Wuthering
Heights
Virginia Woolf: “Il suo è
il più raro dei poteri. Potrebbe liberare la vita dagli eventi; con pochi
tocchi, tracciare lo spirito dietro un viso, così che non abbia più bisogno di
un corpo; parlando della brughiera può fare soffiare il vento e roboare un
tuono.”[1]
Charlotte Brontë : E’
“un’opera moorish: selvatica e nodosa come una radice d’erica”.
[1] Hers, then, is the rarest of all powers. She could free life from its dependence on facts; with a few touches indicate the spirit of a face so that it needs no body; by speaking of the moor make the wind blow and the thunder roar – Virginia Woolf, The Common Reader, Chapter 14th - Jane Eyre and Wuthering Heights -
La trama
L'impossibile e tormentato amore per Catherine ispira in Heathcliff un odio profondo verso tutti coloro che li hanno ostacolati ed il desiderio ardente di vendetta consuma la sua esistenza senza dargli un attimo di pace, fino al momento in cui il suo corpo riposerà in eterno affianco a lei. Trovate qui (o su molti altri siti) la trama nel dettaglio, se volete: Wikipedia.Catherine
«Sarebbe
degradante per me sposare Heathcliff; perciò non saprà mai quanto lo amo, e non
perché sia bello, Nelly, ma perché lui è me stessa più di quanto lo sia io. Di
qualunque cosa siano fatte le nostre anime, la mia e la sua sono uguali; e
quella di Linton è tanto diversa quanto un raggio di luna da un fulmine, o il
gelo dal fuoco.
[...] I miei grandi dolori in
questo mondo sono stati i dolori di Heathcliff, e li ho osservati e patiti
tutti quanti fin dal principio; il mio più grande pensiero nella vita è lui. Se
tutti quanti morissero, e non restasse che lui, io continuerei a esistere; e se
tutti gli altri restassero in vita, e lui venisse annientato, l'universo mi
diventerebbe completamente estraneo: non me ne sentirei più parte.
[...] Il mio amore per Heathcliff
somiglia alle rocce eterne sotto terra: ne viene poco piacere visibile, ma è
necessario. Nelly, io sono
Heathcliff! Lui è sempre, sempre nei miei pensieri: non è un piacere, come io
non sono sempre un piacere per me stessa, ma è il mio stesso essere. »
«Non ti auguro tormenti più
grandi dei miei Heathcliff. Voglio soltanto che non ci separiamo mai; e se una
mia parola ti facesse soffrire d’ora in poi, pensa che io sottoterra provo lo
stesso dolore; e, ti prego, amore mio, perdonami! Vieni qui e inginocchiati
ancora! Non mi hai fatto del male in tutta la tua vita. No, se rimani in
collera con me, per te sarà un ricordo peggiore delle mie parole più dure!
[...] Sono stanca, stanca di
stare rinchiusa qui. Non vedo l’ora di fuggire in un mondo più bello e restarci
per sempre, senza più intravvederlo al di là di un velo di lacrime e, da dietro
le mura del mio cuore dolorante, desiderarloda morire; voglio essere davvero in
quel mondo, esserne parte.»
Heathcliff
«Il mio futuro sarebbe contenuto
in due parole: morte e inferno: se perdessi lei, l’esistenza sarebbe un
inferno. Ma sono stato uno stupido a pensare per un solo momento che l’amore di
Edgar Linton per lei valesse più del mio. Se lui l’amasse con tutte le forze
della sua meschina persona, non potrebbe amarla in ottant’anni quanto la amo io
in un giorno.»
«Io amo chi mi ha ucciso, ma come
posso amare chi ha assassinato te?»
