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19 lug 2013

"Philip Roth, Fantasmi del desiderio" di Luciano De Fiore

 
Desiderio, etimologia: "un sentimento intenso che spinge a cercare il possesso, il conseguimento o l'attuazione di quanto possa appagare un proprio bisogno fisico o spirituale." (Treccani)
L'origine è il latino "desiderium" che proviene da "de sideribus", "dalle stelle". Per desiderio quindi si deve intendere "mancanza di stelle, del cielo", e quindi lo struggimento che nasce da questo senso di carenza, dall'impossibilità di "afferrare" le stelle.
L'opposto del termine "considerare" che significa invece "contemplare" le stelle, vederle tutte insieme.
Illuminante in tal senso una pagina del "De Bello Gallico" nella quale Cesare definisce "desiderantes" i soldati che stavano sotto le stelle ad aspettare chi non era tornato dopo la battaglia. Il verbo "desiderare" ha origine proprio da questo gesto, in questa condizione dell'anima: nel porsi sotto gli astri ed attendere. E sentire, alla luce delle stelle, la mancanza di un amico, di un amore o di qualcuno che procuri sollievo, o dia addirittura un senso alla propria esistenza.
Da "Philip Roth, Fantasmi del desiderio" di Luciano De Fiore - Introduzione di Antonio Monda
 
Il rapporto tra lo scrivere e il vivere è l’enigma che Philip Roth si è posto il compito di scrutare nei suoi romanzi. Roth ed i suoi principali alter-ego vivono da più di cinquant’anni a cavallo tra secondo e terzo millennio. Ebrei d’America, hanno sulle spalle la diaspora, la Shoà, il proibizionismo e il sogno del New Deal, le tentazioni autoritarie dei Lindbergh e dei Nixon. Hanno vissuto il maccartismo e il segregazionismo, la nuova cultura e la rivoluzione sessuale, le guerre di Corea e del Vietnam e le due Tempeste nel deserto. Hanno negli occhi il lampo dei Boeing contro le Torri, il rogo dell’11 settembre e il giuramento del primo Presidente afro-americano. È mutato il paradigma del desiderio in questi decenni concitati? Come dà conto Roth di questo cambiamento? Per lui il desiderio, per quanto pieno, tende a non aver mai soddisfazione finale: pur sospinto al colmo, non incontra mai un’akmé. E il mantenimento della dimensione desiderante è ciò che preserva la divisione nel soggetto, permettendogli di restare sano: il desiderio ci consente infatti di restare soggetti divisi e di sfuggire così alla pazzia. Controvita è la parola cui Roth affida questa contraddittorietà del vivere. Ogni aspetto della quotidianità può trovare legittimamente un opposto. I racconti di Philip Roth mostrano in azione questa dinamica, incarnandola – è il caso di dirlo – nelle storie individuali dell’uomo post-storico, ambivalente nel suo procedere tra vita e controvita.
 Quando un grande scrittore è ormai sugli ottanta e ha scritto più di trenta libri, questi – come la pietra lanciata dal Diavolo – appartengono ormai al mondo: «Un romanziere maturo come Roth sa bene che le storie che ci apprestiamo a scrivere a volte prendono a scriversi da sole, dopodiché la loro verità o falsità non ci appartengono più e le dichiarazioni d’intenti degli autori non hanno peso. Inoltre, una volta che un libro è lanciato nel mondo, diviene proprietà dei suoi lettori che, se solo ne hanno l’opportunità, ne piegheranno il senso a seconda dei loro pregiudizi e desideri»
 (John M. Coetzee).

