«Egli anelava a
qualche cosa cui ormeggiare il suo fluttuante cuore»
Non sono in grado di scrivere
alcuna recensione su questo libro, perchè bisogna leggerlo per apprezzarlo, per lasciarsi travolgere
dallo stupore di un cambio di sesso attraverso i molti secoli che Orlando vive,
dall’eleganza con la quale il personaggio mantiene la scena, alternando ora l'uomo, ora la donna, ora l'anima senza sesso, nuda e in
pena alla ricerca di qualcosa che forse nemmeno in ultimo riesce a trovare.
Siamo
nell'Inghilterra di Elisabetta I. Orlando è un affascinante nobile. La bellezza
e l'ambiguità dei suoi tratti sono armi in grado di conquistare la regina, che
infatti lo introduce a corte. Lì Orlando, divenuto il prediletto di Sua Maestà,
vive attorniato dal lusso, e alla morte di Elisabetta I rimane a corte al
servizio di re Giacomo I. L'Inghilterra e gran parte dell'Europa vengono
travolte da un'ondata di gelo e durante questo periodo di irreale biancore
Orlando incontra la bella Sasha, figlia dell'ambasciatore di Russia, della
quale si innamora perdutamente e per la quale lascia ogni cosa. Ma il loro
amore non durerà a lungo, e Orlando si rifugerà nell'unico luogo dove si sente
a suo agio: la sua casa natia. Un sonno lungo una settimana lo colpirà, e al
risveglio partirà in veste di ambasciatore alla volta dell'Asia. Cade
nuovamente in un nuovo lunghissimo sonno, ma al suo ridestarsi deve fare i
conti con una verità sconvolgente: scopre infatti di essersi risvegliato nel
corpo di una donna. La cosa non sembra stupirlo, Orlando considera l'accaduto
come una opportunità e sceglie di vivere per un po' di tempo con un gruppo di
zingari tra i quali la donna è tenuta di gran lunga più in considerazione che
non in Inghilterra. Orlando-donna tornerà a Londra, dove imparerà ad amare la
poesia scoprendo la sua vocazione per le lettere, e farà della propria casa un
luogo di ritrovo per intellettuali e poeti. Si innamorerà poi di Lord Bonthrop
Shelmerdine, un avventuriero incontrato per caso: la storia di Orlando si
conclude nel 1928, lei è una scrittrice di fama e il suo romanzo La quercia
conserva atmosfere e luoghi vissuti nella sua lunga vita...
"Ieri mattina ero disperata, non
riuscivo a spremere una parola, alla fine mi sono presa la testa tra le mani,
ho intinto la penna nell'inchiostro, e ho scritto queste parole quasi
meccanicamente, sul foglio bianco: Orlando. Una biografia. Appena fatto questo,
il mio corpo è stato invaso dall'estasi, la mia mente da idee". Queste le
parole che Virginia Woolf esattamente il 9 ottobre del 1927 scrisse in una
lettera indirizzata a Vita Sakville West, la donna con la quale Virginia Woolf
ebbe una storia d'amore, l'amica con la quale condivise gran parte della vita.
E Orlando a pieno diritto può essere considerato una lunghissima lettera
d'amore, scritta dalla Woolf per rendere immortale la figura di Vita, per
rendere eterno il suo fascino ambiguo e prepotente, per lasciare una
testimonianza eccellente di un amore mai dimenticato. Per un anno intero il
libro diventerà infatti un gioco privato tra le due donne: alla notizia che
Virginia avrebbe scritto di-per-su di lei, Vita ne fu incantata e non si preoccupò
minimamente del fatto che grazie alla dedica e alle fotografie che Virginia
voleva inserire avrebbe potuto essere riconosciuta. Al contrario l'aiutò a
sceglierne di adatte e le raccontò aneddoti e ricordi legati al proprio
vissuto. La Woolf tra le pagine di Orlando dissemina la sua strenua difesa
dell'idea che l'essere umano è essenzialmente androgino, la sua convinzione che
in ogni persona convivano una parte maschile e una femminile entrambe da
esplorare con naturalilezza, e non manca di far pesare il suo punto di vista
sulle scelte della politica e del costume, sottolineando con ironia il mancato
ruolo della donna nella società a lei contemporanea. Orlando è un libro che
convinse tutti e che la consacrò nell'olimpo degli scrittori del suo tempo:
alla sua uscita infatti fu accolto trionfalmente sia dal pubblico che dalla
critica, e la stessa Woolf - sempre severa verso il proprio lavoro - non poté
non riconoscere l'originalità dello stile usato, della composizione, del tema.
Stralci
Egli – poiché dubbio non v’era
sul suo sesso, per quanto la foggia di quei tempi lo dissimulasse – stava prendendo
a piattonate la testa di un moro, che dondolava appesa alle travi del soffitto.