«Catherine Earnshaw, che tu non
possa riposare in pace finché io vivo! Hai detto che ti avevo uccisa; e allora
vieni a tormentarmi! Le vittime lo devono
fare, con i loro assassini! Io credo... io so che di spiriti vaganti sulla
terra ce ne sono stati! Resta con me, per sempre; prendi qualunque forma; fammi
impazzire! Ma non lasciami in questo abisso dove non posso trovarti! Oh Dio, è
orribile! Non posso vivere senza la
mia vita! Non posso vivere senza la
mia anima!»
«Che misero finale, non ti
sembra? Che conclusione assurda, per tutta la violenza dei miei sforzi. Mi
procuro leve e picconi per demolire entrambe le case, mi alleno ad affrontare
le fatiche di Ercole e, quando è tutto pronto e in mio potere, scopro di non
aver più voglia di sollevare nemmeno una tegola da nessuno dei due tetti!. I
miei nemici di un tempo non mi hanno sconfitto: ora sarebbe il momento giusto
per vendicarmi sui loro discendenti; potrei farlo, e nessuno potrebbe
impedirmelo. Ma a che servirebbe? Non ho più il desiderio di colpire, non vale
la pena di alzare la mano! Sembra proprio che io abbia fatto tanta fatica per
tutto questo tempo, solo per fare poi un bel gesto di magnanimità. Ma non è
affatto così. E’ che ho perso la capacità di godere della loro distruzione, e
sono troppo pigro per distruggere senza motivo.
[...] Non posso guardare questo pavimento
senza vedere i suoi lineamenti prendere forma nelle lastre! In ogni nuvola, in
ogni albero vedo la sua immagine, l’aria della notte ne è satura, di giorno la scorgo
ogni oggetto, ne sono circondato! Le facce più comuni di uomini e donne, la mia
stessa faccia, mi deridono con illusorie somiglianze. Il mondo intero non è
altro che una terribile collezione di ricordi del fatto che lei è esistita, e
che io l’ho perduta.
[...] La mia vita quotidiana mi
interessa così poco, che quasi non mi ricordo di mangiare e di bere. [...] Devo
ricordare a me stesso di respirare, devo quasi ricordare al mio cuore di
battere! [...] Ho un solo desiderio, e tutto il mio essere e le mie facoltà
sono tese verso la sua realizzazione.
Epilogo
Il signor Heathcliff era lì, disteso supino. I suoi occhi incontrarono
i miei con uno sguardo così feroce e penetrante, che trasalii; e poi sembrò
sorridere.
Non potevo credere che fosse
morto. Ma aveva il volto e il collo bagnato di pioggia e le lenzuola erano
fradice, e lui era perfettamente immobile. La finestra, sbattendo avanti e
indietro, gli avevano graffiato la mano che stava appoggiata al davanzale:
dalla pelle escoriata non gocciolava sangue e, quando la toccai con il dito,
non ebbi più dubbi: era morto e già rigido!
La gente di qui, se glielo
chiedeste, giurerebbe sulla Bibbia che lui se ne va in giro. Alcuni dicono di
averlo incontrato vicino alla chiesa, o nella brughiera, o perfino dentro
questa casa. Stupide storie, dirà lei, e lo dico anch’io. Eppure quel vecchio accanto
al fuoco in cucina sostiene di averne visti due affacciati alla finestra della
sua camera, ogni notte di pioggia da quando è morto lui.
Indugiai attorno alle tombe, sotto quel cielo benevolo;
guardai le farfalle notturne volteggiare fra l’erica e le campanule, ascoltai
il respiro leggero del vento fra l’erba, e mi chiesi chi avrebbe mai potuto
immaginare sonni inquieti per coloro che dormivano in quella terra quieta.
Estratto da “Perchè gli uomini non leggono Cime Tempestose”
Cime Tempestose di Emily Brontë è un romanzo d’amore: è innegabile.
Ma è duro come uno schiaffo e tagliente come un coltello. Come l’ha definito
Charlotte Brontë (sorella di Emily e autrice di Jane Eyre) è “un’opera moorish:
selvatica e nodosa come una radice d’erica”. E potente. (sempre Charlotte:
“L’artista trovò un blocco di granito su una brughiera solitaria: guardando
s’avvide che da quella scheggia di roccia si poteva ricavare una testa,
selvaggia, scura, sinistra, una forma con almeno un elemento di grandezza: la
potenza”).
