Del mio vecchio paese resta
soltanto un buon odore di pietra morta e muschio. E basta.
Era la sera del 9 ottobre 1963, le 22:39, quando il
monte Toc franò in un lago artificiale, provocando una ondata che seminò morte
e desolazione ed un bilancio delle vittime che si attesta, nella versione più
attendibile, a 1910. Da allora, quella tragedia è ricordata come “Il Vajont”, il «rasoio del Vajont» la definisce Mauro
Corona, dal nome di un piccolo torrente che scorre nella valle di Erto e Casso,
davanti a Longarone e Castellavazzo, in provincia di Belluno.
Dal processo
che seguì l’inchiesta giudiziaria emersero responsabilità penali a fronte di
tre errori umani: la costruzione della diga in una valle non idonea dal punto
di vista geologico, l’innalzamento del livello del lago artificiale oltre i
margini di sicurezza e il mancato allarme per l’evacuazione in massa delle
popolazioni residenti nelle zone a rischio di inondazione.[1]
Ora quei paesi sono stati ricostruiti, ma ciò che è
andato perso non è recuperabile se non nella memoria di chi aveva vissuto lì la
propria vita: i personaggi caratteristici, le leggende, le abitudini. In “I Fantasmi
di pietra” Mauro Corona ce li riporta uno ad uno alla memoria, durante una
passeggiata lungo il paese di Erto, attraverso quattro strade da “percorrere in
peregrinaggio nelle quattro stagioni” . Nel suo vagare, casa per casa, affiorano
i «sentimenti incollati ai muri» ed i piccoli episodi della vita che “era”, e
che non potrà mai più essere.
I Fantasmi di pietra.
Eravamo
tremila. Siamo rimasti trecento.
Tutto cominciò quella notte. Per noi, la data che
cambiò la vita è quella del 9 ottobre 1963. E sarà così in eterno. Allo stesso
modo che, per collocare un evento in un tempo determinato, si dice prima della
guerra, dopo la guerra, prima del terremoto, dopo il terremoto, noi diciamo
prima del Vajont e dopo il Vajont. Su quella data sta il confine, la frattura,
il cambiamento che ha separato due mondi, due modi di vivere completamente
diversi. Arcaico, laborioso, scandito da ritmi naturali il primo; caotico,
confuso, smarrito il secondo. Erto oramai è solo un villaggio abbandonato,
silenzioso e triste, dove i giorni non
lasciano tracce. Adagiato in una scodella di terra, circondato da boschi
impenetrabili, tagliati a fondovalle dal corso del Vajont, attende il colpo di
grazia. Limato dal vento, scosso dalle intemperie, spolpato dai predatori come
un cervo dai denti delle volpi, il paese sta disteso gambe all’aria senza più
fiato. Le case alte e strette, costole di antico dinosauro sbiancate dalla
calce, guardano il cielo. La chiesa millenaria è spoglia, la canonica vuota,
fatiscente, senza vetri, gli occhi beccati dai corvi.
Camminando per il paese si ha la l’impressione che la
vita non tornerà più in quelle vie. E’ fuggita per sempre, lontano in America,
per non vedere, non ricordare. Le case, le stalle, i fienili, gli orti: è come
se tutto avesse perso il calore, come se tutto fosse diventato di ghiaccio,
indifferente, muto, senza voglia di ridere né di piangere.
Il Vajont è stato anche questo: abbandonare tutto,
chiudere le porte, andare via. La vita costretta a spostarsi altrove. Quella
ormai lontana tragedia è stata un colpo di scure alla nostra civiltà. Ha
decapitato la vita. Usi, costumi, tradizioni, cultura, unità, amicizie, lavoro,
modo di vivere sono scomparsi. Il Vajont ha spopolato il paese, diviso le
persone, creato faide, diaspore, solitudini, silenzio, abbandono. Il Vero
Vajont è stato dopo.
