Desiderio, etimologia: "un sentimento intenso che spinge a cercare il possesso, il conseguimento o l'attuazione di quanto possa appagare un proprio bisogno fisico o spirituale." (Treccani)
L'origine è il latino "desiderium" che proviene da "de sideribus", "dalle stelle". Per desiderio quindi si deve intendere "mancanza di stelle, del cielo", e quindi lo struggimento che nasce da questo senso di carenza, dall'impossibilità di "afferrare" le stelle.
L'opposto del termine "considerare" che significa invece "contemplare" le stelle, vederle tutte insieme.
Illuminante in tal senso una pagina del "De Bello Gallico" nella quale Cesare definisce "desiderantes" i soldati che stavano sotto le stelle ad aspettare chi non era tornato dopo la battaglia. Il verbo "desiderare" ha origine proprio da questo gesto, in questa condizione dell'anima: nel porsi sotto gli astri ed attendere. E sentire, alla luce delle stelle, la mancanza di un amico, di un amore o di qualcuno che procuri sollievo, o dia addirittura un senso alla propria esistenza.
Da "Philip Roth, Fantasmi del desiderio"
di Luciano De Fiore - Introduzione di Antonio Monda
Il rapporto tra lo scrivere e il
vivere è l’enigma che Philip Roth si è posto il compito di scrutare nei suoi
romanzi. Roth ed i suoi principali alter-ego vivono da più di cinquant’anni a
cavallo tra secondo e terzo millennio. Ebrei d’America, hanno sulle spalle la
diaspora, la Shoà, il proibizionismo e il sogno del New Deal, le tentazioni
autoritarie dei Lindbergh e dei Nixon. Hanno vissuto il maccartismo e il
segregazionismo, la nuova cultura e la rivoluzione sessuale, le guerre di Corea
e del Vietnam e le due Tempeste nel deserto. Hanno negli occhi il lampo dei
Boeing contro le Torri, il rogo dell’11 settembre e il giuramento del primo
Presidente afro-americano. È mutato il paradigma del desiderio in questi
decenni concitati? Come dà conto Roth di questo cambiamento? Per lui il
desiderio, per quanto pieno, tende a non aver mai soddisfazione finale: pur
sospinto al colmo, non incontra mai un’akmé. E il mantenimento della dimensione
desiderante è ciò che preserva la divisione nel soggetto, permettendogli di
restare sano: il desiderio ci consente infatti di restare soggetti divisi e di
sfuggire così alla pazzia. Controvita è la parola cui Roth affida questa
contraddittorietà del vivere. Ogni aspetto della quotidianità può trovare
legittimamente un opposto. I racconti di Philip Roth mostrano in azione questa
dinamica, incarnandola – è il caso di dirlo – nelle storie individuali
dell’uomo post-storico, ambivalente nel suo procedere tra vita e controvita.
Quando un grande scrittore è ormai sugli
ottanta e ha scritto più di trenta libri, questi – come la pietra lanciata dal
Diavolo – appartengono ormai al mondo: «Un romanziere maturo come Roth sa bene
che le storie che ci apprestiamo a scrivere a volte prendono a scriversi da sole,
dopodiché la loro verità o falsità non ci appartengono più e le dichiarazioni
d’intenti degli autori non hanno peso. Inoltre, una volta che un libro è
lanciato nel mondo, diviene proprietà dei suoi lettori che, se solo ne hanno
l’opportunità, ne piegheranno il senso a seconda dei loro pregiudizi e
desideri»
(John M. Coetzee).
Uno scrittore
ha bisogno dei suoi veleni. L’antidoto a questi veleni è spesso un libro (1).
Pur rispettando la resistenza e l’autonomia del reale, senza illudersi di poter
sostituire al caso del mondo una presunta eternità della scrittura, quest’ultima
però sembrerebbe restare l’unica cura fino in fondo accreditata, anche oltre l’analisi
del profondo. “Il problema non è che tutto dev’essere un libro” spiega Philip
Roth “è che ogni cosa deve essere un libro. E non conta come vita, finché non
lo è.” (2). Il cogito cartesiano, la
coscienza riflessiva di un soggetto permanentemente in transito si oggettiva
divenendo una macchina per scrivere: cogito,
dum scribo. Scrivere e sublimare, illudendosi di marciare verso la
saggezza. Salvo accorgersi al dunque che “tutti in marcia verso la salvezza,
tranne me”. Tanto vale ammettere allora che tu, scrittore, “ricavi le tue storie
dai tuoi vizi, inventi sosia per i tuoi demoni” (2).