[...] Nessuna donna, almeno per
un attimo, non è stata soggiogata da Heathcliff o non ha desiderato essere
amata con quella forza assoluta, inestinguibile, implacabile che anima il
protagonista maschile del romanzo. Contro la sua volontà. Catherine è la sua
dannazione. Il suo amore, questa furia indomita, è una pulsione di morte (e
Freud, ripercorrendo il topos di Eros e Tanatos, non diceva che la libido nel
profondo è un istinto di morte e di annullamento?). Catherine vive lo stesso
tormento. La ricerca del compimento di questo amore, che non avviene e non può
avvenire, costituisce la trama e lo scheletro del libro.
È dunque una storia di assoluto,
come dice ancora la Woolf “di una forza insita nell’umana natura, che la
innalza in presenza di ciò che è grande, a conferire al libro una statura
straordinaria in mezzo agli altri romanzi”.
Estratto da “The CommonReader, Chapter 14th – Jane Eyre and Wuthering Heights”
Virginia Woolf
Wuthering Heights is a more difficult book to
understand than Jane Eyre, because Emily was a greater poet than Charlotte.
When Charlotte wrote she said with eloquence and splendour and passion “I
love”, “I hate”, “I suffer”. Her experience, though more intense, is on a level
with our own. But there is no “I” in Wuthering Heights. There are no
governesses. There are no employers.
There is love, but it is not the love of men and women. Emily was inspired
by some more general conception. The impulse which urged her to create was not
her own suffering or her own injuries. She looked out upon a world cleft into
gigantic disorder and felt within her the power to unite it in a book. That gigantic ambition is to be felt throughout the novel — a struggle,
half thwarted but of superb conviction, to say something through the mouths of
her characters which is not merely “I love” or “I hate”, but “we, the whole
human race” and “you, the eternal powers...” the sentence remains unfinished.
It is not strange that it should be so; rather it is astonishing that she can
make us feel what she had it in her to say at all. It surges up in the
half-articulate words of Catherine Earnshaw, “If all else
perished and HE remained, I should still continue to be; and if all else
remained and he were annihilated, the universe would turn to a mighty stranger;
I should not seem part of it”. It breaks out again in the presence
of the dead. “I see a repose that neither
earth nor hell can break, and I feel an assurance of the endless and shadowless
hereafter — the eternity they have entered — where life is boundless in its
duration, and love in its sympathy and joy in its fulness.”
It is this suggestion of power
underlying the apparitions of human nature and lifting them up into the
presence of greatness that gives the book its huge stature among other novels.
But it was not enough for Emily Brontë to write a few lyrics, to utter a cry,
to express a creed. In her poems she did this once and for all, and her poems
will perhaps outlast her novel. But she was novelist as well as poet. She must
take upon herself a more laborious and a more ungrateful task. She must face the fact of other existences,
grapple with the mechanism of external things, build up, in recognisable shape,
farms and houses and report the speeches of men and women who existed
independently of herself. And so we reach these summits of emotion not by rant
or rhapsody but by hearing a girl sing old songs to herself as she rocks in the
branches of a tree; by watching the moor sheep crop the turf; by listening to
the soft wind breathing through the grass. The life at the farm with all
its absurdities and its improbability is laid open to us. We are given every
opportunity of comparing Wuthering
Heights with a real farm and Heathcliff with a real man. How, we are
allowed to ask, can there be truth or insight or the finer shades of emotion in
men and women who so little resemble what we have seen ourselves? But even as
we ask it we see in Heathcliff the brother that a sister of genius might have
seen; he is impossible we say, but nevertheless no boy in literature has a more
vivid existence than his. So it is with the two Catherines; never could women
feel as they do or act in their manner, we say.
