Come mai potrà un uomo vedere tutto questo e restare in vita?
Abbiamo chiesto così poco: che sia possibile che un uomo viva in questo mondo tutta la sua vita, dal principio alla fine, senza mai conoscere la guerra.
Un libro difficile, ma bello. Di libri così ne ho letti
pochi: “La montagna incantata” di Thomas Mann, “Il tamburo di latta” di Günter
Grass. Libri che ho assimilato poco alla volta, nell’arco di mesi, con
interruzioni volontarie anche lunghe, ma che sono restati “dentro l’anima”.
Libri che ti ricordi negli anni, non di quelli che digerisci velocemente e
finiscono nello scarico per quanto ti abbia appassionato la lettura.
E’ una storia relativa
all’Olocausto, di una “originalità stilistica e linguistica, dalle architetture
straordinarie”.
La prima parte del libro è
incentrata proprio su Momik. In parte lo è anche la seconda, che narra del
viaggio di Momik verso la Polonia alla ricerca delle origini della sua
famiglia. Lo stile è particolare: pagine intere senza punti, di difficile
lettura, che appaiono come “puro pensiero”. Nella seconda si infila il
personaggio di Bruno, anche lui scampato ai campi di concentramento, che decide
di suicidarsi, ma l’acqua del mare lo avvolge e Bruno si trasforma in salmone.
Bruno segue la risalita dei salmoni verso il fiume e pensa e prova sentimenti e
vive quella comunità cercando di capire i suoi meccanismi.
Usciti da queste due parti
“ostiche”, che tuttavia occupano almeno metà del libro, si apre il mondo
dell’Olocausto, con i due personaggi che per le due parti successive saranno
gli antagonisti: Neigel, quarantasei anni, capo del campo di concentramento e
Wasserman (nonno Anshel), polacco, deportato nel campo con sua moglie e sua
figlia.
Wasserman non riesce a morire,
nonostante i vari tentativi dei nazisti e ciò incuriosisce Neigel, che lo
chiama a colloquio nel suo ufficio. Durante il colloquio scopre che Wasserman è
l’autore di alcune storie che leggeva da giovane, le storie dei Ragazzi di
Cuore, e così lo sfida a raccontargliene una. Wasserman accetta, a patto che,
se la storia gli piacerà, Neigel lo uccida. La terza parte del libro segue in
modo lineare il filo di questa storia fantastica, intrecciando ad essa numerose
altre storie. La quarta parte, l”Enciclopedia del Nazismo”, attraverso le
definizioni di numerosi vocaboli, ne tratteggia l’evoluzione e la fine.
Ritengo che la parte più bella ed
avvincente sia il rapporto tra Neigel e Wasserman, che da semplice antagonismo
comandante-deportato si risolve in un confronto a tratti drammatico tra l’uomo Neigel e l’uomo Wasserman.
Bello. Difficilissimo leggerlo,
ma alla fine ne vale la pena.
Estratti
La stanza bianca
Della stanza bianca disse nella nostra prima notte che era «la prova
più vera attraverso cui deve passare chiunque voglia scrivere sull’Olocausto.
Come la Sfinge che lascia indovinelli. E là, in quella stanza, tu vieni di tua
spontanea volontà e ti metti di fronte alla Sfinge. Capisci?». Non capivo, naturalmente.
Lei sospirò, alzò gli occhi al cielo, e spiegò che già da quarant’anni gli
scrittori scrivono dell’Olocausto e continueranno sempre a scriverne, e in un
certo qual modo sono tutti quanti condannati al fallimento, perchè ogni altra
ferita e ogni altro malanno si può tradurre nella lingua di una realtà
conosciuta, e solo la storia dell’Olocausto non la si può tradurre, ma resterà
sempre questo bisogno di tentare ancora e di nuovo, di provarcisi, di smussare
le sue punte acute sulla carne viva dello scrivente, «e se vuoi essere sincero
con te stesso» disse con aria grave «allora sei obbligato a osare e a
cimentarti con la stanza bianca». [...] «E in quella stanza sono concentrate
tutte le essenze più forti di quei giorni [...], ma ciò che stupisce è che in
quella stanza non ci sono risposte già pronte. Nulla vi è detto. Tutto è solo
possibile. Solo alluso. Solo possibilitato ad avverarsi. O destinato. E tu sei
obbligato a passare tutto ciò di nuovo. Tutto. E a sentirlo sulla tua carne
viva. Senza intermediari e senza controfigure che eseguano le parti pericolose
a te affidate. E se non hai dato alla Sfinge la risposta giusta – sei sbranato.