(1) Autori vari, Conversation with Philip Roth, a cura di George J.Searles.
(2) Philip Roth, Lezioni di anatomia (1983)
Per quanto la
creazione artistica nasca appunto dalla plasticità delle pulsioni strappate
alla fissazione ossessiva, il desiderio a volte ne costituisce l’ispirazione
indiretta. Se la pulsione insomma funge da propellente alla creazione, il
desiderio può indirizzarla e guidarla soggettivizzandola, cioè
individualizzando quello che Freud aveva colto come destino della pulsione, non
lasciando che la libido, desingolarizzata, si avviti nell’istinto di morte.
La fedeltà al
desiderio di desiderare: un sentimento che trae nutrimento dal proprio continuo
riproporsi, che rinasce nella propria inesaustività al di là del “suo” oggetto,
l’unica “cattiva infinità” riscattabile anche in un’ottica dialettica. Un
desiderio che ha un che di umanamente “perverso” nutrendosi della propria
rinascita, desiderando desiderare, desiderando che la catena dei propri
fantasmi non si interrompa, che non se ne esauriscano mai gli anelli. […] L’individuo
nel quale tale dinamica desiderante s’incrina o addirittura si spezza va
incontro all’esperienza della depressione, connotabile forse anche come la
malattia, grave, del desiderare. Nei romanzi di Roth, fino a L’Umiliazione, la vita resiste fin
quando tiene il desiderio. Il mantenimento della dimensione desiderante è ciò
che preserva la divisione del soggetto, permettendogli di restare sano: il
desiderio ci consente infatti di restare soggetti divisi, e di sfuggire così
alla pazzia e di opporci alle tentazioni suicidarie.
Se sei un
attore che dà una performance, disponi di una parrucca, baffi finti e di una
gobba falsa, e quando poi torni dietro le quinte ti togli quelle cose e quando
esci di strada sei te stesso. Ma il problema per uno scrittore è che non può
togliersi queste cose, così quando esce per strada sembra sia lo stesso tizio.
Philip
Roth, Philip Roth talks to David L.Ulin, Los Angeles Times, 1 ottobre 2010
A me non manca
niente in particolare, mi manca la vita. Non ho capito tutto ciò nei primi
venti anni, perché stavo sempre a combattere, ero a fare a pugni con la
letteratura. Quello scontro era vita, ma poi ho scoperto di essere sul ring da
solo […]. Sono stati gli interessi che ho avuto nella vita e il tentativo di
mettere per iscritto la vita sulle pagine ad avermi reso uno scrittore. Poi
però ho scoperto che da molti punti di vista sono fuori dalla vita.
“La passione
con l’età non cambia, si invecchia. La voglia di donne si fa più acuta. E c’è
una potenza nel pathos del sesso che prima non c’era. Il pathos per il corpo
femminile diventa più persistente. La passione sessuale è sempre profonda, ma
lo diventa ancor di più”
Philip Roth, Intervista a Martin Krasnik, La
Repubblica, 21 dicembre 2005
Tutto ciò che
posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio
e non posso assoggettarmi alla buffonata di un io. Mi pare una battuta, nel
caso del mio io. Quella che ho al posto di un io è una varietà di
interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera
troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso
rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di
copioni e di parti che formano il mio repertorio. Ma sicuramente non possiedo
un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E
non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro.
Philip Roth, La controvita, 1986
Quando uno
scrittore degno di questo nome è arrivato a trentasei anni, non traduce più l’esperienza
in una favola: impone le sue favole all’esperienza
Philip Roth, Inganno, 1990
Una volta che
un libro è lanciato nel mondo, diviene proprietà dei suoi lettori che, se solo
ne hanno l’opportunità, ne piegheranno il senso a seconda dei loro pregiudizi e
desideri.
John
Maxwell Coetzee, What Philip knew, The New York Revue of Books, 51, November
18, 2004.
