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7 gen 2013

Una donna - Sibilla Aleramo


La rassegnazione non è una virtù!

SIBILLA ALERAMO
Il 14 agosto 1876 nasce ad Alessandria la scrittrice e poetessa italiana Rina Faccio, conosciuta con lo pseudonimo di Sibilla Aleramo. Si stabilisce con la famiglia a Civitanova Marche, dove con matrimonio riparatore, sposa a quindici anni un giovane del luogo. Nel 1901 abbandona marito e figli iniziando una nuova vita. Comincia a scrivere su Vita Moderna e su altre riviste per un pubblico di donne.
Una donna, il suo primo romanzo di stampo fortemente autobiografico viene pubblicato nel 1906. Collabora a riviste filosocialiste; si iscrive all'Unione Femminile Internazionale, operando in numerose iniziative di carattere assistenziale. Conclusa una relazione sentimentale con il poeta Damiani, si lega a G.Cena ma, dopo la crisi con quest'ultimo, inizia una vita errabonda che la avvicina a Milano e al movimento Futurista, a Parigi e ai poeti Apollinaire e Verhaeren, infine a Roma, dove conosce Grazia Deledda.
Durante la prima guerra mondiale incontra il poeta Dino Campana e con lui inizia una relazione complessa e tormentata. Negli anni '20 pubblica in Italia diverse raccolte di liriche, e aderisce al manifesto antifascista degli intellettuali promosso da Croce. Comincia a scrivere un diario che terrà fino alla morte. Al termine della seconda guerra mondiale si iscrive al PCI e si impegna intensamente in campo politico e sociale. Collabora, tra l'altro, all'"Unità" e alla rivista "Noi donne". Muore a Roma nel 1960, dopo una lunga malattia.

UNA DONNA
Romanzo di Sibilla Aleramo (pseud. di Rina Faccio, 1876-1960), pubblicato nel 1906.

Sotteso da una evidente filigrana autobiografica, il romanzo, il primo e più importante dell'A., è la sofferta testimonianza del ruolo cui è storicamente condannata la donna e del travaglio interiore vissuto per approdare al recupero della propria dignità sociale e culturale. Al di là della prosa così tipicamente e mollemente ottocentesca, il contenuto violentemente polemico mette in discussione tutte le strutture sociali, fondate unicamente sull'ipocrisia, di una cittadina dell'Italia meridionale, scossa dall'evidenziarsi di nuovi programmi civili e politici, che diventa, ben presto, il microcosmo simbolico dell'intera società.

La protagonista, quasi fatalmente condannata a ripercorrere la parabola già vissuta dalla madre, impazzita, dopo un tentato suicidio, per l'impossibilità di sopportare le vessazioni e i tradimenti cui la sottopone il marito, il destino, cioè, che concatena i ruoli di figlia, moglie sottomessa e madre sacrificata, giunge attraverso un travagliato contatto con il mondo culturalmente attivo di Roma, alla propria sofferta liberazione. Trasferitasi bambina con la famiglia nel meridione, dopo aver dovuto interrompere gli studi, diventa la segretaria del padre nella fabbrica di questi e vive guardata con diffidenza dalla gente per la sua intraprendenza e la sua autonomia. Ben presto alla figura del padre vengono riconosciuti tutti i difetti e i limiti che le sono reali; si tratta, per la ragazza, quasi di un trauma acuito dal cambiamento che la vita le impone: il matrimonio con un giovane non amato, tipico esponente del tradizionalismo dell'ambiente. Ogni momento della sua vita è catalizzato, così, dalla presenza di un uomo: dapprima il padre, a torto ritenuto, in ogni frangente, il migliore; poi il marito, essere squallido e opportunista, che la sposa dopo averla stuprata e che continua a violentare, per tutti gli anni del matrimonio, la sua interiorità, la sua personalità, la sua sessualità; e infine il figlio, un bambino al quale è così profondamente legata da accettare per lui, per molto tempo, una vita che non è e non può essere la sua. Il trasferimento nella grande città, reso necessario dall'instabilità economica della famiglia, e la ripresa del lavoro che la mette a contatto con persone idealmente e culturalmente attive, realizzano il distacco anche intellettuale da quel mondo chiuso.