O ne esci senza capire. E a mio parere è lo stesso».
Padri e figli
Una volta prima che lui nascesse le avevo detto che se ci fosse nato
un bambino, la prima cosa che avrei fatto ogni mattina sarebbe stata di andare
a dargli uno schiaffo. Così. Che sapesse che nel mondo non c’è giustizia. Che c’è
solo guerra. Le dissi questo quando avevamo appena cominciato a vederci. Quando
avevamo sedici anni. Poi erano venuti anni in cui avevo pensato che quella era
un’idea infantile e idiota, ma quando Yariv era nato avevo sentito d’un tratto
che l’idea non era poi così idiota. Ruth aveva detto: e allora verrà un giorno
in cui ti restituirà lo schiaffo, e come ti sentirai in quel momento? Avevo
risposto: mi sentirò benissimo. Sentirò che ho preparato mio figlio a vivere.
[...] E Fried rifletteva stupito che ciò che aveva sempre pensato – e cioè
che il padre desse vita al figlio – forse era fondamentalmente falso; e che
forse è il padre che ha tanto bisogno del figlio perchè solo il bambino può
liberare l’adulto dalla sua prigione e ricordargli ciò che ha dimenticato.
L’Amore
«Oggi io ben so che esistono uomini il cui gusto di vivere è insito
nel lavoro, ed esistono alcuni per cui l’arte o l’amore sono il succo stesso
della vita, la loro unica ragione di vivere. Io, a quanto parem appartengo alla
categoria degli Shleimele, dei Buonanulla, perchè la mia Sara era lei sola la
ragione di vivere, in lei sola gustavo la vita, e questo l’ho saputo solo dopo
essere arrivato qui. Ahi, io penso che la maggior parte degli uomini sappiano
ben guardarsi da simili errori. Ti auguro che tu te ne sappia guardare. In
quanto che colui che è innamorato dell’amore sempre troverà un nuovo essere da
amare. Ma io schiavo in catene mi ero fatto di un’unica e sola donna. Non ebbi
più vita dopo averla perduta, e anche non seppi mai amarla com’essa si
meritava...»
L’uomo incontra l’uomo
Generalmente parlando – pare che non sappia cosa far di me, e che la
cosa lo turbi, e molto. A momenti mi guarda in modo strano ed emette un “himpf”,
e ti giuro, Shleimele, che proprio non so cosa questo suo “himpf” voglia dire,
e solo spero che non sia un “himpf” di corruccio, Dio ne guardi, ché non ho
intenzione alcuna di corrucciarlo, imperocché lui pure era stato un infante una
volta, e avevo letto quel che aveva letto e allora nutriva per me una certa
affezione, e chissà mai da allora cosa ha passato, e come l’hanno corrotto lì
nella SS Führerschule, e certo è che uno non può divenire assassino e mantener
sempre ancora ardente in cuor suo la face della gioia, e se sono potessi sapere
come fu e come non fu che un uomo dello stampo di Neigel divenne un assassino,
forse opererei l’anima mia, pur misera ch’ella sia, per riportarlo sulla dritta
via e correggerlo, et! Pensieri da
scioperato, Anshel! Riformatore d’anime sei divenuto con la canizie? Un profeta
all’indietro, così? Ma qui dentro di me, aveva preso a rodermi un tarlo: com’era
possibile che dopo tutto quello che mi aveva fatto quell’Arciassassino Neigel,
ecco solo una breve ora me n’ero stato qui e già l’avevo scorto sotto il suo
aspetto di bambino, già avevo iniziato a pensare che in errore ero stato per
tutte quelle lune che avevo passato nel Campo, e mai mi era passato per la
mente che anche Neigel avesse diritto ad appellarsi Uomo, e che avesse forse
ancor lui una Sposa e dei Figli, e ora mi stupivo molto al cospetto di simili
riflessioni, ed era quel fatto per me quale un apologo dal senso ascoso, e lo
collocai tra le categorie da studiarsi, e a Neigel dissi che ero spiacente del
disturbo da me arrecatogli, e vidi che le mie parole gli avevano toccato il
cuore, imperocché mi fissava con occhi di uomo eccitato e commosso, e io gli
svelai ciò che nutrvo in cuore e gli dissi che anch’io provavo imbarazzo per il
fatto che colui che doveva togliermi la vita era un uomo che io, nu mah, alla fin fine: lo conoscevo un poco,
e per rafforzare i miei detti citai alcune parole di mio Padre, che Dio l’abbia
in gloria, che era un commerciante e mi aveva impartito un insegnamento
dicendomi che mai e poi mai deve l’uomo immischiare i propri sentimenti con i
propri affari, ed ecco, invece di calmarsi a tale parole, Neigel mi gettò in
faccia un grido di rimbrotto profondo e roco, e mi guardò con occhi feroci e
spalancati, occhi di mostro, davvero, come se avessi espresso, Dio liberi, una
cosa oscena che offendeva l’orecchio.»