L’identità di
un personaggio non è solo il frutto passivo di un’eredità precostituita,
culturale o etnica, ma un assemblaggio prodotto dallo sforzo individuale per
far propri o rigettare pezzi della propria storia.
State attenti
ai desideri più folli. Potrebbero diventare realtà.
Philip Roth, Il seno, 1972
Il desiderio è
il seno. Quello vero, ciò che divide e unisce, sinus, o come il greco Kolpos. E’
la nascita delle due mammelle della donna, il punto di attacco, il solco tra le
due imperfette e perfette metà della sfera femminile, quel sollevamento, lo
spazio che separa e rimanda però sempre al due, alla coppia dei seni – una doppia
elevazione, invio perpetuo dell’una all’altra. Nell’ambivalenza del seno (è
dove non è, è infatti l’attaccatura, la scollatura, il décolleté e non le
mammelle che pure chiamiamo seni, nel linguaggio corrente) si può sentire il
desiderio che, come il seno, è un vuoto che dice del pieno.
Philip Roth, Pastorale americana (1997)
L’incanto
irresistibile che continuiamo a esercitare fino alla fine con la superficie del
nostro corpo, si dimostra la cosa più seria che c’è nella vita. Il corpo, del
quale non si può spogliare per quanti sforzi faccia, del quale è impossibile
liberarsi fino alla morte.
Philip Roth, Lezioni di anatomia
Philip Roth, Il fantasma esce di scena (2007)
08_minkinnen_arno mag.sky.it |
[…] Si può
quindi ricorrere alla parola seno per dire il desiderio, il solco, lo spazio;
laddove la parola al plurale dice invece ciò che il seno non è, appunto, perché
se nel primo è la mancanza e la tensione, nei secondi è la pienezza, la
ridondanza. Ma “proprio nella mancanza, nel vuoto del décolleté lo sguardo dell’uomo
percepisce ciò che immagina. La nascita deve essere perfetta per invitare a
vedere di più” (1)
(1) Monique Brossard-Le Grand, Le sein ou la vie des femmes, 1989
Rimane sempre
da sapere se è la bellezza che strazia oppure il suo desiderio, o se è la
stessa cosa, e se la bellezza è di per sé il desiderio della bellezza, sepre
più e meno di essa, sempre fuori da essa, strana incongruenza.
Monique Brossard-Le Grand, Le sein ou la vie des
femmes, 1989
I seni
esposti, esibiti, dicono del godimento più che del desiderio. “La parte più
erotica di un corpo non è forse dove l’abito si dischiude? E’ erotica l’intermittenza,
come ha detto bene la psicoanalisi: quella della pelle che luccica fra due
indumenti (i pantaloni e il golf), fra due bordi (la camicia semiaperta, il
guanto e la manica); è proprio questo scintillio a sedurre, o anche: la
messinscena di un’apparizione-sparizione.
Roland Barthes, 1973, Il piacere del testo
Fuori dall’estasi
dell’amplesso i corpi restano separati: è il desiderio che tende a fondere per
un istante ciò che è e permane diviso. In questo senso, il rapporto sessuale –
sostiene com’è noto Lacan – in senso stretto “non c’è”. Nel rapporto si dà
movimento, scambio: come se non fosse possibile fermare quell’attimo,
fotografandolo. La parola “rapporto” rimanda insomma a un’azione, non a una
sostanza. Accade tra le cose, da una cosa all’altra.
Non conosco
altro modo per cambiar pelle se non inserire il bisturi e lacerarmi da cima a
fondo.
Philip Roth, Il professore di desiderio, 1977
-
Da giovane cosa avrebbe voluto fare nella vita?
-
Un essere umano, una persona capace di conoscere e comprendere la vita,
e ciò che è reale, senza crogiolarmi nelle menzogne.
Philip Roth, Il professore di desiderio, 1977
Il desiderio
non ha oggetto, transita di significante in significante e non si acquieta.
Dice Proust,
non desidero una donna, ma desidero anche un “paesaggio” che è contenuto in
questa donna, un paesaggio che forse neanche conosco, ma che intuisco e finché
non ho sviluppato questo paesaggio non sarò contento, cioè il mio desiderio non
sarà compiuto, resterà insoddisfatto. Non si desidera mai qualcosa di isolato.