 
Uno scrittore ha bisogno dei suoi veleni. L’antidoto a questi veleni è spesso un libro (1). Pur rispettando la resistenza e l’autonomia del reale, senza illudersi di poter sostituire al caso del mondo una presunta eternità della scrittura, quest’ultima però sembrerebbe restare l’unica cura fino in fondo accreditata, anche oltre l’analisi del profondo. “Il problema non è che tutto dev’essere un libro” spiega Philip Roth “è che ogni cosa deve essere un libro. E non conta come vita, finché non lo è.” (2). Il cogito cartesiano, la coscienza riflessiva di un soggetto permanentemente in transito si oggettiva divenendo una macchina per scrivere: cogito, dum scribo. Scrivere e sublimare, illudendosi di marciare verso la saggezza. Salvo accorgersi al dunque che “tutti in marcia verso la salvezza, tranne me”. Tanto vale ammettere allora che tu, scrittore, “ricavi le tue storie dai tuoi vizi, inventi sosia per i tuoi demoni” (2).
(1)  Autori vari, Conversation with Philip Roth, a cura di George J.Searles.
(2)  Philip Roth, Lezioni di anatomia (1983)
 
Per quanto la creazione artistica nasca appunto dalla plasticità delle pulsioni strappate alla fissazione ossessiva, il desiderio a volte ne costituisce l’ispirazione indiretta. Se la pulsione insomma funge da propellente alla creazione, il desiderio può indirizzarla e guidarla soggettivizzandola, cioè individualizzando quello che Freud aveva colto come destino della pulsione, non lasciando che la libido, desingolarizzata, si avviti nell’istinto di  morte.
 
La fedeltà al desiderio di desiderare: un sentimento che trae nutrimento dal proprio continuo riproporsi, che rinasce nella propria inesaustività al di là del “suo” oggetto, l’unica “cattiva infinità” riscattabile anche in un’ottica dialettica. Un desiderio che ha un che di umanamente “perverso” nutrendosi della propria rinascita, desiderando desiderare, desiderando che la catena dei propri fantasmi non si interrompa, che non se ne esauriscano mai gli anelli. […] L’individuo nel quale tale dinamica desiderante s’incrina o addirittura si spezza va incontro all’esperienza della depressione, connotabile forse anche come la malattia, grave, del desiderare. Nei romanzi di Roth, fino a L’Umiliazione, la vita resiste fin quando tiene il desiderio. Il mantenimento della dimensione desiderante è ciò che preserva la divisione del soggetto, permettendogli di restare sano: il desiderio ci consente infatti di restare soggetti divisi, e di sfuggire così alla pazzia e di opporci alle tentazioni suicidarie.
 
Se sei un attore che dà una performance, disponi di una parrucca, baffi finti e di una gobba falsa, e quando poi torni dietro le quinte ti togli quelle cose e quando esci di strada sei te stesso. Ma il problema per uno scrittore è che non può togliersi queste cose, così quando esce per strada sembra sia lo stesso tizio.
Philip Roth, Philip Roth talks to David L.Ulin, Los Angeles Times, 1 ottobre 2010
 
A me non manca niente in particolare, mi manca la vita. Non ho capito tutto ciò nei primi venti anni, perché stavo sempre a combattere, ero a fare a pugni con la letteratura. Quello scontro era vita, ma poi ho scoperto di essere sul ring da solo […]. Sono stati gli interessi che ho avuto nella vita e il tentativo di mettere per iscritto la vita sulle pagine ad avermi reso uno scrittore. Poi però ho scoperto che da molti punti di vista sono fuori dalla vita.
Philip Roth, Intervista a Martin Krasnik, La Repubblica, 21 dicembre 2005
 


 

“La passione con l’età non cambia, si invecchia. La voglia di donne si fa più acuta. E c’è una potenza nel pathos del sesso che prima non c’era. Il pathos per il corpo femminile diventa più persistente. La passione sessuale è sempre profonda, ma lo diventa ancor di più”
Philip Roth, Intervista a Martin Krasnik, La Repubblica, 21 dicembre 2005
 
Tutto ciò che posso dirti con certezza è che io, per esempio, non ho un io, e che non voglio e non posso assoggettarmi alla buffonata di un io. Mi pare una battuta, nel caso del mio io. Quella che ho al posto di un io è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi, e non solo di me stesso: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io, uno stock in continua evoluzione di copioni e di parti che formano il mio repertorio. Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro.
Philip Roth, La controvita, 1986
 
Quando uno scrittore degno di questo nome è arrivato a trentasei anni, non traduce più l’esperienza in una favola: impone le sue favole all’esperienza
Philip Roth, Inganno, 1990
 
Una volta che un libro è lanciato nel mondo, diviene proprietà dei suoi lettori che, se solo ne hanno l’opportunità, ne piegheranno il senso a seconda dei loro pregiudizi e desideri.
John Maxwell Coetzee, What Philip knew, The New York Revue of Books, 51, November 18, 2004.
 
