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21 feb 2012

Orlando - Virginia Woolf


«Egli anelava a qualche cosa cui ormeggiare il suo fluttuante cuore»

Non sono in grado di scrivere alcuna recensione su questo libro, perchè bisogna leggerlo per apprezzarlo, per lasciarsi travolgere dallo stupore di un cambio di sesso attraverso i molti secoli che Orlando vive, dall’eleganza con la quale il personaggio mantiene la scena, alternando ora l'uomo, ora la donna, ora l'anima senza sesso, nuda e in pena alla ricerca di qualcosa che forse nemmeno in ultimo riesce a trovare.

Siamo nell'Inghilterra di Elisabetta I. Orlando è un affascinante nobile. La bellezza e l'ambiguità dei suoi tratti sono armi in grado di conquistare la regina, che infatti lo introduce a corte. Lì Orlando, divenuto il prediletto di Sua Maestà, vive attorniato dal lusso, e alla morte di Elisabetta I rimane a corte al servizio di re Giacomo I. L'Inghilterra e gran parte dell'Europa vengono travolte da un'ondata di gelo e durante questo periodo di irreale biancore Orlando incontra la bella Sasha, figlia dell'ambasciatore di Russia, della quale si innamora perdutamente e per la quale lascia ogni cosa. Ma il loro amore non durerà a lungo, e Orlando si rifugerà nell'unico luogo dove si sente a suo agio: la sua casa natia. Un sonno lungo una settimana lo colpirà, e al risveglio partirà in veste di ambasciatore alla volta dell'Asia. Cade nuovamente in un nuovo lunghissimo sonno, ma al suo ridestarsi deve fare i conti con una verità sconvolgente: scopre infatti di essersi risvegliato nel corpo di una donna. La cosa non sembra stupirlo, Orlando considera l'accaduto come una opportunità e sceglie di vivere per un po' di tempo con un gruppo di zingari tra i quali la donna è tenuta di gran lunga più in considerazione che non in Inghilterra. Orlando-donna tornerà a Londra, dove imparerà ad amare la poesia scoprendo la sua vocazione per le lettere, e farà della propria casa un luogo di ritrovo per intellettuali e poeti. Si innamorerà poi di Lord Bonthrop Shelmerdine, un avventuriero incontrato per caso: la storia di Orlando si conclude nel 1928, lei è una scrittrice di fama e il suo romanzo La quercia conserva atmosfere e luoghi vissuti nella sua lunga vita...


        "Ieri mattina ero disperata, non riuscivo a spremere una parola, alla fine mi sono presa la testa tra le mani, ho intinto la penna nell'inchiostro, e ho scritto queste parole quasi meccanicamente, sul foglio bianco: Orlando. Una biografia. Appena fatto questo, il mio corpo è stato invaso dall'estasi, la mia mente da idee". Queste le parole che Virginia Woolf esattamente il 9 ottobre del 1927 scrisse in una lettera indirizzata a Vita Sakville West, la donna con la quale Virginia Woolf ebbe una storia d'amore, l'amica con la quale condivise gran parte della vita. E Orlando a pieno diritto può essere considerato una lunghissima lettera d'amore, scritta dalla Woolf per rendere immortale la figura di Vita, per rendere eterno il suo fascino ambiguo e prepotente, per lasciare una testimonianza eccellente di un amore mai dimenticato. Per un anno intero il libro diventerà infatti un gioco privato tra le due donne: alla notizia che Virginia avrebbe scritto di-per-su di lei, Vita ne fu incantata e non si preoccupò minimamente del fatto che grazie alla dedica e alle fotografie che Virginia voleva inserire avrebbe potuto essere riconosciuta. Al contrario l'aiutò a sceglierne di adatte e le raccontò aneddoti e ricordi legati al proprio vissuto. La Woolf tra le pagine di Orlando dissemina la sua strenua difesa dell'idea che l'essere umano è essenzialmente androgino, la sua convinzione che in ogni persona convivano una parte maschile e una femminile entrambe da esplorare con naturalilezza, e non manca di far pesare il suo punto di vista sulle scelte della politica e del costume, sottolineando con ironia il mancato ruolo della donna nella società a lei contemporanea. Orlando è un libro che convinse tutti e che la consacrò nell'olimpo degli scrittori del suo tempo: alla sua uscita infatti fu accolto trionfalmente sia dal pubblico che dalla critica, e la stessa Woolf - sempre severa verso il proprio lavoro - non poté non riconoscere l'originalità dello stile usato, della composizione, del tema.

Stralci

Egli – poiché dubbio non v’era sul suo sesso, per quanto la foggia di quei tempi lo dissimulasse – stava prendendo a piattonate la testa di un moro, che dondolava appesa alle travi del soffitto.