Ma ancora, non desidero neanche un insieme, desidero in un insieme. In altri
termini non c’è desiderio che non scorra in un concatenamento. Desiderare è
costruire un concatenamento, costruire un insieme. L’insieme di una gonna, di
un raggio di sole… di una strada, il concatenamento di un paesaggio, di un
colore. Ecco cos’è il desiderio.
Gilles Deleuze, voce Désir, in L’abécédaire de
Gilles Deleuze, interviste televisive con C.Parner dirette da P.A. Boutang,
Vidéo Editions Montparnasse 1996, voce: Désir.
Forse che
Amleto, alla fine della tragedia, si rialza e dice: “Non voglio morire”?. No,
la sua parte è finita e lui rimane lì disteso.
Philip Roth, Zuckerman scatenato, 1981
Vivo da solo,
non c’è nessuno di cui io sia responsabile, a cui debba rispondere di quello
che faccio o con cui debba passare il tempo. Decido io i miei orari. Di solito
scrivo tutto il giorno, ma se voglio tornare nel mio studio la sera, dopo cena,
posso farlo: non sono costretto a star seduto in salotto perché qualcun altro
ha passato la giornata da solo. Non devo star seduto a far conversazione
cercando di essere brillante. Se mi sveglio alle due di notte e mi viene in
mente un’idea, accendo la luce e scrivo in camera da letto. Lavoro, sono sempre
reperibile. Sono come un medico di un reparto d’urgenza. E sono anche il caso
urgente.
Philip Roth, The New Yorker, 8 maggio 2000.
Ecco la sua
religione dell’arte, mia giovane sostituta: rifiutare la vita! Ecco da dove
tira fuori i suoi magnifici racconti, dal non vivere! E ora tu sarai la persona
con la quale non vivrà!
Philip Roth, Lo scrittore fantasma (1979)
Non
desideriamo una cosa perché è buona: piuttosto, una cosa è buona in quanto la
desideriamo. Sono proprio i nostri desideri, i desideri dell’uomo proprio in
quanto animale desiderante, a stabilire ciò che è bene. Anche le stelle possono
essere d’aiuto, se dinnanzi alla loro fornace incandescente possiamo per un
attimo relativizzare e lenire le nostre ustioni.
La legge del
vivere: oscillazione. Per ogni pensiero, un pensiero opposto, per ogni impulso,
un impulso contrario.
Philip Roth, il teatro di Sabbath, 1995
Oggi, ogni
tanto, voltandomi indietro, ripenso alla mia vita come a un lungo discorso che
ho ascoltato. La retorica è a volte originale, a volte piacevole, a volte
inconsistente (il discorso dell’incognito), a volte maniacale, a volte pratica,
a volte come l’improvvisa puntura di un ago, e io l’ascolto da tempo
immemorabile: come pensare, come non pensare; come comportarsi, come non
comportarsi; che detestare e chi ammirare; cos’abbracciare e quando scappare;
cos’è entusiasmante, cos’è massacrante, cos’è lodevole, cos’è superficiale, cos’è
sinistro, cos’è schifoso, e come restare un’anima pura. Si direbbe che parlare
con me non sia un ostacolo per nessuno. Questa è forse una conseguenza del mio
essere andato in giro per anni con l’aria di chi avrebbe un grann bisogno che
qualcuno gli rivolgesse la parola. Ma, qualunque ne sia la ragione, il libro
della mia vita è un libro di voci. Quando mi chiedo come sono arrivaato dove
sono, la risposta mi sorprende: “Ascoltando”.
Philip Roth, Ho sposato un comunista
Anche i mostri
devono venire da qualche parte: anche i mostri hanno bisogno di genitori.
Esiste
soltanto l’errore. Lì è il cuore del mondo. Nessuno ritrova la propria vita.
Questa è la vita.
Philiip Roth, Ho sposato un comunista (1998).
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Sono sull’orlo
dell’abisso che si sono scelti. Ma non rinunciano a ballare. Lui ha un’età, ma
è disponibile ad innamorarsi come un ragazzino – nota Faunia: “Ti stai
innamorando di me, Coleman, e sei troppo, troppo giovane per le donne come me.
