Archivio Blog

Cerca nel blog

21 nov 2012

Cime tempestose – Emily Brontë


Wuthering Heights

Virginia Woolf: “Il suo è il più raro dei poteri. Potrebbe liberare la vita dagli eventi; con pochi tocchi, tracciare lo spirito dietro un viso, così che non abbia più bisogno di un corpo; parlando della brughiera può fare soffiare il vento e roboare un tuono.”[1]
Charlotte Brontë : E’ “un’opera moorish: selvatica e nodosa come una radice d’erica”.


[1] Hers, then, is the rarest of all powers. She could free life from its dependence on facts; with a few touches indicate the spirit of a face so that it needs no body; by speaking of the moor make the wind blow and the thunder roar – Virginia Woolf, The Common Reader, Chapter 14th - Jane Eyre and Wuthering Heights - 

La trama

L'impossibile e tormentato amore per Catherine ispira in Heathcliff un odio profondo verso tutti coloro che li hanno ostacolati ed il desiderio ardente di vendetta consuma la sua esistenza senza dargli un attimo di pace, fino al momento in cui il suo corpo riposerà in eterno affianco a lei. Trovate qui (o su molti altri siti) la trama nel dettaglio, se volete: Wikipedia.
















Io preferisco fare parlare Catherine e Heathcliff e poi postare alcuni commenti particolari.

Catherine



«Sarebbe degradante per me sposare Heathcliff; perciò non saprà mai quanto lo amo, e non perché sia bello, Nelly, ma perché lui è me stessa più di quanto lo sia io. Di qualunque cosa siano fatte le nostre anime, la mia e la sua sono uguali; e quella di Linton è tanto diversa quanto un raggio di luna da un fulmine, o il gelo dal fuoco.

[...] I miei grandi dolori in questo mondo sono stati i dolori di Heathcliff, e li ho osservati e patiti tutti quanti fin dal principio; il mio più grande pensiero nella vita è lui. Se tutti quanti morissero, e non restasse che lui, io continuerei a esistere; e se tutti gli altri restassero in vita, e lui venisse annientato, l'universo mi diventerebbe completamente estraneo: non me ne sentirei più parte.

[...] Il mio amore per Heathcliff somiglia alle rocce eterne sotto terra: ne viene poco piacere visibile, ma è necessario. Nelly, io sono Heathcliff! Lui è sempre, sempre nei miei pensieri: non è un piacere, come io non sono sempre un piacere per me stessa, ma è il mio stesso essere. »

«Non ti auguro tormenti più grandi dei miei Heathcliff. Voglio soltanto che non ci separiamo mai; e se una mia parola ti facesse soffrire d’ora in poi, pensa che io sottoterra provo lo stesso dolore; e, ti prego, amore mio, perdonami! Vieni qui e inginocchiati ancora! Non mi hai fatto del male in tutta la tua vita. No, se rimani in collera con me, per te sarà un ricordo peggiore delle mie parole più dure!

[...] Sono stanca, stanca di stare rinchiusa qui. Non vedo l’ora di fuggire in un mondo più bello e restarci per sempre, senza più intravvederlo al di là di un velo di lacrime e, da dietro le mura del mio cuore dolorante, desiderarloda morire; voglio essere davvero in quel mondo, esserne parte.»



Heathcliff




«Il mio futuro sarebbe contenuto in due parole: morte e inferno: se perdessi lei, l’esistenza sarebbe un inferno. Ma sono stato uno stupido a pensare per un solo momento che l’amore di Edgar Linton per lei valesse più del mio. Se lui l’amasse con tutte le forze della sua meschina persona, non potrebbe amarla in ottant’anni quanto la amo io in un giorno.»

«Io amo chi mi ha ucciso, ma come posso amare chi ha assassinato te

«Catherine Earnshaw, che tu non possa riposare in pace finché io vivo! Hai detto che ti avevo uccisa; e allora vieni a tormentarmi! Le vittime lo devono fare, con i loro assassini! Io credo... io so che di spiriti vaganti sulla terra ce ne sono stati! Resta con me, per sempre; prendi qualunque forma; fammi impazzire! Ma non lasciami in questo abisso dove non posso trovarti! Oh Dio, è orribile! Non posso vivere senza la mia vita! Non posso vivere senza la mia anima!»

«Che misero finale, non ti sembra? Che conclusione assurda, per tutta la violenza dei miei sforzi. Mi procuro leve e picconi per demolire entrambe le case, mi alleno ad affrontare le fatiche di Ercole e, quando è tutto pronto e in mio potere, scopro di non aver più voglia di sollevare nemmeno una tegola da nessuno dei due tetti!. I miei nemici di un tempo non mi hanno sconfitto: ora sarebbe il momento giusto per vendicarmi sui loro discendenti; potrei farlo, e nessuno potrebbe impedirmelo. Ma a che servirebbe? Non ho più il desiderio di colpire, non vale la pena di alzare la mano! Sembra proprio che io abbia fatto tanta fatica per tutto questo tempo, solo per fare poi un bel gesto di magnanimità. Ma non è affatto così. E’ che ho perso la capacità di godere della loro distruzione, e sono troppo pigro per distruggere senza motivo.