L’identità di un personaggio non è solo il frutto passivo di un’eredità precostituita, culturale o etnica, ma un assemblaggio prodotto dallo sforzo individuale per far propri o rigettare pezzi della propria storia.
 
State attenti ai desideri più folli. Potrebbero diventare realtà.
Philip Roth, Il seno, 1972
 
Il desiderio è il seno. Quello vero, ciò che divide e unisce, sinus, o come il greco Kolpos. E’ la nascita delle due mammelle della donna, il punto di attacco, il solco tra le due imperfette e perfette metà della sfera femminile, quel sollevamento, lo spazio che separa e rimanda però sempre al due, alla coppia dei seni – una doppia elevazione, invio perpetuo dell’una all’altra. Nell’ambivalenza del seno (è dove non è, è infatti l’attaccatura, la scollatura, il décolleté e non le mammelle che pure chiamiamo seni, nel linguaggio corrente) si può sentire il desiderio che, come il seno, è un vuoto che dice del pieno.

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[…] Si può quindi ricorrere alla parola seno per dire il desiderio, il solco, lo spazio; laddove la parola al plurale dice invece ciò che il seno non è, appunto, perché se nel primo è la mancanza e la tensione, nei secondi è la pienezza, la ridondanza. Ma “proprio nella mancanza, nel vuoto del décolleté lo sguardo dell’uomo percepisce ciò che immagina. La nascita deve essere perfetta per invitare a vedere di più” (1)
(1)  Monique Brossard-Le Grand, Le sein ou la vie des femmes, 1989
 
Rimane sempre da sapere se è la bellezza che strazia oppure il suo desiderio, o se è la stessa cosa, e se la bellezza è di per sé il desiderio della bellezza, sepre più e meno di essa, sempre fuori da essa, strana incongruenza.
Monique Brossard-Le Grand, Le sein ou la vie des femmes, 1989
 
I seni esposti, esibiti, dicono del godimento più che del desiderio. “La parte più erotica di un corpo non è forse dove l’abito si dischiude? E’ erotica l’intermittenza, come ha detto bene la psicoanalisi: quella della pelle che luccica fra due indumenti (i pantaloni e il golf), fra due bordi (la camicia semiaperta, il guanto e la manica); è proprio questo scintillio a sedurre, o anche: la messinscena di un’apparizione-sparizione.
Roland Barthes, 1973, Il piacere del testo
 
Fuori dall’estasi dell’amplesso i corpi restano separati: è il desiderio che tende a fondere per un istante ciò che è e permane diviso. In questo senso, il rapporto sessuale – sostiene com’è noto Lacan – in senso stretto “non c’è”. Nel rapporto si dà movimento, scambio: come se non fosse possibile fermare quell’attimo, fotografandolo. La parola “rapporto” rimanda insomma a un’azione, non a una sostanza. Accade tra le cose, da una cosa all’altra.
 
Non conosco altro modo per cambiar pelle se non inserire il bisturi e lacerarmi da cima a fondo.
Philip Roth, Il professore di desiderio, 1977
 
-      Da giovane cosa avrebbe voluto fare nella vita?
-      Un essere umano, una persona capace di conoscere e comprendere la vita, e ciò che è reale, senza crogiolarmi nelle menzogne.
Philip Roth, Il professore di desiderio, 1977
 
Il desiderio non ha oggetto, transita di significante in significante e non si acquieta.
 
Dice Proust, non desidero una donna, ma desidero anche un “paesaggio” che è contenuto in questa donna, un paesaggio che forse neanche conosco, ma che intuisco e finché non ho sviluppato questo paesaggio non sarò contento, cioè il mio desiderio non sarà compiuto, resterà insoddisfatto. Non si desidera mai qualcosa di isolato. Ma ancora, non desidero neanche un insieme, desidero in un insieme. In altri termini non c’è desiderio che non scorra in un concatenamento. Desiderare è costruire un concatenamento, costruire un insieme. L’insieme di una gonna, di un raggio di sole… di una strada, il concatenamento di un paesaggio, di un colore. Ecco cos’è il desiderio.
Gilles Deleuze, voce Désir, in L’abécédaire de Gilles Deleuze, interviste televisive con C.Parner dirette da P.A. Boutang, Vidéo Editions Montparnasse 1996, voce: Désir.
 