Io ho bisogno di un uomo molto più vecchio. Forse ho bisogno di un uomo che
abbia almeno cent’anni”. Il professore ha messo su una vecchia incisione di “The
man I love” di Artie Shaw con Roy Elridge alla tromba. E chiede a Faunia di
ballare per lui: “Con la sua tranquilla risata lei dice: ‘Perché no? In questo
sono generosa.’, e comincia a muoversi, lisciandosi la pelle come fosse un
abito gualcito, curando che ogni cosa sia come dev’essere, tesa, ossuta o
arrotondata come dev’essere, un alito di sé, il suggestivo aroma vegetale che
mandano le sue dita familiari quando se le passa sul collo e sulle orecchie
accaldate e, lentamente, da lì, sopra le gote fino alle labbra e ai capelli, ai
capelli biondi e striati di grigio inumiditi e sparsi dallo sforza, capelli con
i quali Faunia gioca come fossero alghe.
Philip Roth, La macchia umana.
Noi lasciamo
una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità,
crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui.
La macchia esiste prima del suo segno. La macchia così intriseca che non
richiede un segno.
Philip Roth, L’animale morente
La vita
sessuale è centrale per me, come credo per qualunque altro. Il sesso richiede
un sacco di tempo, sia il pensarci, sia il farlo, anche se spesso è il pensarci
ad avere il posto d’onore. Per me è soprattutto un ambito recondito, che
contiene elementi di mistero e di razzia.
Philip Roth, Chiacchiere di bottega.
Essere vecchio
significa anche – a dispetto, in aggiunta e oltre a “essere stato” – che sei
ancora. Il tuo “essere stato” è molto vivo. Tu sei ancora, e uno è ossessionato
tanto dall’ “essere ancora” e dalla sua pienezza quanto dall’ “essere stato”,
dal passato. Si è immortali per tutto il tempo che si è al mondo.
Philip Roth, L’animale morente
L’unica
ossessione che vogliono tutti: l’ “amore”. Cosa crede la gente, che basta
innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso
diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti
spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due. Quella ragazza era un corpo
estraneo introdotto nella tua interezza.
La nudità del
corpo umano è la sua immagine, cioè il tremito che lo rende conoscibile, ma che
resta in sé inafferrabile. Di qui il fascino tutto speciale che le immagini
esercitano sulla mente umana. E proprio perché l’immagine non è la cosa, ma la
sua conoscibilità (la sua nudità), essa non esprime né significa la cosa; e
tuttavia, in quanto non è che il donarsi della cosa alla conoscenza, il suo
spogliarsi dalle vesti che la ricoprono, la nudità non è altro dalla cosa, è la
cosa stessa.
Giorgio Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009
Invecchiare è
una cosa immaginabile solo per chi diventa vecchio.
-
Quella di occuparsi di letteratura è una scelta, proprio come qualsiasi
altra scelta. Subito però ci si identifica con una professione. E questo è il
primo brutto colpo. Perché poi ci si cimenta nel corso dei decenni per fare il
proprio lavoro sempre al meglio, sempre diverso, facendolo e rifacendolo per
dimostrare a se stessi di saperlo fare.
-
Ma lei oramai lo sa fare, giusto?
-
Non ne ho idea, non so se sono in grado di continuare a farlo. Come
potrei saperlo? Come posso sapere che non mi mancheranno le idee domani?
Philip Roth, Intervista a Martin Kranisk
La catena del
desiderio non s’interrompe rinunciando alle cose, agli oggetti, non nutrendosi
di quelli, ma di fantasie, di tracce mnestiche, di ricordi, di volti che si
riaffacciano nei sogni e nella realtà.
Nessuna cosa
risponde completamente al desiderio, perché il godimento di essa non soltanto è
incapace di sanare la mancanza, ma mira semmai a riprodurre l’insoddisfazione
e, soprattutto, non è mai all’altezza dell’eccesso. Il desiderio vive di rappresentazioni e di
futuro, non di cose.
Il problema
non consiste nell’o/o, nella scelta consapevole tra possibilità ugualmente
difficili e incresciose: non è un o/o, ma un e/e/e/e/e e ancora “e”. La vita è
composta di “e”: l’accidentale e l’immutabile, il bizzarro e il preedibile, l’attuale
e il potenziale, tutte realtà che si moltiplicano, si aggrovigliano, si
sovrappongono, entrano in collisione, si combinano tra loro… più il
moltiplicarsi delle illusioni.