In quella desolazione, in quel silenzio abbandonato,
la tristezza stringe il cuore al passante. [...] Le case abbandonate sono come
gli uomini. Alcuni tengono duro, altri crollano. Dolore e solitudine fanno
cadere uomini e muri. [...] Raccontano storie, le vecchie case. Se il viandante
ha la pazienza di fermarsi un istante, potrà sentire storie a ogni passo. Storie
di fatica, dolore, morte. Alcune anche liete, ma sono rare. Storie di un
microcosmo scomparso. Storie nostre, uguali a quelle del mondo dove, nonostante
tutto, la speranza continua a cantare come il cuculo a primavera.
Inverno
Inizia dalla parte a valle del villaggio. La via bassa
guarda il Vajont che ha ripreso la sua antica voce...
Il primo ricordo è il tempo degli inverni, la memoria
è quella della neve. Notti infinite, silenzi laboriosi, lunghi, pazienti,
interrotti solo ogni tanto da sprazzi di allegria nelle feste di Natale e
Capodanno. Porte di stalle s’aprivano per cambiare l’aria, il fiato delle
bestie usciva nel gelo, condensava in nuvole azzurre che si alzavano lentamente
mescolandosi più in alto al fumo dei camini. Odore di legna spaccata, l’aspro
aroma del carpino nero, albero nodoso, cocciuto, che non lascia braci, quello
di pane cotto del faggio accatastato a solivo, o la mandorla del ciliegio,
disposti in tronchi da metro, con la faccia rivolta a ponente per stagionare
meglio. I legni, per diventare buoni, dovevano guardare il tramonto, «verso
dove finisce la strada» diceva mio nonno. Solo così risultavano migliori, meno
tenaci, meno aggressivi. La consapevolezza della fine toglieva loro irruenza e
resistenza. Anche l’uomo se pensa al tramonto diventa migliore.
Sotto il ghiaccio trasparente della via appaiono le
pietre dell’acciottolato, un mosaico regolare, unito, solido, che resiste
all’aggressione del tempo proprio perchè ha la forza di restare unito. Non
tutte quelle pietre vanno d’accordo tra loro, ma per il bene della strada
restano unite. Gli abitanti del vecchio paese non hanno avuto questa tenacia.
E’ il
cuore ghiacciato della vecchia Erto, il cuore indurito di tutti noi che
l’abbiamo abbandonata.
Il viaggio d’inverno lungo la via san Rocco termina
qui.
Primavera
Maggio è arrivato, i cuculi cantano, due o tre campi
superstiti sono vangati, la terra ha ricevuto sementi, il sole le scalda, è
tempo di riprendere il viaggio lungo le vie del paese abbandonato. Si va per la
via Centrale, partendo da occidente, dove dorme il sole.
E’ primavera. I due tassi secolari che vigilano
l’entrata del camposanto si portano la fioritura addosso. Hanno udito gente
piangere e accompagnato quelli che tacevano per sempre. Hanno visto morti varcare
la soglia, e vivi che vanno a trovare coloro che non ci sono più. Una visita
ogni tanto, lungo le stagioni, anno dopo anno. Alla fine anche quelli che
visitavano i morti varcheranno la soglia per l’ultima volta. E qualcuno li
andrà a trovare finchè non verrà il suo turno. Il cancello di Mano del Conte vi
aspetta tutti.
La primavera brilla sui muri corrosi delle case, il
sole incendia tegole sconnesse, illumina squarci nei tetti, va a fondo, esplora
stanze vuote. L’orologio del campanile batte le ore, unico segno di vita del
villaggio abbandonato.
Estate
Un po’ di nostalgia accompagna il termine del viaggio
lungo la via Centrale, e con esso la fine della primavera. Percorro la curva
della Fratta, mi porto all’inizio della terza via, la Soprafuoco. E’ già
estate.
Un tempo l’effluvio di letame si mescolava a quello
dei trucioli di larice e pino cembro, correvano assieme lungo la via a visitare
la gente. Nessuno si lamentava per l’odore di letame.
D’estate fioriva una vite che fasciava la parete
meridionale dell’osteria. Al tempo giusto, offriva uva nera a grani piccoli
piuttosto aspri.