[...] Mentre le ben formate
gambe, il corpo armonioso, le eleganti spalle di Orlando erano maculate di
luminosi colori araldici, non altro che il sole illuminò il suo viso, allorchè
aperse impetuoso la finestra. Viso più candido e più serio non si sarebbe
potuto immaginare. Felice la madre che portò in seno un essere tale, e più
felice ancora il biografo che ne tramanderà la vita! Se l’una non avrà mai
luogo ad affliggersi, all’altro sarà risparmiato ricorrere all’aiuto del
novellatore e del poeta. Di gesta in gesta, di gloria in gloria, di onore in
onore andrà l’eroe, seguito dal suo scriba, fino a che raggiungeranno quel
trono supremo, quale ch’esso sia, dove culminano le loro aspirazioni. E invero,
al solo vederlo Orlando appariva
predestinato a una simile carriera. Una peluria come di pesca velava l’incarnato
delle guance, sul labbro appena un poco più accentuata che sulle gote. Il
labbro era breve, e leggermente rialzato su denti d’una squisita bianchezza di
mandorla. Perfetta si tendeva la curva del naso, quale freccia in rapido e
sicuro volo; brune erano le chiome, piccole le orecchie e aderenti al capo. Ma
come terminare, ahimé, tanta enumerazione di giovanili beltà, senza rammentare
e fronte e occhi? Perchè ahimé, è sì raro che creatura umana nasca privata di
essi. E appena il nostro occhio cade su di Orlando presso la vetrata, ecco che
ci colpiscono i suoi occhi pari a viole inumidite, grandic ome se l’acqua che
le impregna ancora le dilatasse; e la fronte ricurva come superba cupola
marmorea, tra i due medaglioni politi delle tempie. Ecco che appena il nostro
occhio cade sugli occhi, e sulla fronte, l’estro poetico ci assale.
[...] Profondamente sospirò e si
gettò – c’era nei suoi gesti una passione che merita la parola – sul nudo suolo
ai piedi della quercia. Godeva nel sentire, sotto l’effimera apparenza dell’estate,
la spina dorsale della terra; ché tale era per lui la dura radice della
quercia, oppure – l’immagine seguendo l’immagine – era il dorso d’un gran
destriero che cavalcava; o la tolda di una nave in preda alle onde; qualsiasi
cosa, insomma, purchè solida, poiché egli anelava a qualche cosa cui ormeggiare il
suo fluttuante cuore; quel cuore che ogni sera in quella stagione,
quando s’aggirava per le campagne, pareva ricolmo di aromatiche e languide
sensazioni d’amore. Alla quercia egli lo legò e standosene così disteso, a poco
a poco il pulsare scomposto, entro di lui e intorno, si calmò; sostarono
sospese le esigue foglie, si fermò il daino; si arrestarono le pallide nuvole d’estate;
le membra gli si appensantirono sul suolo; e giacque così immoto che passo
passo il daino si appressò, le cornacchie roteando scesero sul suo capo, le
rondini si tuffarono e volteggiarono, il sussurro delle libellule lo sfiorò,
quasi tutta la fertilità e il tripudio d’amore della sera d’estate tessero la
propria trama intorno al suo corpo. [...] Vigore, grazia, fantasia, poesia,
giovinezza – leggeva in lui come un libro aperto.
[...] Un bel mattino – era sabato
diciotto luglio – non si alzò all’ora consueta, e il domestico che venne a
chiamarlo lo trovò profondamente addormentato. Né lo si poté svegliare. Giaceva
come immerso in un sopore, senza respiro percettibile; e per quanto si
conducessero cani ad abbaiare sotto le sue finestre, e cimbali e tamburi e
castagnette risuonassero giorno e notte nella sua camera; e ciuffi d’erica gli
venissero posti sotto il guanciale ed empiastri di senapa ai piedi, pure non si
destò, non prese cibo, non dette segno di vita per sette giorni di fila. Al
settimo si svegliò all’ora solita (le otto meno un quarto precise) e si
affrettò a cacciare dalle sue stanze lo stuolo di fattucchiere e femmine
miagolanti; cosa più che naturale fin qui; ma lo strano era che non mostrava
coscienza del sopore da cui s’era destato; e, vestitosi, fece sellare il suo
cavallo come se si fosse svegliato dal sonno consueto di tutti i giorni. Pure,
vi fu chi sospettò che qualche mutamento avesse avuto luogo nel suo cervello,
poiché per quanto fosse perfettamente in sé, anzi apparisse più grave e
composto di modi che mai, sembrava serbare del passato un ricordo imperfetto.