[...] Mentre le ben formate gambe, il corpo armonioso, le eleganti spalle di Orlando erano maculate di luminosi colori araldici, non altro che il sole illuminò il suo viso, allorchè aperse impetuoso la finestra. Viso più candido e più serio non si sarebbe potuto immaginare. Felice la madre che portò in seno un essere tale, e più felice ancora il biografo che ne tramanderà la vita! Se l’una non avrà mai luogo ad affliggersi, all’altro sarà risparmiato ricorrere all’aiuto del novellatore e del poeta. Di gesta in gesta, di gloria in gloria, di onore in onore andrà l’eroe, seguito dal suo scriba, fino a che raggiungeranno quel trono supremo, quale ch’esso sia, dove culminano le loro aspirazioni. E invero, al solo vederlo Orlando appariva  predestinato a una simile carriera. Una peluria come di pesca velava l’incarnato delle guance, sul labbro appena un poco più accentuata che sulle gote. Il labbro era breve, e leggermente rialzato su denti d’una squisita bianchezza di mandorla. Perfetta si tendeva la curva del naso, quale freccia in rapido e sicuro volo; brune erano le chiome, piccole le orecchie e aderenti al capo. Ma come terminare, ahimé, tanta enumerazione di giovanili beltà, senza rammentare e fronte e occhi? Perchè ahimé, è sì raro che creatura umana nasca privata di essi. E appena il nostro occhio cade su di Orlando presso la vetrata, ecco che ci colpiscono i suoi occhi pari a viole inumidite, grandic ome se l’acqua che le impregna ancora le dilatasse; e la fronte ricurva come superba cupola marmorea, tra i due medaglioni politi delle tempie. Ecco che appena il nostro occhio cade sugli occhi, e sulla fronte, l’estro poetico ci assale.

[...] Profondamente sospirò e si gettò – c’era nei suoi gesti una passione che merita la parola – sul nudo suolo ai piedi della quercia. Godeva nel sentire, sotto l’effimera apparenza dell’estate, la spina dorsale della terra; ché tale era per lui la dura radice della quercia, oppure – l’immagine seguendo l’immagine – era il dorso d’un gran destriero che cavalcava; o la tolda di una nave in preda alle onde; qualsiasi cosa, insomma, purchè solida, poiché egli anelava a qualche cosa cui ormeggiare il suo fluttuante cuore; quel cuore che ogni sera in quella stagione, quando s’aggirava per le campagne, pareva ricolmo di aromatiche e languide sensazioni d’amore. Alla quercia egli lo legò e standosene così disteso, a poco a poco il pulsare scomposto, entro di lui e intorno, si calmò; sostarono sospese le esigue foglie, si fermò il daino; si arrestarono le pallide nuvole d’estate; le membra gli si appensantirono sul suolo; e giacque così immoto che passo passo il daino si appressò, le cornacchie roteando scesero sul suo capo, le rondini si tuffarono e volteggiarono, il sussurro delle libellule lo sfiorò, quasi tutta la fertilità e il tripudio d’amore della sera d’estate tessero la propria trama intorno al suo corpo. [...] Vigore, grazia, fantasia, poesia, giovinezza – leggeva in lui come un libro aperto.

[...] Un bel mattino – era sabato diciotto luglio – non si alzò all’ora consueta, e il domestico che venne a chiamarlo lo trovò profondamente addormentato. Né lo si poté svegliare. Giaceva come immerso in un sopore, senza respiro percettibile; e per quanto si conducessero cani ad abbaiare sotto le sue finestre, e cimbali e tamburi e castagnette risuonassero giorno e notte nella sua camera; e ciuffi d’erica gli venissero posti sotto il guanciale ed empiastri di senapa ai piedi, pure non si destò, non prese cibo, non dette segno di vita per sette giorni di fila. Al settimo si svegliò all’ora solita (le otto meno un quarto precise) e si affrettò a cacciare dalle sue stanze lo stuolo di fattucchiere e femmine miagolanti; cosa più che naturale fin qui; ma lo strano era che non mostrava coscienza del sopore da cui s’era destato; e, vestitosi, fece sellare il suo cavallo come se si fosse svegliato dal sonno consueto di tutti i giorni. Pure, vi fu chi sospettò che qualche mutamento avesse avuto luogo nel suo cervello, poiché per quanto fosse perfettamente in sé, anzi apparisse più grave e composto di modi che mai, sembrava serbare del passato un ricordo imperfetto. [...] Ma se sonno era stato, è lecito domandare di che natura può esser mai un sonno simile? Rappresenta un mezzo di difesa dell’organismo – un letargo per cui i ricordi più amari, gli avvenimenti che si direbbe debbano infrangere per sempre un’esistenza, sono spazzati via da un’ala oscura, che ne attenua le asprezze e li cosparge d’un dorato pulviscolo, il quale conferisce anche ai più brutti, ai più ignobili, un certo lustro, un certo fulgore? E’ dunque necessario che di tanto in tanto la morte ponga il suo dito sul tumulto della vita, per impedirle di spezzarci? La natura umana è dunque di tale fattura da dover prendere la morte a piccole dosi, giorno per giorno, per continuare la vita? E allora, quali strane forse sono queste che penetrano le nostre vie più segrete, cambiando  i nostri beni più preziosi senza curarsi del nostro volere? Forse che Orlando, sfinito dalla violenza del suo soffrire, era morto per una settimana, per poi risuscitare? E se così è, di che natura è la morte, e di che natura è la vita?