Autunno
E’ il tempo di percorrere la quarta via, l’ultima,
quella superiore che guarda le altre dall’alto in basso come dalla torre una
regina i suoi sudditi.
Dalle montagne cala un vento malinconico. E' diverso
dalle allegre, improvvise raffiche d'aprile. Ha fiato largo, il vento
d'autunno. Respira, lento come il falciare di un vecchio contadino. Le foglie
hanno smesso la tuta verde da lavoro. Indossano abiti da festa. Ognuna ha gusti
personali, così si vedono tanti colori. Sotto i colpi del vento, i larici
spandono manciate di aghi, come contadini che seminano. Cadono sulla terra con
crepitio di grandine leggera. I pini tremano, ma non mollano foglia. Gli aghi
si strusciano gli uni sugli altri con canto di cicala. Vasti boschi di faggio
sfrascano, ondeggiano, fanno le fusa come i gatti sempre più piano, finchè
lasciano l'ultima foglia. Dopo zittiscono, dormono.
Le prime faville di neve danzavano nell’aria senza
posarsi a terra. Con leggeri buffetti, il vento le teneva in alto come per
farle arrabbiare.
Il sole d’autunno è basso, debole come un amore che
sta per finire. Spinge in paese una luce d’oro. Sui prati incolti le case
gettano ombre lunghe, fantasmi incappucciati fissano le erbe secche. Il sole
radente s’infila nelle finestre vuote, riempie le stanze, le colma, le
trapassa, deborda, torna fuori come un bambino che gioca a guardie e ladri. Le
case paiono illuminate da lampadine, sembrano abitate come un tempo.
Ormai è l’autunno, tutto torna a dormire, tutto
scompare nella pace dell’inverno imminente. Anche i rumori vanno in letargo
come ghiri nelle tane. Le case tacciono, ascoltano, sentono la neve depositarsi
sui tetti, Quelle senza tetto la ricevono dentro i muri, sui solai, sulle
cucine distrutte. La visita della dama bianca entra nel vuore delle case
sgangherate. Il paese abbandonato guarda a tramonto con gli occhi malinconici
delle finestre senza vetri, sospira adagio con la bocca delle porte sfondate.
Era un bel paese, il nostro, adesso non c’è più.
La speranza
Cammino nel silenzio, sento i miei passi cadere
sull’acciottolato come colpi di martello. Lungo queste vie batte fievole il
cuore della vecchia Erto. Tutto porta malinconia e tristezza. Vi sanno paesi
che sanno di disgrazia, qui è capitata. Un tempo non era così, si viveva, c’era
allegria, i bambini gridavano, giocavano, si rincorrevano nel cielo della sera.
Spero che qualcuno intervenga a salvare questo antico paese. Potrebbe farlo lo
Stato, mettere a posto le vie, ristrutturare tutte le case e poi darlo agli
studenti. Creare una grande università. Ospitare facoltà di geologia (abbiamo
la frana più famosa del mondo), scienze forestali, scienze naturali, botanica.
Non mancano boschi, né pascoli, né torrenti e nemmeno rocce, montagne e fiori.
Una volta sistemato il paese, affittarlo agli studenti, a prezzo modico. Nel
giro di cent’anni lo Stato recupererebbe la somma investita. Potrebbe essere un’idea,
una delle tante. E non saranno cent’anni di solitudine perchè tornerà gente,
bambini grideranno ancora, i camini fumeranno, perchè qualcuno accenderà il
fuoco. Può venire chiunque qui da noi, non solo studenti. Possono venire
impiegati a fare le ferie, artisti, poeti, scrittori, gente comune. Allora sì
che il paese riprenderebbe a vivere. Quassù si sta bene, c’è aria buona, alla
sera aquile e poiane girano sopra il paese, a farsi scaldare le ali dall’ultimo
sole. Dove stanno i rapaci c’è aria pura, non inquinata, altrimenti le aquile
vanno via, non sopportano cattivi odori. Soprattutto, quassù non nevica ancora
firmato.
