«Il fatto è che mia figlia Irene stava morendo, o
stava nascendo, non ho capito bene. [...] Non avevo mai
conosciuto la sua presenza e ora mi toccava un’assenza che non sapevo
riconoscere.»
Succede
a volte che un imprevisto interrompa il corso normale della vita: un accidente
si mette di traverso, e d'un tratto il tempo si biforca. Alla drammatica
rapidità dell'istante si affianca un tempo diverso, dilatato e fermo: il tempo
dell'attesa. «Io non sono buona ad aspettare, - dice Maria, la protagonista di
questo romanzo. - Non sento curiosità nel dubbio, né fascino nella speranza.
Aspettare senza sapere è stata la piú grande incapacità della mia vita».
Maria
insegna italiano in una scuola serale di Napoli, legge Dante e Leopardi a
giganteschi camionisti che faticano a infilarsi nei banchi.
Una
sera, tornando a casa, un dolore rotondo e forte la precipita nella sala
d'aspetto di un ospedale: «Quelli sono medici, signò, che vi possono
rispondere?»
Narrata
con una voce ribelle che pure sa trovare i toni dell'indulgenza, una storia che
inizia come un destino di solitudine personale e piano piano si trasforma in un
caldo coro di scoperte, volti e incontri. Tanto che a Maria sembra quasi che
siano la vita e la città a farle da compagne.
Un
libro bruciante, profondo, luminoso.
Dicono che...
Parliamo
oggi di un bellissimo libro, lo spazio bianco di Valeria Parrella. Questo è il
suo primo romanzo, sì, ma ciò non deve trarvi in inganno, non si tratta della
sua opera d’esordio. Alle sue spalle la Parrella porta con se Mosca più balena
(Minimum Fax, 2003, Premio Campiello opera prima), Per Grazia Ricevuta (Minimum
fax, 2005, finalista Premio Strega, Premio Renato Fucini, Premio
Zerilli-Marimò) e Il Verdetto (Bompiani, 2007). Ma torniamo al nostro libro, la
penna giovane e dissacrante si sente (L’autrice è del 1974), ma le righe veloci
da cui è composto non limitano affatto la sua profondità.
Maria fa l’insegnante
in una scuola serale dove convergono camionisti, donne ed uomini dell’est e
tutti coloro che hanno bisogno della terza media. Una sera come le altre un
dolore alla pancia la conduce al pronto soccorso dove, dovrà partorire. Sua
figlia, Irene, è prematura di tre mesi, e comincerà ad essere nutrita con
sondini e flebo. E’ così che Maria comincerà a vivere in una straziante attesa
(di circa 40 giorni N.d.A.), come lei stesso dice: << Il fatto è che mia
figlia stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene… >> . Ed in
questo fluttuare, Maria conosce le altre madri nel reparto di terapia
intensiva, tra donne accoltellate dal marito dopo il parto a donne che riescono
ad introdurre segretamente cibarie nel reparto. Ed in questa agonia Maria
continua ad occuparsi dei suoi studenti, sia tenendosi in contatto con
Fabrizio, l’altro insegnante, sia andando lei stessa a lezione.
Assistiamo ai
suoi confronti con i dottori, a quel loro modo di rispondere alle domande con
altre domande, e nell’aggressività di Maria riconosciamo quelle donne dalla
scorza dura che forse solo Napoli può preparare. Napoli, che fa da sfondo,
viene citata in poche pennellate, ma sono comunque piene di carattere, piene di
quel valore che la città ha sempre negli scritti della Parrella. Il libro
inizia con Maria in una condizione di solitudine, depressa, triste. Tuttavia in
questo cammino conosce persone, e piano piano, è il suo stesso dolore a farsi
portavoce di felicità, felicità che però è sempre finemente intesa, mai
declamata stucchevolmente.
Con gli eventi che travolgono Maria si intersecano i
suoi ricordi, la sua infanzia, i suoi genitori, le sue esperienze, regina fra
queste l’abbandono del padre di Irene, scappato appena saputo della gravidanza.
Alla fine Irene uscirà dalla terapia intensiva, e il libro ci lascia solo
immaginare come sarà dopo la vita di Maria.
Tutto in questo romanzo è
perfettamente bilanciato, la Parrella non scivola mai, si legge benissimo e ti
tira dentro nella storia, te la fa vivere (tra l’altro pare che la stessa
Parrella l’abbia vissuta davvero, la vicenda).
Vi chiederete a cosa allude il
titolo, beh, questo lo scoprirete voi quando lo leggerete, tra gli ultimissimi
righi. Ho scoperto tra l’altro che proprio in questi mesi uscirà il film
omonimo Lo Spazio Bianco proprio tratto dal romanzo. Ho visto che come attrice
a interpretare Maria ci sarà Margherita Buy, c’era da aspettarselo, e vedremo
alla regia Francesca Comencini e il film sarà prodotto da Domenico Procacci per
Fandango, in collaborazione con la Rai e la Regione Campania.
Io...
Ero
in ospedale quando ho letto questo libro. Tre ore: l’ho divorato. Guardavo in
cagnesco i medici che mi si avvicinavano: «Quelli sono medici, signò, che vi
possono rispondere?». E soprattutto mi immedesimavo in Maria, nelle sue
sensazioni, nel suo dolore, nella sua rabbia. E’ stato facile, per una situazione simile personale che ho vissuto,
purtroppo molto più dolorosa. Ma quella facilità ha fatto sì che le parole che
leggevo potessero passare attraverso il filtro dell’esperienza, per giungere
dritto dove nasce l’emozione. Non leggetelo se avete quarant’anni e siete in
attesa di un figlio: può essere devastante.