[...] Non è facile separarsi. Ora sembrano due amici che hanno
terminato tutti i preparativi necessari a un lungo viaggio, ed esitano ancora
un poco, ispirandosi sicurezza a vicenda. Neigel va a spegnere la lampada
centrale, e ora resta soltanto la lampadina sul tavolo. In questa penombra in
cui la sua faccia è invisibile chiede a Wasserman, con una voce un po’
esitante, un po’ incerta, cosa ne pensa di questo loro esperimento, e se crede
di riuscire a raccontare una bella storia, e Wasserman confessa di essere un po’
intimorito, ma di essere anche tanto curioso di vedere come andrà a finire. In
cuor suo ringrazia Neigel per aver fatto risorgere in lui il desiderio di
creare, «e per un momento mi aveva restituito i miei più ascosi e ardenti
desideri.»
Neigel apre, con la chiave, la porta che serve da divisorio tra le due
ali della baracca. Quasi senza guardare l’ebreo chiede all’improvviso perchè
mai Wasserman non aveva scritto più nulla in tutti quegli anni, dopo I Ragazzi
di Cuore. Wasserman gli risponde, e Neigel: «Non sapevo che un talento potesse
esaurirsi. Molto interessante... E... volevo chiedere soltanto... come ci si
sente senza scrivere?» [...] «Neppure al peggior nemico lo avrei augurato! Ché
si diviene come un morto – Dio ne scampi – vivente, si diviene la propria
lapide, la propria tomba.»
[...] Con uno scoppio di collera, Neigel: «Dammi una storia semplice,
Wasserman! Dammi qualcosa che venga dritto dritto dalla vita! Dalla mia vita! Qualcosa
che perfino un uomo come me che non ha fatto l’università, la possa capire,
sentire! E non ammazzarmi nessuno!». E a ciò Wasserman: «Con qual diritto mi
chiede una simil cosa, Herr Neigel?»
[...] «Vorrei dirti una cosa. Non solo riguardo alla tua storia, ma
anche riguardo a questo esperimento.» Torna a camminare su e giù per la stanza,
a parlare dentro il suo pugno chiuso. Si potrebbe pensare che deve costringere
le parole a uscirgli di bocca. «Sai» dice alla fine, «ho pensato un po’ a tutto
questo, ultimamente. A te e a me ho pensato, voglio dire. E’ una cosa nuova per
me, questa che mi è successa, e mi piace sempre capire quello che mi succede.
[...] Tu mi dispezzi» dice, voltando le spalle a Wasserman. «Così stanno le
cose: tu sei uno scrittore, mentre io sono, ai tuoi occhi, un assassino. Non
non parlare ora! Naturalmente nel vecchio mondo in cui hai vissuto, un uomo
come me lo chiamavano assassino. Ma già da diversi anni il mondo è cambiato.
Forse non te ne sei accorto, Wasserman. Il mondo vecchio è morto. Il vecchio
uomo è morto con lui. Io vivo già nel mondo nuovo. Nel futuro che mi assicurano
il Führer e il Reich. Sì, Sheherazadah [...] le cose che abbiamo preso l’impegno
di eseguire per il Reich vengono eseguite in forza di ragioni che tu non potrai
mai capire. Tu e la tua morale ebreina, e i tuoi concetti di giustizia. Non so
spiegarmi tanto bene, su questa roba. Per questo ci sono i filosofi e i
professori, che facciano lavorare il cervello. A me mi pagano per mettere in
pratica le loro idee. E il mio compito mi piace. Quando si studiava l’ideologia
del Partito, alla Scuola Allievi Ufficiali, a Braunschweig, ho ottenuto dal
Reichsführer stesso un congedo perchè potessi, invece di studiare, preparare
gli esercizi dei cavalleggeri per la parata della cerminonia di consegna dei
diplomi. Sono più ferrato in fatto di cavalli, capisci. Però qualcosa m’è
entrato nonostante tutto in zucca, e so che tu e io apparteniamo a due generi
completamente diversi di esseri viventi. Voi non esisterete più fra due o tre
anni, quando avremo completato l’esecuzione del nostro programma. Noi resteremo
qui. Come sono sempre restati i più forti e loro hanno fissato le regole. [...]