La mia gente se n’è andata a popolare alveari anonimi,
sorti in luoghi sconosciuti, senza identità, senza storia, senza radici. Ma col
tempo, forse cento, duecento anni, si faranno una loro storia, metteranno
radici, creeranno una loro cultura. Ma i miei compaesani resteranno sempre
ertani e se vorranno tornare qui c’è posto, è sempre casa loro.
Dico: «Torneremo, è solo questione di tempo. Torneremo
ad abitare gli antichi luoghi silenti, e tenderemo l’orecchio per ascoltare i
vecchi passi.»
Vorrei che la vita rifiorisse in questo paese di
fantasmi. Se noi saremo morti, il che è molto probabile, altri vivranno le
quattro stagioni, sentiranno e vedranno quello che abbiamo sentito e visto noi.
Le primavere dei disgeli, i canti di galli forcelli, le estati senza tempo, i
favolosi inverni che chiudono il paese nel pugno di ferro, gli autunni coi
boschi arrugginiti, le foglie multicolori che danzano nell’aria, i venti
giovani, taglienti come lame di rasoio, che tirano giù dalle vette le
avvisaglie dell’inverno.
Hugo von Hofmannsthal, Vienna 1874: «Amo immensamente
questa terra e più passano gli anni più essa mi sembra ricca. Quando sarò
vecchio, dai suoi boschi e dai suoi torrenti mi verranno incontro i ricordi
dell’infanzia, e il cerchio si chiuderà.»
http://www.vajont.net/
La frana
Le dimensioni del corpo franoso erano enormi: due chilometri quadrati
di superficie e circa 260 milioni di metri cubi di volume roccioso. Questa
massa, da molto tempo instabile, precipitò nel sottostante bacino idroelettrico
del Vajont ad una velocità stimata attorno ai 20-25 m/sec.
Il fronte compatto già era lambito dalle acque del lago ed aveva
una lunghezza di 2000 metri, con un'altezza media di oltre 150 metri.
Il tremendo impatto con la sponda opposta portò la frana a risalire anche per più di centosessanta metri, sbarrando la valle e modificandola in maniera definitiva. Probabilmente le scaglie e i detriti generati della massa in movimento furono trascinate in avanti riempiendo la gola del Vajont, costituendo quindi uno strato plastico che ha agevolato l'appoggio e lo scorrimento della frana stessa.
Questo improvviso accrescimento del corpo franoso entro il
bacino della diga permise la formazione dell'onda e determinò le
caratteristiche dinamiche della stessa.
L’onda
L'onda arriva a Casso (foto Zafron) |
Circa la metà del volume d'acqua si riversò dunque nel Longaronese, percorrendo in pochi minuti quasi due chilometri. Il suo fronte, in corrispondenza della diga, era di circa 150 metri, mentre allo sbocco sul Piave era di 70 metri. Dalla diga allo sbocco della valle del Vajont il fronte dell'onda di piena impiegò 4 minuti per percorrere 1600 metri.
Poche case resistono... (foto Zafron) |
Nella piana del Piave l'acqua, non trovando ostacoli naturali, si appiattì
e dopo aver investito Longarone e i centri limitrofi, rifluì verso sud, lungo
il corso del fiume, generando un'enorme onda di piena. Dallo sbocco della valle
del Vajont al ponte di Soverzene sul Piave questa percorse 7500 metri in 21
minuti, con una velocità media di propagazione di circa 6 m/sec.
A Belluno, venti chilometri più a sud, la portata era ancora valutabile attorno ai 5000 metri cubi/sec e l'altezza dell'acqua era di circa 12 metri.
La sua velocità di propagazione, nel tratto Belluno-Nervesa (quest'ultimo centro situato a circa 60 chilometri da Longarone) era dimezzato rispetto al tratto Soverzene-Belluno, con valori corrispondenti ad una normale onda di piena (2-2.5 m/sec).
Solo in corrispondenza della foce del Piave, sul mare Adriatico, le acque tornarono quiete.
La valle di Longarone, a causa delle interruzioni stradali e ferroviarie fu
completamente isolata dal resto del paese. Anche le telecomunicazioni (telefono
e telegrafo) furono troncate.
