un’aquila?” fece Giampiero.
“Un’aquila. Guardate una cartina e ve ne accorgerete. La penisola di Bari Vecchia è la testa, e ai due lati ci sono le ali spiegate. Se ci si concentra sulla testa poi si coglie tutto l’insieme.”



Il tempo

Paolo tirò fuori dalla tasca il libro che gli avevo dato poco prima. Lo aprì e lesse le prime parole, o forse le prime righe.
“Ehi, non sembra male. Fa venire voglia di andare avanti.”
“Magari ti aiuta a far passare il tempo del viaggio.”
“Far passare il tempo...”
“Frase idiota, hai ragione. Ci pensa da solo il tempo a passare. Non ha nessun bisogno di aiuto.”
Lungomare

Lungomare
La Muraglia


Il Teatro Margherita




Il Teatro Petruzzelli
Il "disco volante", lo stadio di Renzo Piano

Nessun commento:

Posta un commento