 [...] Non posso guardare questo pavimento senza vedere i suoi lineamenti prendere forma nelle lastre! In ogni nuvola, in ogni albero vedo la sua immagine, l’aria della notte ne è satura, di giorno la scorgo ogni oggetto, ne sono circondato! Le facce più comuni di uomini e donne, la mia stessa faccia, mi deridono con illusorie somiglianze. Il mondo intero non è altro che una terribile collezione di ricordi del fatto che lei è esistita, e che io l’ho perduta.

[...] La mia vita quotidiana mi interessa così poco, che quasi non mi ricordo di mangiare e di bere. [...] Devo ricordare a me stesso di respirare, devo quasi ricordare al mio cuore di battere! [...] Ho un solo desiderio, e tutto il mio essere e le mie facoltà sono tese verso la sua realizzazione.


Epilogo



Il signor Heathcliff era lì, disteso supino. I suoi occhi incontrarono i miei con uno sguardo così feroce e penetrante, che trasalii; e poi sembrò sorridere.
Non potevo credere che fosse morto. Ma aveva il volto e il collo bagnato di pioggia e le lenzuola erano fradice, e lui era perfettamente immobile. La finestra, sbattendo avanti e indietro, gli avevano graffiato la mano che stava appoggiata al davanzale: dalla pelle escoriata non gocciolava sangue e, quando la toccai con il dito, non ebbi più dubbi: era morto e già rigido!

La gente di qui, se glielo chiedeste, giurerebbe sulla Bibbia che lui se ne va in giro. Alcuni dicono di averlo incontrato vicino alla chiesa, o nella brughiera, o perfino dentro questa casa. Stupide storie, dirà lei, e lo dico anch’io. Eppure quel vecchio accanto al fuoco in cucina sostiene di averne visti due affacciati alla finestra della sua camera, ogni notte di pioggia da quando è morto lui.

Indugiai attorno alle tombe, sotto quel cielo benevolo; guardai le farfalle notturne volteggiare fra l’erica e le campanule, ascoltai il respiro leggero del vento fra l’erba, e mi chiesi chi avrebbe mai potuto immaginare sonni inquieti per coloro che dormivano in quella terra quieta.


Estratto da “Perchè gli uomini non leggono Cime Tempestose” 

Cime Tempestose di Emily Brontë è un romanzo d’amore: è innegabile. Ma è duro come uno schiaffo e tagliente come un coltello. Come l’ha definito Charlotte Brontë (sorella di Emily e autrice di Jane Eyre) è “un’opera moorish: selvatica e nodosa come una radice d’erica”. E potente. (sempre Charlotte: “L’artista trovò un blocco di granito su una brughiera solitaria: guardando s’avvide che da quella scheggia di roccia si poteva ricavare una testa, selvaggia, scura, sinistra, una forma con almeno un elemento di grandezza: la potenza”).

[...] Nessuna donna, almeno per un attimo, non è stata soggiogata da Heathcliff o non ha desiderato essere amata con quella forza assoluta, inestinguibile, implacabile che anima il protagonista maschile del romanzo. Contro la sua volontà. Catherine è la sua dannazione. Il suo amore, questa furia indomita, è una pulsione di morte (e Freud, ripercorrendo il topos di Eros e Tanatos, non diceva che la libido nel profondo è un istinto di morte e di annullamento?). Catherine vive lo stesso tormento. La ricerca del compimento di questo amore, che non avviene e non può avvenire, costituisce la trama e lo scheletro del libro.
È dunque una storia di assoluto, come dice ancora la Woolf “di una forza insita nell’umana natura, che la innalza in presenza di ciò che è grande, a conferire al libro una statura straordinaria in mezzo agli altri romanzi”.



Estratto da “The CommonReader, Chapter 14th – Jane Eyre and Wuthering Heights”

Virginia Woolf

Wuthering Heights is a more difficult book to understand than Jane Eyre, because Emily was a greater poet than Charlotte. When Charlotte wrote she said with eloquence and splendour and passion “I love”, “I hate”, “I suffer”. Her experience, though more intense, is on a level with our own. But there is no “I” in Wuthering Heights. There are no governesses. There are no employers.