[...] Ma se sonno era stato, è lecito domandare di che natura può esser mai un
sonno simile? Rappresenta un mezzo di difesa dell’organismo – un letargo per
cui i ricordi più amari, gli avvenimenti che si direbbe debbano infrangere per
sempre un’esistenza, sono spazzati via da un’ala oscura, che ne attenua le
asprezze e li cosparge d’un dorato pulviscolo, il quale conferisce anche ai più
brutti, ai più ignobili, un certo lustro, un certo fulgore? E’ dunque
necessario che di tanto in tanto la morte ponga il suo dito sul tumulto della
vita, per impedirle di spezzarci? La natura umana è dunque di tale fattura da
dover prendere la morte a piccole dosi, giorno per giorno, per continuare la
vita? E allora, quali strane forse sono queste che penetrano le nostre vie più
segrete, cambiando i nostri beni più
preziosi senza curarsi del nostro volere? Forse che Orlando, sfinito dalla
violenza del suo soffrire, era morto per una settimana, per poi risuscitare? E
se così è, di che natura è la morte, e di che natura è la vita?
[...] Egli era un aristocratico
malato d’amore per la letteratura. [...] In quella solitudine, il male faceva
rapidi progressi su di lui. Spesso leggeva per sei ore di fila, fino a notte
alta. [...] Ma dovevano vedere di peggio. Poichè una volta che il baco dei
libri si è impadronito del sistema umano, lo indebolisce tanto che esso diventa
una facile preda per quell’altro flagello, quella che si annida in fondo ai
calamai e i cui germi pullulano in cima alla penna. La vittima incomincia a
scrivere.
[...] Non tardò tuttavia ad
accorgersi chele battaglie impegnate da Sir Miles e dagli altri ben corazzati
cavalieri onde conquistare un regno erano di gran lunga meno ardue di quelle
che ora intraprendeva lui, contro la lingua inglese, alla conquista dell’immortalità.
Chiunque avrà una lontana familiarità con le difficoltà dello stile saprà
figurarsi come andassero le cose: lui scriveva, e quel che aveva scritto non
gli sembrava cattivo; leggeva, e trovava tutto da buttarsi ai cani, correggeva,
per poi fare a pezzi il foglio; tagliava; aggiungeva; andava in visibilio, per
cadere tosto in disperazione; la notte gli era propizia, e inviso il mattino;
coglieva al volo un’idea per poi perderla; si vedeva davanti il suo libro sin
nei minimi particolari, e un momento dopo esso svaniva; recitava, a tavola, la
parte dei suoi personaggi; la declamava passeggiando; ora rideva, ora piangeva;
ondeggiava fra questo stile e quest’altro; oggi preferiva l’eroico e il
pomposo, domani il semplice, il piano; ora esplorava la valle di Tempe, ora i
campi di Kent e Cornovaglia; e non
avrebbe saputo dire di sé se fosse il genio più divino o il più grande pazzo di
questo mondo. [...] Si sentiva invadere dalla ineffabile speranza che tutta la
sua turbolenza giovanile, le sue goffaggini, i suoi rossori, le lunghe
passeggiate, l’amore della natura, altro non fossero se non la prova che egli
apparteneva a una razza sacra piuttosto che nobile – che egli fosse, insomma,
destinato per nascita a essere scrittore piuttosto che gentiluomo. Per la prima
volta dopo la notte della grande inondazione, si sentì felice.
[...] E ogni volta che tentava di
pescare nel proprio cervello un oggetto qualsiasi, lo trovava tutto ingombro di
altre cose, come il pezzo di vetro sul quale, dopo un anno che giace in fondo
al mare, si saranno incrostate ossa e libellule, monete e trecce di donne
annegate.
[...] All’indomani, i segretari
trovarono il Duca, come dovremo chiamarlo d’ora innanzi, immerso in un sonno
profondo. [...] Ma quando si giunse al pomeriggio, e quello dormiva sempre,
venne mandato a chiamare i medico. Questi prescrisse le stesse medicine già
ordinate la volta precedente: empiastri, ortiche, emetici, ecc., ma senza
successo. Orlando dormiva della grossa. [..] Al settimo giorno del suo letargo
(mercoledì 10 maggio) venne sparato il primo colpo di quella terribile e
sanguinosa insurrezione di cui il luogotenente Brigge aveva avvertito i primi
sintomi. [...] Potessimo risparmiare al lettore ciò che verrà, dicendogli in
poche parole: Orlando morì, e fu seppellito. Ma qui, ahimé, Verità, Equità e
Onestà, austere divinità che fanno buona guardia presso i biografi gridano: No!
[...] “LA VERITA’!”. A quell’urlo
Orlando si svegliò. Si stirò le membra. Si alzò. Sostò ritto in piedi dinanzi a
noi, nella sua assoluta nudità, e mentre durava ancora il tuono delle trome:
Verità! Verità! Verità! altro non ci rimane che confessare – Orlando era una
donna.