La linea ferroviaria della ferrovia Padova-Belluno-Calalzo, per un tratto di circa 2 chilometri, venne divelta e con essa la stazione con i suoi impianti e edifici. Un tratto della statale n°51 di Alemagna che attraversava il centro di Longarone fu asportata per una complessiva lunghezza di circa 4 chilometri.
Diga: il giorno dopo
Il capoluogo di Longarone, con le località di Pirago e Rivalta, fu quasi
completamente distrutto.
La diga: il giorno dopo |
Furono risparmiate solo 22 case di Longarone (tra cui il palazzo comunale)
situate nella parte settentrionale del centro, sulle più elevate pendici del
versante destro della vallata e, miracolosamente, il campanile della chiesetta
di Pirago. Anche la frazione di Faè ed il nucleo di Villanova furono distrutte,
mentre il centro di Codissago restò gravemente danneggiato. I paesi di Dogna e
Provagna restarono senza collegamenti viari, per la scomparsa di strade e
ponti.
Come le case anche gli edifici industriali subirono la stessa sorte: gli stabilimenti situati tutti sulla parte bassa della vallata non esistevano più e vaste aree agricole furono definitivamente perse. I danni si estesero, seppur limitatamente, ad altri comuni disposti lungo il corso del Piave. La spinta dell'acqua trascinò sino al paese di Termine di Cadore, situato 4 chilometri più a nord di Longarone, grosse piante e qualche salma.
Anche nella valle del Vajont le distruzioni materiali furono ingenti. Cinque frazioni scomparvero quasi totalmente: S. Martino, Frasèin, Col delle Spesse, Patata e il Cristo. Profondamente colpita fu anche la località di Pineda, mentre solo marginalmente lo fu il centro di Casso. Erto fortunatamente rimase indenne, in quanto l'onda fu interrotta da un frangiflutti naturale, lo sperone del Fortezza, che crea una gobba nel bacino.
Spingendosi fino contro Certen l'onda investì quindi Pineda, rimbalzando
poi su S. Martino, sull'altro versante. L'effetto del risucchio dell'onda non
fu meno distruttivo del suo impatto frontale. La massa d'urto dell'acqua giunse
fino al collo terminale del bacino, verso Cimolais, raggiungendo per inerzia la
località di Teign, distruggendo il ponte di Therentòn che collegava i due
versanti. Ma la violenza maggiore fu sprigionata in località Spesse, dove una
quindicina di case vennero rase al suolo con la morte di un'ottantina di persone.
Si salvarono solo due case, le più alte. A Pineda una quindicina di case e
quaranta persone furono spazzate via in un secondo: una porzione di terra da
sempre generosa per i frutti che sapeva dare appariva come una landa
desolatamente vuota.
La strada che portava da Pineda alla diga del Vajont sparì a metà costone
del Toc.
Anche il paese di Casso, situato 300 metri più in alto della diga, subì alcuni danni: le case più basse furono invase dalle acque ma resistettero. Una donna fu invece ritrovata a metà costone.
Così scrisse Giorgio Valussi nel libro La frana del Vajont e le sue conseguenze geografiche: "L'agricoltura ha perduto tutta l'area pastorale del M. Toc che era indispensabile, come si è visto, all'economia agraria di Casso, buona parte dei seminativi di Casso, che si sviluppavano a terrazzi sotto l'abitato, e parte dei seminativi di Erto e S. Martino: la superficie dei seminativi, già diminuita dell'invaso, è stata così ridotta a meno di un terzo e quella dei prati ha subito quasi un dimezzamento, mentre le già scarse risorse forestali sono state depauperate del bosco di Ortighe.
Il patrimonio zootecnico ha perduto il 30% dei capi e le migliori
disponibilità foraggiere. La devastazione delle strade ha isolato il centro di
Casso, ormai raggiungibile solo attraverso impervie mulattiere o
dall'elicottero, ed ha interrotto ogni comunicazione con la valle del Piave,
essendo il loro ripristino subordinato, tra l'altro, alla ricostruzione
dell'ardito ponte sul Vajont. In seguito alla paralisi delle comunicazioni
anche la cava di marmo del M. Buscada ha dovuto sospendere ogni attività. Fra i
danni irreparabili della sciagura vi è la distruzione dell'antica chiesa di S.