There is love, but it is not the love of men and women. Emily was inspired by some more general conception. The impulse which urged her to create was not her own suffering or her own injuries. She looked out upon a world cleft into gigantic disorder and felt within her the power to unite it in a book. That gigantic ambition is to be felt throughout the novel — a struggle, half thwarted but of superb conviction, to say something through the mouths of her characters which is not merely “I love” or “I hate”, but “we, the whole human race” and “you, the eternal powers...” the sentence remains unfinished. It is not strange that it should be so; rather it is astonishing that she can make us feel what she had it in her to say at all. It surges up in the half-articulate words of Catherine Earnshaw, “If all else perished and HE remained, I should still continue to be; and if all else remained and he were annihilated, the universe would turn to a mighty stranger; I should not seem part of it”. It breaks out again in the presence of the dead. “I see a repose that neither earth nor hell can break, and I feel an assurance of the endless and shadowless hereafter — the eternity they have entered — where life is boundless in its duration, and love in its sympathy and joy in its fulness.”

It is this suggestion of power underlying the apparitions of human nature and lifting them up into the presence of greatness that gives the book its huge stature among other novels. But it was not enough for Emily Brontë to write a few lyrics, to utter a cry, to express a creed. In her poems she did this once and for all, and her poems will perhaps outlast her novel. But she was novelist as well as poet. She must take upon herself a more laborious and a more ungrateful task. She must face the fact of other existences, grapple with the mechanism of external things, build up, in recognisable shape, farms and houses and report the speeches of men and women who existed independently of herself. And so we reach these summits of emotion not by rant or rhapsody but by hearing a girl sing old songs to herself as she rocks in the branches of a tree; by watching the moor sheep crop the turf; by listening to the soft wind breathing through the grass. The life at the farm with all its absurdities and its improbability is laid open to us. We are given every opportunity of comparing Wuthering Heights with a real farm and Heathcliff with a real man. How, we are allowed to ask, can there be truth or insight or the finer shades of emotion in men and women who so little resemble what we have seen ourselves? But even as we ask it we see in Heathcliff the brother that a sister of genius might have seen; he is impossible we say, but nevertheless no boy in literature has a more vivid existence than his. So it is with the two Catherines; never could women feel as they do or act in their manner, we say.

All the same, they are the most lovable women in English fiction. It is as if she could tear up all that we know human beings by, and fill these unrecognisable transparences with such a gust of life that they transcend reality. Hers, then, is the rarest of all powers. She could free life from its dependence on facts; with a few touches indicate the spirit of a face so that it needs no body; by speaking of the moor make the wind blow and the thunder roar. 


Estratto da “Ovvero delle Cime Tempestose” 

Margherita Giacobino

«Un classico è un’opera che si può continuare a leggere in modi diversi, in ambiti ed epoche diverse». Cime tempestose è quindi senza dubbio un classico: il mistero che ne costituisce il nucleo – o i misteri: perché in quella simmetria labirintica che è la sua struttura possiamo individuarne più d’uno – non solo non è stato svelato, cosa impossibile per un’opera letteraria, ma continua ad interessarci. A suggerirci domande e risposte precise o elusive, ad abbagliarci con chiarezze vitali o ad attrarci con altrettanto vitali oscurità.

Credo che la domanda fondamentale sia quella che sorge attorno all’affermazione di Catherine: «Io sono Heathcliff!» e che la scena in cui viene pronunciata questa battuta, il dialogo fra Catherine e Nelly, in cui la ragazza annuncia la sua decisione di sposare Linton e il suo amore per Heatcliff, possa considerarsi il perno ideale del romanzo. [...]

Quella che Gilbert definisce «la caduta dall’inferno al paradiso» si compie con la decisione di Catherine di sposare Linton, e rinunciare così ad Heathcliff. In termini non molto dissimili da quelli usati da Bataille, Gilbert vede nella casa natale di Catherine, Wuthering Heights, un «inferno» caro alla psiche femminile non addomesticata, ovvero un luogo non gerarchico, dove regna il caos e non l’ordine, i rapporti fra padroni e servi sono ambigui, e nulla è quello che sembra. Simbolicamente, è l’infanzia, il luogo della libertà possibile, della fantasia, della lotta per la vita. La Grange, invece, è il «paradiso» in termini borghesi: gerarchico, ordinato, civilizzato, i suoi abitanti non devono lottare per affermarsi, ma solo obbedire alle leggi che li reggono, alle parole che li definiscono. Nel «paradiso» della Grange, Catherine è condannata a morte. Ciò a cui rinuncia dunque è a se stessa, la parte più vitale di sé, quella che Gilbert definisce la sua androginia. Heathcliff, infatti, è l’altra metà di Catherine, la parte maschile del suo io preadolescente.

Ma dalla considerazione di Cime Tempestose come racconto-mito nasce il desiderio di un’interpretazione ancora più estensiva, e a fornircene i criteri è Clarissa Pinkola Estés con il suo Donne che corrono con i lupi, un’analisi di fiabe, miti e racconti popolari alla ricerca dell’archetipo della «donna selvaggia». La vicenda di Catherine costituisce infatti un folgorante esempio di quello che Pinkola definisce il «baratto alla cieca».