Philip Roth, La controvita
Il desiderio,
non consumandosi fino in fondo, risparmio l’eccesso che esso stesso è. Non si
dà mai tutto: mentre il massimo godimento di una cosa si tocca nel suo totale
consumarsi e il godimento assoluto è semplicemente impossibile, non si dà mai
un apice del desiderio, un suo colmo. Averne consapevolezza consente al
soggetto desiderante di sottrarsi, di stabilire una distanza, di uscire di
scena per preservarne meglio la carica. L’uscita del fantasma non è mai
definitiva.
Philip Roth, Pastorale americana (1997)
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Nessuno passa
attraverso la tristezza, il dolore, la confusione e la perdita senza restare
segnato in qualche modo.
La lezione
peggiore che la vita possa insegnare: che non c’è senso. E quando capita una
cosa simile, la felicità non è più spontanea. E’ artificiale e, anche allora,
comprata al prezzo di un ostinato estraniamento da se stessi e dalla propria
storia.
Rimane il
fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla
male, capirla male e male e poi male e, dopo un riattento esame, ancora male.
Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando.
Philip Roth, Lezioni di anatomia
Phantasm_by_Deepinswim.jpg www.deviantart.com |
Se il dolore
fosse soltanto l’espressione di qualche altra cosa, tutto andrebbe a gonfie
vele. Ma la vita, disgraziatamente, non è organizzata in modo così logico.
Come Zuckerman
cominciava a imparare, il dolore poteva renderti terribilmente primitivo, se
non era mitigato da dosi costanti e regolari di pensiero filosofico.
Cosa ci
insegna il dolore cronico? Esci dal banco e vieni a scrivere la risposta alla
lavagna. Il dolore cronico ci insegna: primo, cosa è il benessere; secondo:
cosa è la codardia; terzo, un po’ di quello che significa essere condannati ai
lavori forzati. Il dolore è lavoro. Che altro, Nathan, soprattutto? Ci insegna
chi è il padrone. Esatto.
Philip Roth, Il fantasma esce di scena (2007)
Phantasm_by_silvestru (deviantart.com) |
Il quoziente di dolore di un individuo non è già abbastanza terribile, senza amplificazioni romanzesche, senza dare alle cose un’intensità che nella vita è effimera e certe volte addirittura invisibile? Non per tutti. Per poche, pochissime persone quest’amplificazione, uscendo e sviluppandosi in modo incerto dal nulla, costituisce la loro unica salvezza, e il non vissuto, la supposizione, impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più.
Se io avessi un po’ del potere di Stalin, non lo sprecherei per mettere il bagaglio agli scrittori dotati di fantasia. Imbavaglierei quelli che scrivono sugli scrittori dotati di fantasia. Vieterei ogni lezione di letteratura in ogni scuola elementare, superiore, college e università del paese. Dichiarerei illegali i gruppi di lettura e chat sui libri in Internet, e metterei dei poliziotti nelle librerie per essere sicura che nessun commesso parlasse mai di un libro a un cliente, e che i clienti non si azzardassero a parlare tra loro. Lascerei il lettore solo con i libri, a vedersela con loro. Farei questo per tutti i secoli che sarebbero necessari per disintossicare la società dalle vostre velenose assurdità.
Da anni non mi sedevo così vicino a una giovane donna tanto irresistibile. Jamie esercitava una forte attrazione su di me, una forte attrazione gravitazionale sul fantasma del mio desiderio. Quella donna era dentro di me prima ancora di fare la sua comparsa. Mi bastava guardarla per trasalire, lasciavo che mi entrasse negli occhi come un mangiatore di spade inghiotte una lama. Era solo riuscita in meno di dieci minuti a ingigantire il mio desiderio e a fare di lei il problema di gran lunga più importante della mia vita. La velocità di attrazione non ammette e non contiene rinunce: c’è posto solo per la bramosia del desiderio.
Sto parlando con una persona razionale che si è sottoposta a una disciplina praticamente disumana che ha perduto il senso delle proporzioni ed è entrata in una storia disperata di irragionevoli desideri. Eppure, è proprio questo che significa vivere, no?
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