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19 lug 2013

Vagabondo

Camminavo lentamente lungo il viale alberato, sbirciando tra i rami un cielo stranamente azzurro e ripulito dello smog, che d’inverno ricopre Milano. L’afa di prima mattina era già insopportabile e nell’aria l’odore delle caldaie e degli scarichi delle auto aveva fatto posto all’acredine che esalava dai corpi già sudati della gente che si recava frettolosamente al lavoro.
I tacchi affondavano nell’asfalto e mi sembrava di camminare su un tappeto di gomma. Non facevano nemmeno il rumore che d’inverno accompagnava il mio solito tragitto, scalfendo il ghiaccio formatosi nella notte.
Sentivo l’umidità ricoprire il mio corpo come fosse un velo oramai permanente da qualche giorno e la gonna ampia che portavo era appiccicata alle gambe, invece di svolazzare intorno a loro quasi dispettosa, al ritmo della prima brezza di primavera.
Le fronde degli alberi sopra di me erano secche e morte, ma io le immaginavo di quell’arancione che in autunno tingeva il cielo del colore caldo di un abbraccio. Saltavo i rametti e cercavo di evitare la terra secca e grigia che ricopriva il parchetto che mi portava dritto al centro della città.

Montreal_Beggar_I_by_chirilas.jpg
www.deviantart.com

Mi fermai di colpo quando nell’aria si espanse un fetore putrido inusuale per qualsiasi stagione. Conoscevo bene quella strada, che avevo percorso per anni prima di quel giorno, cogliendo le sfumature di ogni stagione: le mie narici si dilatarono inorridite di fronte a quell’esalazione sconosciuta che sapeva di morte.
 Lo guardai. Era disteso in terra e mi colpì la coperta che lo avvolgeva, e dentro il suo corpo, che tremava come se il caldo lo avesse abbandonato, avendo paura di restargli vicino. Fremiti gli attraversavano il corpo di continuo, e nessun altro movimento accompagnava l’immagine immobile sul marciapiede, rintanata in un angolo, come se lui si fosse coricato apposta lì, con l’accortezza di non dare fastidio.