[...] Orlando – vano sarebbe
stato negarlo – era diventato donna. Ma sotto ogni altro rapporto, Orlando
rimaneva tale e quale quello di prima. Il mutamento di sesso poteva bensì
alterare l’avvenire dei due Orlando, ma per nulla affatto la loro personalità.
I due visi rimasero, come lo provano i ritratti, perfettamente simili. [...] La
metamorfosi sembrava essersi compiuta senza alcun dolore, nel modo più
completo, e con tanta perfezione che Orlando stessa non ne fu minimamente
sorpresa.
[...] Fu soltanto quando sentì l’impaccio
di una gonna lungo le gambe, e quando il capitano, con la più gran cortesia, le
offrì di innalzare una tenda appositamente per lei sul ponte della nave, che
tutt’a un tratto, si rese conto dei privilegi e degli oneri della sua
situazione. Ma la sorpresa non era del genere che si sarebbe potuta attendere.
Vale a dire che non era stata provocata semplicemente e unicamente dal pensiero
della sua castità e dalla preoccupazione di conservarla. In circostanze
normali, un’amabile e giovane donna sola al mondo non avrebbe pensato ad altro,
poichè l’intero edificio della femminilità è basato su questa pietra; la
castità è il gioiello della donna, la chiave di volta di tutto il suo essere,
che protegge a costo di qualsiasi sacrificio e muore quando le viene rapita a
forza. Ma se uno è stato per circa trent’anni un uomo [...] è chiaro che non
proverà poi una così grande emozione a quel pensiero. [...] Le ci volle tutto
intero il viaggio per scoprire la vera ragione della sorpresa provata. [...]
Allora inseguiva, ora fuggiva. Chi provava l’estasi maggiore? L’uomo o la
donna? O non sono uguali, i due sentimenti? “No” pensò “questo è più delizioso
(e rifiutando ringraziò il capitano), questo: rifiutare e vederlo oscurarsi in
viso” Ebbeme, sia, poichè egli lo desiderava, avrebbe accettato la più piccola,
la più trasparente fettina del mondo. Non era la cosa più deliziosa, cedere, e
vederlo sorridere? “No” pensava poi, quando fu tornata al suo divano sul ponte,
e riprese la discussione con se stessa; “no affatto: non c’è gioia più
celestiale che quella di resistere e poi cedere, cedere e poi resistere.
Sommerge l’animo in una delizia, che non ha l’uguale.”
[...] I sessi, è vero, son
diversi; eppure, si confondono. Non c’è essere umano che non oscilli così da un
sesso all’altro, e spesso non sono che gli abiti i quali serbano l’apparenza
virile o femminile, mentre il sesso profondo è l’opposto di quello
superficiale.
[...] La vita è un sogno. E’ il
risveglio che ci uccide.
[...] “E’ noto” scrive il signor
S.W. “che quando manca loro lo stimolo dell’altro sesso, le donne non trovano
più nulla da dirsi. Quando sono sole, non parlano, graffiano”.
[...] Aveva preso l’abitudine di
vestire ora abiti virili, ora femminili. [...] Sembra che lei non provasse
difficoltà alcuna nel sostenere le due parti, poichè mutò di sesso assai più
frequentemente di quando non potranno figurarselo quelli abituati a portare
sempre e soltanto gli abiti di un solo sesso; e non c’è dubbio che, con questo
espediente, non raccogliesse doppia messe; i piaceri della vita erano
accresciuti, e le esperienza moltiplicate, Orlando scambiava la probità delle
brache con la seduzione delle gonnelle e godeva così la gioia di essere amata
da entrambi i sessi.
[...] E’ un fatto evidente che
noi [...] non scriviamo soltanto con le dita, ma con tutta la persona. Il nervo
che controlla la penna si abbarbica a ogni fibra dell’essere nostro, penetra il
cuore, trafigge il fegato.
[...] La luce morente mitigava
ogni cosa, non rivelava più nulla di minuto, ma solo campi brumosi, casolari,
in cui s’accendevano lumi, la massa assonnata di un bosco, e il ventaglio di un
riflettore che spingeva l’oscurità avanti a sé lungo una strada. [...] La luna
sorse lenta sulla foresta. La sua luce costruì in terra un castello fantasma.
Là s’innalzava la grande casa con tutte le finestre argentate. Niente mura,
nessuna sostanza. Tutto non era che fantasma. Tutto era silenzio. Le luci
brillavano, come in attesa d’una regina defunta. Laggiù ai suoi piedi, nel
grande cortile d’onore, Orlando vide oscillare pennacchi neri, e delle torce
tremolare, delle ombre inginocchiarsi. Come già un tempo, una regina scendeva
dal suo cocchio. [...] E mezzanotte batté il suo dodicesimo colpo; il
dodicesimo colpo di mezzanotte, giovedì undici ottobre millenovecentoventotto.
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