[...] Egli era un aristocratico malato d’amore per la letteratura. [...] In quella solitudine, il male faceva rapidi progressi su di lui. Spesso leggeva per sei ore di fila, fino a notte alta. [...] Ma dovevano vedere di peggio. Poichè una volta che il baco dei libri si è impadronito del sistema umano, lo indebolisce tanto che esso diventa una facile preda per quell’altro flagello, quella che si annida in fondo ai calamai e i cui germi pullulano in cima alla penna. La vittima incomincia a scrivere.

[...] Non tardò tuttavia ad accorgersi chele battaglie impegnate da Sir Miles e dagli altri ben corazzati cavalieri onde conquistare un regno erano di gran lunga meno ardue di quelle che ora intraprendeva lui, contro la lingua inglese, alla conquista dell’immortalità. Chiunque avrà una lontana familiarità con le difficoltà dello stile saprà figurarsi come andassero le cose: lui scriveva, e quel che aveva scritto non gli sembrava cattivo; leggeva, e trovava tutto da buttarsi ai cani, correggeva, per poi fare a pezzi il foglio; tagliava; aggiungeva; andava in visibilio, per cadere tosto in disperazione; la notte gli era propizia, e inviso il mattino; coglieva al volo un’idea per poi perderla; si vedeva davanti il suo libro sin nei minimi particolari, e un momento dopo esso svaniva; recitava, a tavola, la parte dei suoi personaggi; la declamava passeggiando; ora rideva, ora piangeva; ondeggiava fra questo stile e quest’altro; oggi preferiva l’eroico e il pomposo, domani il semplice, il piano; ora esplorava la valle di Tempe, ora i campi di Kent e Cornovaglia; e  non avrebbe saputo dire di sé se fosse il genio più divino o il più grande pazzo di questo mondo. [...] Si sentiva invadere dalla ineffabile speranza che tutta la sua turbolenza giovanile, le sue goffaggini, i suoi rossori, le lunghe passeggiate, l’amore della natura, altro non fossero se non la prova che egli apparteneva a una razza sacra piuttosto che nobile – che egli fosse, insomma, destinato per nascita a essere scrittore piuttosto che gentiluomo. Per la prima volta dopo la notte della grande inondazione, si sentì felice.

[...] E ogni volta che tentava di pescare nel proprio cervello un oggetto qualsiasi, lo trovava tutto ingombro di altre cose, come il pezzo di vetro sul quale, dopo un anno che giace in fondo al mare, si saranno incrostate ossa e libellule, monete e trecce di donne annegate.

[...] All’indomani, i segretari trovarono il Duca, come dovremo chiamarlo d’ora innanzi, immerso in un sonno profondo. [...] Ma quando si giunse al pomeriggio, e quello dormiva sempre, venne mandato a chiamare i medico. Questi prescrisse le stesse medicine già ordinate la volta precedente: empiastri, ortiche, emetici, ecc., ma senza successo. Orlando dormiva della grossa. [..] Al settimo giorno del suo letargo (mercoledì 10 maggio) venne sparato il primo colpo di quella terribile e sanguinosa insurrezione di cui il luogotenente Brigge aveva avvertito i primi sintomi. [...] Potessimo risparmiare al lettore ciò che verrà, dicendogli in poche parole: Orlando morì, e fu seppellito. Ma qui, ahimé, Verità, Equità e Onestà, austere divinità che fanno buona guardia presso i biografi gridano: No! [...] “LA VERITA’!”.  A quell’urlo Orlando si svegliò. Si stirò le membra. Si alzò. Sostò ritto in piedi dinanzi a noi, nella sua assoluta nudità, e mentre durava ancora il tuono delle trome: Verità! Verità! Verità! altro non ci rimane che confessare – Orlando era una donna.