Lo avevo conosciuto quell’inverno, un pomeriggio che tornavo a casa, attraversando le solite strade strette e pietrose del centro città. Era seduto affianco ad un portone, con una tavoletta di legno bianca sulle gambe, sulla quale aveva appoggiato un foglio da disegno in carta spessa di color avorio. Alla sua destra c’erano delle matite colorate ed altre di varie tonalità tra il bianco ed il nero. Alla sua sinistra un ritratto di donna, al quale ogni tanto volgeva gli occhi distratto, come se quei lineamenti che voleva disegnare fossero a lui già noti, riposti in qualche angolo della sua memoria, e avesse bisogno solo di uno sguardo impreciso, per recuperare i dettagli che in quel momento gli sfuggivano. Il viso era già quasi completamente tratteggiato ed era quel volto di donna, in bianco e nero, con qualche venatura color seppia che imbiondiva i capelli, identico a quello nella fotografia. I capelli mossi e ribelli incorniciavano un viso ovale regolare, nel quale luccicavano intensi i suoi occhi di tonalità grigio-azzurra. Il naso regolare si ergeva impettito su una bocca carnosa, mossa appena in un sorriso.
Quando passai di lì, l’uomo mi guardò e mi chiese se sapessi chi fosse la donna che stava ritraendo. Mi fermai, perché il ritratto era veramente bello, nonostante fosse ancora incompiuto. Sembrava un uomo innocuo, di quelli che hanno solo voglia di fare due chiacchiere perché la bocca si è asciugata nel silenzio della sua solitudine. Gli risposi di no, che non ne avevo idea. E lui mi spiegò che era sua moglie, quando era giovane, quando era viva. Pronunciò quelle ultime due parole lentamente, quasi soffermandosi su ogni lettera, per sottolineare la sua assenza, e la mancanza di lei che gli stava devastando il cuore. Era morta di cancro trent’anni prima e da quella che poteva essere l’età dell’uomo, capii che quella donna non aveva forse nemmeno vent’anni quando l’aveva lasciato. Gli dissi che era molto bella e lui mi confermò che lo era davvero, che era di una bellezza zigana tra mistero e dogma religioso. Trovai singolare quella definizione e stavo per chiedergliene la ragione, quando mi invitò a proseguire il mio cammino, come se all’improvviso la mia presenza fosse inopportuna e gli desse fastidio, interferendo tra sé ed i suoi ricordi.
Da quel giorno, notai che mi sorrideva sempre quando passavo. Non lo vidi più disegnare. Il più delle volte era semplicemente seduto con la schiena al muro, a guardare i passanti, con uno sguardo eloquente che gli disegnava in viso ciò che pensava di loro. Non riuscii mai a cogliere la sua espressione al mio passaggio, nonostante, incuriosita, più volte mi fossi girata dopo averlo superato. Altre volte camminava avanti e indietro, perso nei suoi pensieri, borbottando qualcosa tra sé e sé, senza nemmeno notare le persone che gli giravano intorno.
La seconda volta che mi fermò era un pomeriggio di primavera. Era allegro e sorridente e ballava per strada come se sentisse davvero una musica suonargli in testa. Faceva giravolte e piccoli saltelli seguendo un ritmo che noi, fuori dalla sua mente, non riuscivamo nemmeno ad intuire. E quando mi passò accanto, si fermò, mi fece un inchino e mi chiese: “Bella signora, vuole venire a prendere un té a casa mia?”. Il mio sguardo un po’ stupito e divertito da quell’inaspettata sortita lo incitò a continuare, sicuro di non essere né invadente, né sgradito. “Mi chiamo Sartre. La mia casa è qualche metro più in là” disse, puntando il dito dalle unghie pulite e curate verso un ammasso di cartoni e coperte, che giaceva affianco al portone dove lo avevo visto disegnare. “E’ una casa piccola, s’intende, ma ben aerata e in ordine. Certo non è quella alla quale è abituata lei, ma vedrà che non la tratterò male...”.
Mi colpì quell’accenno alle mie abitudini. Forse mi conosceva meglio di chiunque altro incontrassi regolarmente lungo quel tragitto: portieri di condomini, muratori che lavoravano oramai da anni sulle impalcature di un palazzo, commercianti che passavano il tempo appena fuori dai loro negozi deserti, colleghi e dipendenti delle tante società che in centro sfrecciavano ogni giorno, ciascuno verso il proprio grigio sportello. Cosa sapeva di me? Cosa aveva letto nei miei occhi, nel mio abbigliamento, nel mio incedere a volte titubante a volte frettoloso, nel mio viso per lui trasparente? Stavo per chiederglielo, quando ancora una volta come un sapiente regista terminò la scena con una frase lapidaria: “La ringrazio, ma ho un impegno imprevisto. La inviterò un’altra volta.”. Quasi ci rimasi male per essere stata scacciata senza motivo, dopo un invito così aggraziato.
Mi chiesi se avesse avuto bisogno di un contatto, in un modo talmente istintivo da non riuscire a resistere alla voglia di sfiorare la mia vita, e poi ne avesse avuto improvvisamente vergogna, come se parlare ad altri che non a se stesso fosse un’impresa da punire severamente. Mi chiesi se, al contrario, avesse colto in me un accenno di perdizione e avesse voluto proteggermi da me stessa, impedendomi quel contatto che agli occhi dei più sarebbe sembrato sconveniente.
Da allora era come se quei brevi scambi tra di noi non ci fossero mai stati. Il pomeriggio era rintanato nella sua anima, seduto sul  marciapiede, senza riguardo per la pioggia o per il sole, la testa appoggiata al muro, gli occhi chiusi come per trattenere le immagini che la sua mente gli proiettava dall’interno. Eppure sono convinta che qualcosa vedesse attraverso le palpebre chiuse, perché spesso sorrideva non appena gli passavo affianco.
Adesso era lì, di fronte a me, sotto una coperta sfrangiata e lacera, a tremare, in una giornata in cui si sudava solo respirando. Mi accovacciai vicino a lui e lo chiamai,  “Sartre”, più volte, cercando di riportarlo ad una realtà dalla quale sentivo che si stava allontanando. Rispose per lui un altro fremito, e poi un altro ancora e non ebbi più dubbi. Le dita tremavano sul cellulare mentre componevano il 118. Sentii la mia voce agitata, mentre spiegavo all’operatore di turno le condizioni di Sartre ed il luogo dove si trovava.
Mi inginocchiai di nuovo e, sicura che sotto quelle coltri potesse sentirmi, gli dissi di resistere, che qualcuno sarebbe arrivato in poco tempo. Mi guardavo intorno e vedevo la gente che mi sfiorava incuriosita e passava oltre, con un’alterigia ed una superbia che mi facevano schifo. Volevo gridare: “E’ un uomo, esattamente come voi”, ma dubitavo che potessero comprendere quel concetto di umanità, che nasconde dietro una vita vagabonda più di un dolore dell’anima.
La sirena penetrò i miei timpani e mi tranquillizzai soltanto quando vidi le divise arancioni arrivare con solerzia. Si avvicinarono a Sartre, gli scoprirono il viso e potei guardare i suoi occhi. E lui poté guardare i miei. Solo allora capii. Capii che aveva scelto così, di salutare la vita nascosto come appariva ai più, senza disturbare i passanti che lo conoscevano, mettendo in scena uno spettacolo che non avrebbero gradito. Era ferito, probabilmente qualcuno di notte lo aveva assalito e nessuno lo aveva visto, o anche se le avevano visto, nessuno lo aveva soccorso.
Chiuse gli occhi proprio nei miei, in uno sguardo di solitudine che ancora mi perseguita quando passo da quell’angolo solitario.
Ogni volta che mi capita di passare da quell’angolo, sento ancora l’odore putrido di quella mattina, ma non è Sartre, perché Sartre non c’è più: è l’odore della gente che gli è sempre passata accanto, senza nemmeno pensare di regalargli un sorriso.

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