Queste sono la nostra terra e la nostra aria e le nostre idee sulla giustizia e
su quello che tu chiami la morale. Mille anni resteremo qui, e questo è solo il
principio. Se verrà qualcuno che nutre altre idee sulle cose, lo combatteremo.
E se lui ci vincerà, sarà perchè avrà più ragione di noi. E’ così. E in questa
guerra voi siete dalla parte del perdente. Noi siamo i vincitori. Così ci
chiameranno nei libri di storia su cui mio figlio studierà: i vincitori.»
Wasserman non può più trattenersi. [...] Salta su dalla sedia con la
barba irta. E’ abbastanza ridicolo, devo notarlo. Secondo quello che dice (un
po’ confusamente) si deve dedurre che Neigel sia in errore, “in grande errore”.
Prima di tutto non è mai esistito un uomo vecchio, nè mai si potrà parlare di un
“uomo nuovo”. “L’uomo è sempre un uomo, solo i suoi Magi si permutano”. Secondo
lui, Neigel e lui stesso si trovano dalla stessa parte, la parte degli
sconfitti, però mentre Neigel e i suoi compagni “sono pronti a vendersi per la
zuppa di lenticchie di quest’illusione caduca, l’illusione della vittoria
riportata su chi è più debole di loro”, Wasserman sa già da tempo [...] che
alla resa dei conti – e non si cura di precisare chi è che tiene il conto – si trova
scritto che anche lui e anche Neigel appartengono ai vinti.
«Qui e in questo posto è lei che è sconfitto a ogni momento. E’
tremendo, Herr Neigel, il fatto che lei faccia divenire anche me più disperato
di quanto lo fossi mai stato in vita mia. Sì, e forse lei sa già da sé che l’apparato
dell’animo è un apparato maraviglioso, e include diversi processi e movimenti –
moti d’animo che l’uomo può effettuare solo in un senso, proprio così. [...] La
crudeltà, la ferocia, per esempio. Se uno ha insegnato a se stesso la crudeltà
e la ferocia, mi pare logica che gli sarà ben difficile svezzarsi da esse.
Proprio come se ha imparato una volta a nuotare nel fiume, mai più dimenticherà
questa tale dottrina, così mi hanno detto coloro che sono scesi al fiume, e per
quanto riguarda la crudeltà, la ferocia o la malvagità, o il non avere fiducia
nell’uomo, nu, l’uomo non può essere
a volte crudele e feroce e a volte no, o essere malvagio solo per un terzo, e
non aver fiducia nell’uomo solo per un quarto, come se la malvagità fosse un
oggetto che uno porta sempre con sé e volendolo lo trae di tasca e lo usa, e
volendolo lo ripone in tasca e pace all’anima sua. E ben sicuro io sono che
anche lei stesso l’ha già esperimentato che la crudeltà e il sospetto e la
scelleratezza affettano tutta una vita. Se abbiamo aperto loro uno spiraglio,
va a finire che essi si espandono come una muffa e coprono l’anima tutta. [...]
La pietà, Herr Neigel. E l’amore per l’uomo, e quello stupido talento dell’aver
fiducia nell’uomo. Aver fiducia nonostante tutto, nonostante tutto ancora
credere. Da tutto ciò ci si può liberare con una facilità grande, preoccupante.
E l’operazione è quasi indolore.»«E per riacquistare quei moti?» chiede Neigel,
e ora guarda Wasserman proprio negli occhi. «Spero si possa» risponde Wasserman
a lui e a se stesso, o a me stesso, e dice queste incomprensibili parole: «Questa
è la mia vocazione, Shleimele, ed è per questo che metto in scena qui tutta
questa commedia.»