Forse che Amleto, alla fine della tragedia, si rialza e dice: “Non voglio morire”?. No, la sua parte è finita e lui rimane lì disteso.
Philip Roth, Zuckerman scatenato, 1981
 
Vivo da solo, non c’è nessuno di cui io sia responsabile, a cui debba rispondere di quello che faccio o con cui debba passare il tempo. Decido io i miei orari. Di solito scrivo tutto il giorno, ma se voglio tornare nel mio studio la sera, dopo cena, posso farlo: non sono costretto a star seduto in salotto perché qualcun altro ha passato la giornata da solo. Non devo star seduto a far conversazione cercando di essere brillante. Se mi sveglio alle due di notte e mi viene in mente un’idea, accendo la luce e scrivo in camera da letto. Lavoro, sono sempre reperibile. Sono come un medico di un reparto d’urgenza. E sono anche il caso urgente.
Philip Roth, The New Yorker, 8 maggio 2000.
 
Ecco la sua religione dell’arte, mia giovane sostituta: rifiutare la vita! Ecco da dove tira fuori i suoi magnifici racconti, dal non vivere! E ora tu sarai la persona con la quale non vivrà!
Philip Roth, Lo scrittore fantasma (1979)
 
Non desideriamo una cosa perché è buona: piuttosto, una cosa è buona in quanto la desideriamo. Sono proprio i nostri desideri, i desideri dell’uomo proprio in quanto animale desiderante, a stabilire ciò che è bene. Anche le stelle possono essere d’aiuto, se dinnanzi alla loro fornace incandescente possiamo per un attimo relativizzare e lenire le nostre ustioni.
 
La legge del vivere: oscillazione. Per ogni pensiero, un pensiero opposto, per ogni impulso, un impulso contrario.
Philip Roth, il teatro di Sabbath, 1995
 
Oggi, ogni tanto, voltandomi indietro, ripenso alla mia vita come a un lungo discorso che ho ascoltato. La retorica è a volte originale, a volte piacevole, a volte inconsistente (il discorso dell’incognito), a volte maniacale, a volte pratica, a volte come l’improvvisa puntura di un ago, e io l’ascolto da tempo immemorabile: come pensare, come non pensare; come comportarsi, come non comportarsi; che detestare e chi ammirare; cos’abbracciare e quando scappare; cos’è entusiasmante, cos’è massacrante, cos’è lodevole, cos’è superficiale, cos’è sinistro, cos’è schifoso, e come restare un’anima pura. Si direbbe che parlare con me non sia un ostacolo per nessuno. Questa è forse una conseguenza del mio essere andato in giro per anni con l’aria di chi avrebbe un grann bisogno che qualcuno gli rivolgesse la parola. Ma, qualunque ne sia la ragione, il libro della mia vita è un libro di voci. Quando mi chiedo come sono arrivaato dove sono, la risposta mi sorprende: “Ascoltando”.
Philip Roth, Ho sposato un comunista
 
Anche i mostri devono venire da qualche parte: anche i mostri hanno bisogno di genitori.
 
Esiste soltanto l’errore. Lì è il cuore del mondo. Nessuno ritrova la propria vita. Questa è la vita.
Philiip Roth, Ho sposato un comunista (1998).
 