Si attua, in questo modo, una drammatica presa di coscienza della nuova realtà e si oggettiva il grande lavoro da compiersi: "Femminismo! Organizzazione di operaie, legislazione del lavoro, emancipazione legale, divorzio, voto amministrativo e politico... Tutto questo, si, è un compito immenso, eppure non è che la superficie: bisogna riformare la coscienza dell'uomo, creare quella della donna!" La vita con il marito, a questo punto, si è resa materialmente impossibile e il conseguente forzato distacco dal figlio viene accettato per l'impulso alla rivolta che lei, figlia, sente.

Attorno al personaggio centrale della donna, ruota una serie di figure corpose, delineate con realismo e acutezza psicologica: uomini come il medico o il dongiovanni di provincia, entrambi portavoce, anche se in maniera diversa, del grigiore meridionale, o come il filosofo, la cui personalità, al tempo stesso problematica ed eterea, influenza il cambiamento della protagonista, e figure di donne, passivamente oppresse o vivacemente attive. Viene tracciata così l'immagine di una società in cui la repressione sessuale, violenta o subdola mente infiltrata, è l'elemento più evidente e più tormentoso: proprio per il ritratto realistico offerto, il romanzo della A. coinvolge ideologica mente ancor oggi per l'imprevedibile modernità del discorso.

Lo stupro


Così, sorridendo puerilmente, accanto allo stipite di una porta che divideva lo studio del babbo dall’ufficio comune, una mattina fui sorpresa da un abbraccio insolito, brutale: due mani tremanti frugavano le mie vesti, arrovesciavano il mio corpo fin quasi a coricarlo su uno sgabello mentre istintivamente si divincolava. Soffocavo e diedi un gemito ch’era per finire un urlo, quando l’uomo, premendomi la bocca, mi respinse lontano. Udii un passo fuggire e sbattersi l’uscio. Barcollando, mi rifugiai nel piccolo laboratorio in fondo allo studio. Tentavo di ricompormi, mentre mi sentivo mancare le forze; ma un sospetto oscuro mi si affacciò. Slanciatami fuor della stanza, vidi colui, che m’interrogava in silenzio, smarrito, ansante. Dovevo esprimere un immenso orrore, poichè una paura folle gli apparì sul volto, mentre avanzava verso di le le mani congiunte in atto supplichevole...
Appartenevo ad un uomo, dunque?
Lo credetti dopo non so quanti giorni d’uno smarrimento senza nome. Ho di essi una rimembranza vaga e cupa.
D’improvviso la mia esistenza, già scossa per l’abbandono di mio padre, veniva sconvolta, tragicamente mutata. Che cos’ero io ora? Che cosa stavo per diventare? La mia vita di fanciulla era finita.
Il mio orgoglio di creatura libera e riflessiva spasimava; ma non mi permetteva d’indugiarmi in rimpianti e discolpe, mi spingeva ad accettar la responsabilità dell’accaduto.
E tentavo giustificare affannosamente ciò che ancora mi riempiva di stupore.

L’illusione

Perchè non avrei potuto essere felice un istante, perchè non avrei dovuto incontrare l’amore, un amore più forte di ogni dovere, di ogni volere? Tutto il mio essere lo chiamava. Quell’uomo mi aveva soggiogato per tante settimane, aveva saputo imporsi al mio pensiero. Perchè? Perchè ero sola, disamata, assetata ed anelante...