[...] Neigel [...] non si dà
per vinto: «Abbiamo giurato di amare il Führer e il Reich e la famiglia.
Secondo questo ordine decrescente. Questi tre amori ci danno la forza di fare
tutto ciò che ci hanno ordinato di fare. [...] Anche da noi, certo, ci sono
stati dei casi di defezione. Non è un segreto. Io stesso ho conosciuto un
nostro eccellente ufficiale che si è suicidato, perchè tutt’a un tratto gli
venivano degli incubi, sognava che avrebbe potuto uccidere sua moglie e le sue
bambine, figurati. Ma in ogni guerra ci sono dei disertori e dei paurosi e dei
traditori. [...] Le cose non sono così semplici come sembrano qui nel Campo.
Perchè quando si uccidono mamme e bambini bisogna temprare, come il dice il
Reichsführer. Temprare l’anima, cioè. Rafforzarla. Prendere decisioni. E che
nessun altro lo sappia, all’infuori di te. E questa è una guerra silenziosa, e
ognuno di noi vi partecipa. Va bene, ci sono naturalmente anche tipi diversi.
Stauke, per esempio. Lui ne gode, ne ha
un godimento morboso. Ce n’è, di tipi così. Ma un vero ufficiale SS non deve
mai derivare godimento dal proprio lavoro. Lo sai che Himmler stesso viene a
osservarci mentre eseguiamo le selezioni, per vedere se permettiamo all’espressione,
di un qualunque sentimento, di apparirci in faccia? Non lo sapevi? E’ così. Una
guerra segreta, come ti dicevo. E in questa guerra vince chi riesce a passare
tra goccia e goccia senza bagnarsi... chi comprende che il Movimento impone
sacrifici. Perchè qui combattiamo in prima linea la lotta tra due tipi di
umanità... e siamo esposti al pericolo, e per poter riuscire a restare sempre
un buon ufficiale è necessario, a volte, come ti dicevo, prendere delle
decisioni, bisogna per esempio, decidere di mandare in vacanza provvisoriamente
una parte di questa... della macchina, cioè come dirti...» e si pianta in
petto, accanto al cuore, due dita: «...sospendere per un certo periodo, fino a
che non finisca la guerra... epoi rimettere tutto al suo posto e goderci il
nostro nuovo Reich... e ti voglio dire qualcosa che nessuno sa, a te lo posso
raccontare, perchè con te è diverso, ma questo però non c’entra per nulla.»
Wasserman sospira e si asciuga con tutt’e due le mani gli occhi
lacrimanti e stanchi. Con una vocina debole e molto affaticata prende a
rispondere a Neigel. Secondo lui, pezzi che si possono togliere e rimettere a
posto più tardi ci sono solo nelle macchine. Mentre invece «l’essere umano,
Herr Neigel, e l’anima, e il corpo, e il cervello e il cuore, ahi, quelli non
sono una macchina, a meno che uno non sia riuscito a toglier da essi una certa
parte e a farli diventare una macchina. Ma che ci sia riuscito lui stesso, con
le proprie mani. E riparare ciò che fu distorto, ben difficile è. In quanto che
per riparare è necessaria un’anima o un essere animato, che amino quell’essere
da riparare». Ma tra le macchine, dice poi, non può sussistere l’amore. E chi
si è fatto macchina comincerà ben presto a constatare che tutti attorno a lui,
sono fatti come lui, e quelli che sono diversi da lui non li vedrà nemmeno. O
se ne vorrà liberare. [...] «Gli utensili di cui siamo armati, le nostre
casseruole e pentole e scodelle, sono sempre gli stessi per tutti, ma il mondo
vi mesce dentro tanti manicaretti diversi, e dunque certo lei mi dirà: macchine
e automi; però abbiamo in noi anche un pizzico di qualcosa, non so come
denominarlo, ed è lo sforzo. Proprio così; lo sforzo che facciamo per
avvicinarci proprio a quella certa donna, o a quel certo bambino. La scintilla
passeggera che palpita fra noi due, anche noi passeggeri, e che mai palpiterà
uguale, proprio così uguale tra due altri, ahi, quel continuo nostro uscire da
noi stessi verso l’altro. E la chiamerò “scelta”. In così rari casi ci è dato
fare una scelta, e proprio per questo non dobbiamo riunziare al diritto di
scelta».