Lo spazio bianco
Io
leggevo. La testa si era esercitata così, a fidarsi solo di se stessa. E allora
ritornava nell’equivoco di bastarsi da sola ogni volta che si sentiva tradita
dalla realtà. Però stavolta non riuscivo a leggere: c’era una buca a ogni
parola scritta bene, inciampavo nei righi di qualunque romanzo, con
un’agitazione profonda.
Era
un uomo elegante che mi era passato nella vita recitando frasi molto belle. E
la bellezza si era poi rivelata essere l’unico valore che avevano. Tutto quello
che avevamo costruito insieme, era stato uno specchio che rifletteva le nostre
solitudini, quelle solitudini in cui ti ritrovi a quarant’anni, quando si è
placata l’ansia di fare tutto, e si può cominciare a prendere fiato. Non era
stato un grande amore, era stato solo distratto. E anche io, che ce ne ho messo
di tempo per capirlo, per non telefonargli più, per vederlo andare via, piccolo
uomo come era venuto.
Fosse
stato un aborto avrei aspettato il raschiamento, fosse stata una bambina
l’avrei tenuta in braccio. Io non avevo altre categorie a disposizione. [...]
Non ho neppure capito bene se Irene mi mancava, la notte. Non avevo mai
conosciuto la sua presenza e ora mi toccava un’assenza che non sapevo
riconoscere. La cercavo in come me la sarei immaginata e non potevo. Non potevo
guardare la parete della camera da letto e proiettarci l’immagine di una culla,
finchè il suo unico spazio era dentro la terapia intensiva. Io non avevo
immagini.
E Irene non c’era. Lei non
era nessuno, era un feto sgusciato, un corpo nudo il cui cuore batteva
centottanta volte in un minuto, la cui faccia era così piccola che nessuno
avrebbe potuto intuirne i lineamenti. Era una forma senza immagine, un atto
vivente che dietro di sé non aveva nessuna idea platonica a sorreggerlo, l’individuo
che non arriva da nessun paradigma. E io non ero sua madre, non ero una madre,
io ero un buco vuoto che ogni mattina prendeva una metropolitana per l’ospedale
e che quando usciva passava da un cinese take away perchè non c’era più ragione
di cucinare. Che aveva dimenticato in una borsa qualunque un libro sul
laicismo, e che ogni due ore e trenta minuti si alzava dal divanetto della sala
di attesa e si trascinava verso l’incubatrice in un modo che agli altri pareva
comprensibile e anche doveroso. Invece io mi alzavo e andavo in un modo
appannato e vago, come quelle foche che seguono i cadaveri dei loro figli
uccisi dai bracconieri.
-Tutto sommato abbiamo
avuto un culo enorme.
-Mina ma perchè?
-Eh, le altre mamme si sono
dovute accontentare dell’ecografia: noi stiamo vedendo tutto dal vivo.
Mi sembrava che gli altri
si lasciassero scorrere mentre io ero come uno scoglio che dava intralcio alla
corrente e da esso con odio si lasciava corrodere. Sono stata questa inutile
fatica, e questa fatica non si è mai sciolta.
Misuravo i giorni che
passavano con la lunghezza della mano di Irene, stretta su una delle mie
falangi.
Quando rialzai gli occhi
dal microfono mi accorsi che quelli della psicologa erano umidi. In genere gli
psicologi sorridono, e quel sorriso è funzionale, significa che la tragedia
enorme che gli stai srotolando davanti in fondo non è così enorme come sembra.
Quando uno psicologo piange forse vuol dire che sta partecipando, ma
sicuramente non è rassicurante.
Non sono buona ad aspettare. Aspettare senza sapere
è stata la più grande incapacità della mia vita. Nell'attesa ho avuto lo spazio
per costruire enormi impalcature di significato, e dieci minuti dopo farle
crollare, per mia stessa mano. Poi riprendere da un punto qualunque, correggere
il tiro di qualche centimetro per rendere la costruzione immaginata più solida.
Vederla crollare di nuovo. Ho speso svariati fine settimana della mia vita in
quest'opera, e pur riconoscendola, non ho mai saputo distrarmi. Ho sentito la
tragedia dell'attesa arrivare da lontano, da una telefonata, da un viaggio, da
una mail, da una notte di sesso, da un ospedale. Ho scelto dal mio arsenale di
dischi la musica che incalzasse l'angoscia, quella per stemperarla, poi più che
piangere: per sfinimento mi addormentavo. Nell'attesa ho sempre fatto sogni
chiari, di epoche che non ho dovuto conoscere né attraversare, il sogno è stato
il tempo speso meglio, e una volta sveglia il dolore era decuplicato. Io non so
aspettare e non voglio farlon nell'attesa i mostri prendono forma e si
ingigantiscono, mangiano le ore per crescere e mangiarmi. Non sento curiositá
nel dubbio, nè fascino nella speranza, fossi stata Eraclea, non mi sarei
fermata al bivio.
Non si
può essere diretti nella delusione, bisogna giocare di sponda.
Nessun commento:
Posta un commento