Lui? Era proprio lui, quell’uomo miserevole che m’era apparso la sera avanti, spoglio d’ogni poesia e d’ogni illusione, brutale e ridicolo? E un’ira folle mi prendeva contro me stessa, che cadeva subito per lasciar posto ad una verità profonda. Io avevo rinunciato a me stessa. Quel poco ch’ero divenuta, quella creatura umile ma splendente d’una pura maternità, io l’avevo buttata ai piedi d’un essere volgare dallo stupido egoismo, che s’affrettava a gualcirmi come erba sulla strada! Ero dunque discesa così in basso? La mia smania di vivere m’aveva accecata. La vita che cercavo era l’errore, era l’abiezione...

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[...] Perchè quelle lagrime? Pareva che mi si lacerasse qualche lembo di carne sana accanto alla piaga da cui mi si liberava: non era morta in me, dunque, la fede nell’amore, nell’esistenza di un amore possente e fulgido, poi che piangevo dando l’estremo addio al fantasma che m’aveva illuso per un attimo? Se ne andava colui col quale avevo scambiato promesse di felicità, spariva, in un vortice, per sempre. Sapeva che il suo ricordo non poteva abbandonarmi poichè il suo rapido passaggio aveva segnato la mia trasformazione? No certo: e il mio nome pronunciato un giorno dinanzi a lui, dopo anni e anni, non gli avrebbe risvegliato che un senso di dispetto.

La scrittura


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Intanto il mio scartafaccio cresceva di mole. Tentativi disparati vi si succedevano. Accanto ad impressioni visive, alla pittura rapida di qualche tipo, si svolgeva in cento frammenti il filo delle mie considerazioni sulla vita, tendenti ad orientarsi in una connessione, in un organismo. Un occulto ardore correva per quei fogli, che io cominciavo ad amare come qualcosa migliore di me, quasi  mi rendessero la mia immagine già purificata e mi convincessero ch’io poteva vivere intensamente ed utilmente. Vivere!

[...] Un libro, il libro... Ah, non vagheggiavo di scriverlo, no! Ma mi struggevo, certe volte, contemplando nel mio spirito la visione di quel libro che sentivo necessario, di un libro d’amore e di dolore, che fosse straziante e insieme fecondo, inesorabile e pietoso, che mostrasse al mondo intero l’anima femminile moderna, per la prima votla, e per la prima volta facesse palpitare di rimorso e di desiderio l’anima dell’uomo, del triste fratello... Un libro che recasse tradotte tutte le idee che si agitavano in me caoticamente da due anni, e portasse l’impronta della passione. Non lo avrebbe mai scritto nessuno? Nessuna donna v’era al mondo che avesse ricevuto dalle cose animate e inanimate gli ammonimenti ch’io avevo ricevuto, e sapesse trarre da ciò la pura essenza, il capolavoro equivalente ad una vita?

La Morte

Le ore passate accanto alla spoglia di chi amammo non ci fanno veggenti; ma neppure ci prostrano, nè ci tolgono il senso dell’esistenza che in noi continua. Sembra in quel punto di ereditare, coi doveri, anche le qualità di chi ci ha lasciati; ci si trova più ricchi, o di energia o di idealità o di amore. Ci si sente solidali coi vivi oltre che coi morti.

La maternità

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Perchè nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. E’ una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver compensato adeguatamente l’olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità? Allora si incomincerebbe a comprendere che il dovere dei genitori s’inizia ben prima della nascita dei figli e che la loro responsabilità va sentita innanzi, appunto allora che più la vita egoistica urge imperiosa, seduttrice. Quando nella coppia umana fosse la umile certezza di possedere tutti gli elementi necessari alla creazione d’un nuovo essere integro, forte, degno di vivere, da qual momento, se un debitore v’ha da essere, non sarebbe questi il figlio?
Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perchè, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo all’essere noi stessi...

Il distacco

Allora sentii che non sarei tornata, sentii una forza che fuori di me mi reggeva, e che andavo incontro al destino nuovo, e che tutto il dolore che mi attendeva non avrebbe superato quel dolore.

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