All the same, they are the most lovable women in English fiction. It is as if she could tear up all that we know human beings by, and fill these unrecognisable transparences with such a gust of life that they transcend reality. Hers, then, is the rarest of all powers. She could free life from its dependence on facts; with a few touches indicate the spirit of a face so that it needs no body; by speaking of the moor make the wind blow and the thunder roar.
Estratto da “Ovvero delle Cime Tempestose”
Margherita Giacobino
«Un classico è un’opera che si può continuare a leggere in modi
diversi, in ambiti ed epoche diverse». Cime tempestose è quindi senza dubbio un
classico: il mistero che ne costituisce il nucleo – o i misteri: perché in quella
simmetria labirintica che è la sua struttura possiamo individuarne più d’uno – non
solo non è stato svelato, cosa impossibile per un’opera letteraria, ma continua
ad interessarci. A suggerirci domande e risposte precise o elusive, ad
abbagliarci con chiarezze vitali o ad attrarci con altrettanto vitali oscurità.
Credo che la domanda fondamentale sia quella che sorge attorno
all’affermazione di Catherine: «Io sono Heathcliff!» e che la scena in cui
viene pronunciata questa battuta, il dialogo fra Catherine e Nelly, in cui la
ragazza annuncia la sua decisione di sposare Linton e il suo amore per
Heatcliff, possa considerarsi il perno ideale del romanzo. [...]
Quella che Gilbert definisce «la
caduta dall’inferno al paradiso» si compie con la decisione di Catherine di
sposare Linton, e rinunciare così ad Heathcliff. In termini non molto dissimili
da quelli usati da Bataille, Gilbert vede nella casa natale di Catherine,
Wuthering Heights, un «inferno» caro alla psiche femminile non addomesticata,
ovvero un luogo non gerarchico, dove regna il caos e non l’ordine, i rapporti
fra padroni e servi sono ambigui, e nulla è quello che sembra. Simbolicamente,
è l’infanzia, il luogo della libertà possibile, della fantasia, della lotta per
la vita. La Grange, invece, è il «paradiso» in termini borghesi: gerarchico,
ordinato, civilizzato, i suoi abitanti non devono lottare per affermarsi, ma
solo obbedire alle leggi che li reggono, alle parole che li definiscono. Nel
«paradiso» della Grange, Catherine è condannata a morte. Ciò a cui rinuncia
dunque è a se stessa, la parte più vitale di sé, quella che Gilbert definisce
la sua androginia. Heathcliff, infatti, è l’altra metà di Catherine, la parte
maschile del suo io preadolescente.
Ma dalla considerazione di Cime
Tempestose come racconto-mito nasce il desiderio di un’interpretazione
ancora più estensiva, e a fornircene i criteri è Clarissa Pinkola Estés con il
suo Donne che corrono con i lupi, un’analisi di fiabe, miti e racconti popolari
alla ricerca dell’archetipo della «donna selvaggia». La vicenda di Catherine costituisce
infatti un folgorante esempio di quello che Pinkola definisce il «baratto alla cieca».
Pinkola, che segue la metodologia in uso nella psicologia archetipa,
nella sua analisi di una storia considera tutti i personaggi che vi compaiono
come aspetti della psiche di una singola donna. Ecco la definizione che dà del
«baratto»: «Quale baratto maldestro fanno le donne? [...] Una risposta è
costante: accettiamo il baratto meno conveniente quando cediamo la nostra vita
sapiente profonda in cambio di una molto più fragile, quanto rinunciamo ai
denti, agli artigli, al nostro senso, al nostro dorato; quando abbandoniamo la
nostra natura più selvaggia per una promessa che pare ricca e si rivela vuota».