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Sono sull’orlo dell’abisso che si sono scelti. Ma non rinunciano a ballare. Lui ha un’età, ma è disponibile ad innamorarsi come un ragazzino – nota Faunia: “Ti stai innamorando di me, Coleman, e sei troppo, troppo giovane per le donne come me. Io ho bisogno di un uomo molto più vecchio. Forse ho bisogno di un uomo che abbia almeno cent’anni”. Il professore ha messo su una vecchia incisione di “The man I love” di Artie Shaw con Roy Elridge alla tromba. E chiede a Faunia di ballare per lui: “Con la sua tranquilla risata lei dice: ‘Perché no? In questo sono generosa.’, e comincia a muoversi, lisciandosi la pelle come fosse un abito gualcito, curando che ogni cosa sia come dev’essere, tesa, ossuta o arrotondata come dev’essere, un alito di sé, il suggestivo aroma vegetale che mandano le sue dita familiari quando se le passa sul collo e sulle orecchie accaldate e, lentamente, da lì, sopra le gote fino alle labbra e ai capelli, ai capelli biondi e striati di grigio inumiditi e sparsi dallo sforza, capelli con i quali Faunia gioca come fossero alghe.
Philip Roth, La macchia umana.
 
Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui. La macchia esiste prima del suo segno. La macchia così intriseca che non richiede un segno.
Philip Roth, L’animale morente
 
La vita sessuale è centrale per me, come credo per qualunque altro. Il sesso richiede un sacco di tempo, sia il pensarci, sia il farlo, anche se spesso è il pensarci ad avere il posto d’onore. Per me è soprattutto un ambito recondito, che contiene elementi di mistero e di razzia.
Philip Roth, Chiacchiere di bottega.
 
 
 
 
 
Essere vecchio significa anche – a dispetto, in aggiunta e oltre a “essere stato” – che sei ancora. Il tuo “essere stato” è molto vivo. Tu sei ancora, e uno è ossessionato tanto dall’ “essere ancora” e dalla sua pienezza quanto dall’ “essere stato”, dal passato. Si è immortali per tutto il tempo che si è al mondo.
Philip Roth, L’animale morente
 
 
 
 
L’unica ossessione che vogliono tutti: l’ “amore”. Cosa crede la gente, che basta innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due. Quella ragazza era un corpo estraneo introdotto nella tua interezza.
 
La nudità del corpo umano è la sua immagine, cioè il tremito che lo rende conoscibile, ma che resta in sé inafferrabile. Di qui il fascino tutto speciale che le immagini esercitano sulla mente umana. E proprio perché l’immagine non è la cosa, ma la sua conoscibilità (la sua nudità), essa non esprime né significa la cosa; e tuttavia, in quanto non è che il donarsi della cosa alla conoscenza, il suo spogliarsi dalle vesti che la ricoprono, la nudità non è altro dalla cosa, è la cosa stessa.
Giorgio Agamben, Nudità, Nottetempo, Roma 2009
Invecchiare è una cosa immaginabile solo per chi diventa vecchio.
 
-      Quella di occuparsi di letteratura è una scelta, proprio come qualsiasi altra scelta. Subito però ci si identifica con una professione. E questo è il primo brutto colpo. Perché poi ci si cimenta nel corso dei decenni per fare il proprio lavoro sempre al meglio, sempre diverso, facendolo e rifacendolo per dimostrare a se stessi di saperlo fare.
-      Ma lei oramai lo sa fare, giusto?
-      Non ne ho idea, non so se sono in grado di continuare a farlo. Come potrei saperlo? Come posso sapere che non mi mancheranno le idee domani?
 Philip Roth, Intervista a Martin Kranisk
 
La catena del desiderio non s’interrompe rinunciando alle cose, agli oggetti, non nutrendosi di quelli, ma di fantasie, di tracce mnestiche, di ricordi, di volti che si riaffacciano nei sogni e nella realtà.
 
Nessuna cosa risponde completamente al desiderio, perché il godimento di essa non soltanto è incapace di sanare la mancanza, ma mira semmai a riprodurre l’insoddisfazione e, soprattutto, non è mai all’altezza dell’eccesso.  Il desiderio vive di rappresentazioni e di futuro, non di cose.
 
Il problema non consiste nell’o/o, nella scelta consapevole tra possibilità ugualmente difficili e incresciose: non è un o/o, ma un e/e/e/e/e e ancora “e”. La vita è composta di “e”: l’accidentale e l’immutabile, il bizzarro e il preedibile, l’attuale e il potenziale, tutte realtà che si moltiplicano, si aggrovigliano, si sovrappongono, entrano in collisione, si combinano tra loro… più il moltiplicarsi delle illusioni.
Philip Roth, La controvita
 
Il desiderio, non consumandosi fino in fondo, risparmio l’eccesso che esso stesso è. Non si dà mai tutto: mentre il massimo godimento di una cosa si tocca nel suo totale consumarsi e il godimento assoluto è semplicemente impossibile, non si dà mai un apice del desiderio, un suo colmo. Averne consapevolezza consente al soggetto desiderante di sottrarsi, di stabilire una distanza, di uscire di scena per preservarne meglio la carica. L’uscita del fantasma non è mai definitiva.
 