[...] Orlando – vano sarebbe stato negarlo – era diventato donna. Ma sotto ogni altro rapporto, Orlando rimaneva tale e quale quello di prima. Il mutamento di sesso poteva bensì alterare l’avvenire dei due Orlando, ma per nulla affatto la loro personalità. I due visi rimasero, come lo provano i ritratti, perfettamente simili. [...] La metamorfosi sembrava essersi compiuta senza alcun dolore, nel modo più completo, e con tanta perfezione che Orlando stessa non ne fu minimamente sorpresa.

[...] Fu soltanto quando sentì l’impaccio di una gonna lungo le gambe, e quando il capitano, con la più gran cortesia, le offrì di innalzare una tenda appositamente per lei sul ponte della nave, che tutt’a un tratto, si rese conto dei privilegi e degli oneri della sua situazione. Ma la sorpresa non era del genere che si sarebbe potuta attendere. Vale a dire che non era stata provocata semplicemente e unicamente dal pensiero della sua castità e dalla preoccupazione di conservarla. In circostanze normali, un’amabile e giovane donna sola al mondo non avrebbe pensato ad altro, poichè l’intero edificio della femminilità è basato su questa pietra; la castità è il gioiello della donna, la chiave di volta di tutto il suo essere, che protegge a costo di qualsiasi sacrificio e muore quando le viene rapita a forza. Ma se uno è stato per circa trent’anni un uomo [...] è chiaro che non proverà poi una così grande emozione a quel pensiero. [...] Le ci volle tutto intero il viaggio per scoprire la vera ragione della sorpresa provata. [...] Allora inseguiva, ora fuggiva. Chi provava l’estasi maggiore? L’uomo o la donna? O non sono uguali, i due sentimenti? “No” pensò “questo è più delizioso (e rifiutando ringraziò il capitano), questo: rifiutare e vederlo oscurarsi in viso” Ebbeme, sia, poichè egli lo desiderava, avrebbe accettato la più piccola, la più trasparente fettina del mondo. Non era la cosa più deliziosa, cedere, e vederlo sorridere? “No” pensava poi, quando fu tornata al suo divano sul ponte, e riprese la discussione con se stessa; “no affatto: non c’è gioia più celestiale che quella di resistere e poi cedere, cedere e poi resistere. Sommerge l’animo in una delizia, che non ha l’uguale.”

[...] I sessi, è vero, son diversi; eppure, si confondono. Non c’è essere umano che non oscilli così da un sesso all’altro, e spesso non sono che gli abiti i quali serbano l’apparenza virile o femminile, mentre il sesso profondo è l’opposto di quello superficiale.

[...] La vita è un sogno. E’ il risveglio che ci uccide.

[...] “E’ noto” scrive il signor S.W. “che quando manca loro lo stimolo dell’altro sesso, le donne non trovano più nulla da dirsi. Quando sono sole, non parlano, graffiano”.

[...] Aveva preso l’abitudine di vestire ora abiti virili, ora femminili. [...] Sembra che lei non provasse difficoltà alcuna nel sostenere le due parti, poichè mutò di sesso assai più frequentemente di quando non potranno figurarselo quelli abituati a portare sempre e soltanto gli abiti di un solo sesso; e non c’è dubbio che, con questo espediente, non raccogliesse doppia messe; i piaceri della vita erano accresciuti, e le esperienza moltiplicate, Orlando scambiava la probità delle brache con la seduzione delle gonnelle e godeva così la gioia di essere amata da entrambi i sessi.

[...] E’ un fatto evidente che noi [...] non scriviamo soltanto con le dita, ma con tutta la persona. Il nervo che controlla la penna si abbarbica a ogni fibra dell’essere nostro, penetra il cuore, trafigge il fegato.

[...] La luce morente mitigava ogni cosa, non rivelava più nulla di minuto, ma solo campi brumosi, casolari, in cui s’accendevano lumi, la massa assonnata di un bosco, e il ventaglio di un riflettore che spingeva l’oscurità avanti a sé lungo una strada. [...] La luna sorse lenta sulla foresta. La sua luce costruì in terra un castello fantasma. Là s’innalzava la grande casa con tutte le finestre argentate. Niente mura, nessuna sostanza. Tutto non era che fantasma. Tutto era silenzio. Le luci brillavano, come in attesa d’una regina defunta. Laggiù ai suoi piedi, nel grande cortile d’onore, Orlando vide oscillare pennacchi neri, e delle torce tremolare, delle ombre inginocchiarsi. Come già un tempo, una regina scendeva dal suo cocchio. [...] E mezzanotte batté il suo dodicesimo colpo; il dodicesimo colpo di mezzanotte, giovedì undici ottobre millenovecentoventotto.

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