Catherine «baratta» Heathcliff, ovvero la sua natura selvaggia, in
cambio della ricchezza, del prestigio e della rispettabilità sociale che Linton
le offre. Ma non fa i conti con la realtà, s’inganna, pensando di poter pagare
il prezzo richiesto senza eccessivo sacrificio, di potere, addirittura,
continuare ad amare Heathcliff senza incorrere nella condanna sociale e
destreggiarsi fra i due uomini senza mettere gravemente in pericolo la propria
identità personale.
Il «baratto» come ce lo presenta Pinkola, è possibile proprio a causa
dell’inesperienza della giovane donna, «tradita» dai genitori, che non sanno
consigliarla. Il padre, ovvero quella funzione della psiche femminile che deve
tutelare la donna nei suoi rapporti con l’esterno, e la madre, cioè la donna
saggia che è dentro ciascuna di noi, «tradiscono» Catherine, vale a dire queste
istanze non sono ancora così forti dentro di lei da darle buoni consigli:
Catherine deve crescere, affrontare l’iniziazione e la morte per conquistarsi
una sua saggezza, una conoscenza del mondo e di sé.
Nelly, la figura materna di Cime Tempestose, sa bene che Catherine
sbaglia, ma non riesce a comunicarglielo, e ad un certo punto si tira indietro,
non vuole saperne di più, non vuole sentire nulla che possa sembrarle il
presagio di una catastrofe. Nelly è una cattiva madre per Catherine, come noi
spesso siamo cattive madri per noi stesse: non ci amiamo abbastanza per
salvarci dalla sofferenza. Un matrimonio sbagliato, per una donna, è sempre una
catastrofe, perché fa danni su due livelli, reale e simbolico: un marito
inadatto non è soltanto un baratto in perdita, un cattivo affare che lascia la
donna impoverita o truffata ma sostanzialmente se stessa: è perdita di una
parte di sé, rischio mortale. Perché sappiamo bene che sopravvivere integro
alla sconfitta o alla perdita è privilegio maschile; la donna, che quando investe
le sue sostanze, il suo tempo, il suo lavoro, investe sempre anche se stessa,
corpo e psiche, va invece incontro alla mutilazione o morte simbolica.
Quindi, una storia d’amore ad un primo livello di lettura, e la storia
di una psiche femminile ad un secondo livello. Catherine muore esattamente a
metà del libro, e viene sotituita da sua figlia, che si chiama come lei, anche
se il suo nome viene abbreviato Cathy per distinguerla dalla madre. Cathy è
figlia della morte di sua madre, perché nasce nella notte in cui Catherine
muore, ma anche perché ne raccoglie l’eredità, opera trasformazioni che sua
madre non è riuscita a compiere. Insomma, Catherine/Cathy sono una sola donna,
e Cime Tempestose è la storia del suo
lacerarsi e ricomporsi con una parte di sé, Heathcliff/il figlio ideale di
Heathcliff, in un equilibrio che passa attraverso la morte e la rinascita e che
non è mai definitivo, ma sempre dinamico: un cammino di saggezza che si snoda
al limitare di una zona di perenne tempesta iniziatica si sopravvive, non è che
una tappa del cammino.
In quanto alla vendetta di
Heathcliff, che torna indietro per fare strage di tutti gli altri
personaggi, in primo luogo la sua amata Catherine, c’è nel libro di Pinkola un
altro spunto suggestivo, là dove parla della donna «fera», ovvero della donna
che ha rinunciato alla sua natura selvaggia, si è lasciata «catturare», ma
sente il potente richiamo della libertà che ha perduto. È una «fera», ovvero
una fiera in gabbia, una tigre prigioniera, impotente eppure pericolosissima,
pronta a distruggere e autodistruggersi nel tentativo – ingannevole – di
recuperare la libertà. E Heathcliff accusa Catherine morente di essere
l’assassina di se stessa; in quanto a lui, la sua azione distruttiva fra gli
altri personaggi, dopo la morte di lei, è paragonabile ai danni che fanno il senso
di colpa e i conflittiirrisolti nella psiche di una donna che ha commesso un
grosso errore su se stessa.
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