Philip Roth, Pastorale americana (1997)

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L’incanto irresistibile che continuiamo a esercitare fino alla fine con la superficie del nostro corpo, si dimostra la cosa più seria che c’è nella vita. Il corpo, del quale non si può spogliare per quanti sforzi faccia, del quale è impossibile liberarsi fino alla morte.
Nessuno passa attraverso la tristezza, il dolore, la confusione e la perdita senza restare segnato in qualche modo.
La lezione peggiore che la vita possa insegnare: che non c’è senso. E quando capita una cosa simile, la felicità non è più spontanea. E’ artificiale e, anche allora, comprata al prezzo di un ostinato estraniamento da se stessi e dalla propria storia.
Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un riattento esame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando.
 
 

Philip Roth, Lezioni di anatomia

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Se il dolore fosse soltanto l’espressione di qualche altra cosa, tutto andrebbe a gonfie vele. Ma la vita, disgraziatamente, non è organizzata in modo così logico.
Come Zuckerman cominciava a imparare, il dolore poteva renderti terribilmente primitivo, se non era mitigato da dosi costanti e regolari di pensiero filosofico.
Cosa ci insegna il dolore cronico? Esci dal banco e vieni a scrivere la risposta alla lavagna. Il dolore cronico ci insegna: primo, cosa è il benessere; secondo: cosa è la codardia; terzo, un po’ di quello che significa essere condannati ai lavori forzati. Il dolore è lavoro. Che altro, Nathan, soprattutto? Ci insegna chi è il padrone. Esatto.
 
 
 

Philip Roth, Il fantasma esce di scena (2007)


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Il quoziente di dolore di un individuo non è già abbastanza terribile, senza amplificazioni romanzesche, senza dare alle cose un’intensità che nella vita è effimera e certe volte addirittura invisibile? Non per tutti. Per poche, pochissime persone quest’amplificazione, uscendo e sviluppandosi in modo incerto dal nulla, costituisce la loro unica salvezza, e il non vissuto, la supposizione, impressa per esteso sulla carta, è la vita il cui significato arriva a contare di più.

Se io avessi un po’ del potere di Stalin, non lo sprecherei per mettere il bagaglio agli scrittori dotati di fantasia. Imbavaglierei quelli che scrivono sugli scrittori dotati di fantasia. Vieterei ogni lezione di letteratura in ogni scuola elementare, superiore, college e università del paese. Dichiarerei illegali i gruppi di lettura e chat sui libri in Internet, e metterei dei poliziotti nelle librerie per essere sicura che nessun commesso parlasse mai di un libro a un cliente, e che i clienti non si azzardassero a parlare tra loro. Lascerei il lettore solo con i libri, a vedersela con loro. Farei questo per tutti i secoli che sarebbero necessari per disintossicare la società dalle vostre velenose assurdità.

Da anni non mi sedevo così vicino a una giovane donna tanto irresistibile. Jamie esercitava una forte attrazione su di me, una forte attrazione gravitazionale sul fantasma del mio desiderio. Quella donna era dentro di me prima ancora di fare la sua comparsa. Mi bastava guardarla per trasalire, lasciavo che mi entrasse negli occhi come un mangiatore di spade inghiotte una lama. Era solo riuscita in meno di dieci minuti a ingigantire il mio desiderio e a fare di lei il problema di gran lunga più importante della mia vita. La velocità di attrazione non ammette e non contiene rinunce: c’è posto solo per la bramosia del desiderio.

Sto parlando con una persona razionale che si è sottoposta a una disciplina praticamente disumana che ha perduto il senso delle proporzioni ed è entrata in una storia disperata di irragionevoli desideri. Eppure, è proprio questo che significa vivere, no?

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