Martino e delle vecchie case di quel villaggio, che costituivano un raro
patrimonio architettonico".
La morfologia
Effetti |
Gli effetti morfologici creati dall'onda furono impressionanti. L'acqua,
alla pari di un potente abrasivo, asportò la vegetazione e parte delle
coperture moreniche e detritiche, mettendo a nudo la viva roccia sottostante.
Anche una buona parte del corpo franoso, investito dall'onda di ritorno, subì
questo processo di asportazione. Le opere umane furono completamente distrutte,
all'infuori della diga che perse la sua strada di coronamento: del cantiere non
restò più traccia.
L'erosione maggiore si ebbe proprio in corrispondenza della diga dove
vennero asportati grossi blocchi di roccia dalle strutture che sostenevano le
gallerie della statale che congiungeva Longarone alla Val Cellina.
Il bacino del Vajont restò diviso in tre parti: un lago di considerevoli
dimensioni a monte della frana, conosciuto oggi come "lago di Erto",
un lago più piccolo a valle dal lato della diga, ed un terzo che scomparve in
breve tempo, formatosi sul corpo stesso della frana, in corrispondenza del
torrente Messalezza.
Il lago di Erto ridusse la sua dimensione, ma il livello dell'acqua salì di
circa 12 metri, arrivando a quota 712, con un volume maggiore di circa 20
milioni di metri cubi.
Allo sbocco della gola del Vajont, sul versante sinistro del Piave, l'onda scavò una fossa talmente profonda (circa 45 metri) che, per più di un mese, fu occupata da un laghetto. Terreno e detriti furono completamente asportati anche sul versante destro, sebbene l'acqua avesse ridotto la sua spinta.
Danni morali
L'evento ha
sicuramente sconvolto la vita sociale quotidiana, non solo producendo morti e
distruzione tra le abitazioni e i beni della popolazione, ma disgregando la
struttura sociale della comunità stessa.
Il sistema
culturale, rafforzato in secoli di storia, è stato in pochi secondi cancellato,
inducendo nei superstiti elementi estranei alla loro personalità. Le funzioni
sociali sono state bruscamente interrotte e con esse il fluire stesso della
vita sociale. La drastica riduzione della capacità di riproduzione sociale,
attraverso la scomparsa delle esperienze associative o anche il loro semplice ridimensionamento,
ha comportato una mancanza di scopo e quindi è venuto a mancare il senso del
loro esistere.
Il
sentimento di appartenenza territoriale, fortunatamente, ha favorito il fatto
che l'area disastrata non venisse abbandonata del tutto, nonostante il degrado
demografico dovuto all'isolamento dei pochi sopravvissuti. La consistente
perdita delle reti di parentela e di vicinato e la stessa distruzione dei
nuclei familiari non era in grado di garantire quel benessere fisico,
psicologico, sociale e spirituale che un'organizzazione sociale avrebbe dovuto
sostenere.
La
distruzione dell'identità collettiva, legata anche al valore simbolico di
edifici privati e pubblici, come ad esempio la chiesa arcipretale, è passata
anche attraverso la scomparsa di eminenti educatori, quali sacerdoti,
religiose, professori e maestri.
Nel campo
economico la distruzione della professionalità e dell'imprenditorialità non è
passata solo attraverso la perdita delle aziende ma soprattutto per
l'inevitabile immediata dipendenza dall'esterno attraverso un pianificato
regime di sussistenza.
A livello
politico sono stati sconvolti i modelli di autorità e di rappresentanza
democratica. Con la perdita del sindaco e di molti consiglieri comunali il
potere politico non venne più esercitato dal basso, secondo uno schema di
autonomia amministrativa.
Le
principali decisioni vennero prese da gruppi esterni che introdussero azioni
politiche distanti dalla concezione dei sopravvissuti, provocandone un disagio
notevole.
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