Pinkola, che segue la metodologia in uso nella psicologia archetipa, nella sua analisi di una storia considera tutti i personaggi che vi compaiono come aspetti della psiche di una singola donna. Ecco la definizione che dà del «baratto»: «Quale baratto maldestro fanno le donne? [...] Una risposta è costante: accettiamo il baratto meno conveniente quando cediamo la nostra vita sapiente profonda in cambio di una molto più fragile, quanto rinunciamo ai denti, agli artigli, al nostro senso, al nostro dorato; quando abbandoniamo la nostra natura più selvaggia per una promessa che pare ricca e si rivela vuota».

Catherine «baratta» Heathcliff, ovvero la sua natura selvaggia, in cambio della ricchezza, del prestigio e della rispettabilità sociale che Linton le offre. Ma non fa i conti con la realtà, s’inganna, pensando di poter pagare il prezzo richiesto senza eccessivo sacrificio, di potere, addirittura, continuare ad amare Heathcliff senza incorrere nella condanna sociale e destreggiarsi fra i due uomini senza mettere gravemente in pericolo la propria identità personale.

Il «baratto» come ce lo presenta Pinkola, è possibile proprio a causa dell’inesperienza della giovane donna, «tradita» dai genitori, che non sanno consigliarla. Il padre, ovvero quella funzione della psiche femminile che deve tutelare la donna nei suoi rapporti con l’esterno, e la madre, cioè la donna saggia che è dentro ciascuna di noi, «tradiscono» Catherine, vale a dire queste istanze non sono ancora così forti dentro di lei da darle buoni consigli: Catherine deve crescere, affrontare l’iniziazione e la morte per conquistarsi una sua saggezza, una conoscenza del mondo e di sé.

Nelly, la figura materna di Cime Tempestose, sa bene che Catherine sbaglia, ma non riesce a comunicarglielo, e ad un certo punto si tira indietro, non vuole saperne di più, non vuole sentire nulla che possa sembrarle il presagio di una catastrofe. Nelly è una cattiva madre per Catherine, come noi spesso siamo cattive madri per noi stesse: non ci amiamo abbastanza per salvarci dalla sofferenza. Un matrimonio sbagliato, per una donna, è sempre una catastrofe, perché fa danni su due livelli, reale e simbolico: un marito inadatto non è soltanto un baratto in perdita, un cattivo affare che lascia la donna impoverita o truffata ma sostanzialmente se stessa: è perdita di una parte di sé, rischio mortale. Perché sappiamo bene che sopravvivere integro alla sconfitta o alla perdita è privilegio maschile; la donna, che quando investe le sue sostanze, il suo tempo, il suo lavoro, investe sempre anche se stessa, corpo e psiche, va invece incontro alla mutilazione o morte simbolica.

Quindi, una storia d’amore ad un primo livello di lettura, e la storia di una psiche femminile ad un secondo livello. Catherine muore esattamente a metà del libro, e viene sotituita da sua figlia, che si chiama come lei, anche se il suo nome viene abbreviato Cathy per distinguerla dalla madre. Cathy è figlia della morte di sua madre, perché nasce nella notte in cui Catherine muore, ma anche perché ne raccoglie l’eredità, opera trasformazioni che sua madre non è riuscita a compiere. Insomma, Catherine/Cathy sono una sola donna, e Cime Tempestose è la storia del suo lacerarsi e ricomporsi con una parte di sé, Heathcliff/il figlio ideale di Heathcliff, in un equilibrio che passa attraverso la morte e la rinascita e che non è mai definitivo, ma sempre dinamico: un cammino di saggezza che si snoda al limitare di una zona di perenne tempesta iniziatica si sopravvive, non è che una tappa del cammino.

In quanto alla vendetta di Heathcliff, che torna indietro per fare strage di tutti gli altri personaggi, in primo luogo la sua amata Catherine, c’è nel libro di Pinkola un altro spunto suggestivo, là dove parla della donna «fera», ovvero della donna che ha rinunciato alla sua natura selvaggia, si è lasciata «catturare», ma sente il potente richiamo della libertà che ha perduto. È una «fera», ovvero una fiera in gabbia, una tigre prigioniera, impotente eppure pericolosissima, pronta a distruggere e autodistruggersi nel tentativo – ingannevole – di recuperare la libertà. E Heathcliff accusa Catherine morente di essere l’assassina di se stessa; in quanto a lui, la sua azione distruttiva fra gli altri personaggi, dopo la morte di lei, è paragonabile ai danni che fanno il senso di colpa e i conflittiirrisolti nella psiche di una donna che ha commesso un grosso errore su se stessa.








Nessun commento:

Posta un commento