[...] Secondo Wasserman era dovere di ogni essere umano rinnovare la
validità morale delle proprie decisioni, nonchè la loro validità riguardo a se
stesso, ogni volta che egli si trova obbligato a mettere in pratica ciò che
deve essere dedotto da tali decisioni. Per dirla con le parole di Wasserman: «Ché
non esiste decisione alcuna, Herr Neigel, la cui validità sia eterna, ma se lei
è un uomo d’onore, come ciò che lei ha detto finora testimonia, allora di trova
obbligato a prendere di nuovo quella sua decisione ogni giorno che Dio mette in
terra, sempre di nuovo e dapprincipio, e ogni volta che lei sopprime qualche
essere umano nel suo Campo, sì proprio così Vossignoria, ogni volta deve
nuovamente formulare quella decsione con parole nuove e fresche, e porgere
orecchio e sentire se davvero in quelle parole nuove palpiti il suo primitivo
volere, la sua stessa voce, la vera espressione di lei medesimo. [...] Ogni
giorno che Dio mette in terra, Herr Neigel. E ogni volta che sparerà un colpo
di pistola per uccidere un uomo. E venticinque volte se si troverà a dover
uccidere venticinque prigionieri. Una decisione e poi un’altra decisione e poi
un’altra e un’altra. Ce la farà a sostenerle? Ce la farà a prometterselo e a
mantenere la promessa, Herr Neigel?». E il tedesco: « Non riesco a capire perchè
tu monti così la cosa. Te l’ho già detto. Rafforzerà maggiormente in me la fede
nel Reich e nel compito che mi è stato affidato.»
[...] «Herr Neigel! Da sé ben comprende che fare la scelta che intendo
io significa scegliere i più eccelsi valori dell’uomo. Quelli che sono solo e
soltanto valori umani, umanistici. In quanto che con ciò tu, per così dire, ti
ricrei di nuovo dall’inizio e ti salvi.» Neigel, con un sorriso ostinato: «E io
ho scelto l’altra via. Ho scelto di uccidere. L’ho deciso! Come puoi dire che
questa non è una scelta? Lo sai quanto è grande lo sforzo richiesto per
decidere una cosa così?». Wasserman: «Ahi... Non si sceglie di cominciare ad
assassinare, Herr Neigel. Si continua solo a farlo... e lo stesso vale per
quanto riguarda il cominciare a odiare il proprio prossimo, a fargli male... si
continua soltanto. Invece si deve decidere e scegliere, coscientemente, di non
assassinare... di non odiare... questa è la radice della diversità, io penso...»
[...] Una sola volta Wasserman aveva confessato di avere “un bisogno
spirituale di frottole”. Questo avvenne dopo che Neigel gli ebbe raccontato, su
richiesta di Wasserman stesso, come aveva ucciso un uomo per la prima volta in
vita sua. [...] Chiese a Neigel di continuare a raccontargli degli altri casi
in cui aveva ucciso, e di cosa aveva provato. [...] Neigel si adirò molto e
dichiarò che: (1) quando aveva ucciso, non aveva fatto che obbedire a un ordine
ricevuto; (2) non aveva mai ammazzato nessuno per puro gusto, ma nemmeno con
schifo; (3) non riusciva a capire perchè Wasserman avesse bisogno di tutto quel
Quatsch mit Sosse, di tutte quelle stupidaggini al sugo. [...] «No, Herr
Neigel. Non per la Letteratura! Ma per me. E per la mia consorte e per mia
figlia. E poi, sulla mia stessa carne l’ho provato! Proprio così, un certo
egoismo, con rispetto parlando. Per cui devo assolutamente credere che lei non
ci ha ammazzati così, tanto per fare, e senza farci caso, come si estrae, fatte
le debite differenze, un chiodo dal muro. Imperocché l’anima si raccapriccia, Vossignoria,
ribolle e si sente offesa l’anima! E tutta la mia misera vita singhiozza a me
in fronte, tutto il poco che sono riuscito a elemosinare nei brutti giorni
della mia vita, tutti i timori che ho provato, e i miei complessi e le mie
sciocche passioni, e il poco d’amore che ho avuto, e anche, Vossignoria mi
scusi, i talenti e le virtù che mi si sono appiccicate a sé, in breve: tutta
questa brutta caricatura che ha nome Anshel Wasserman, che forse è una gran
fortuna che non ce ne sia un’altra pari sua a imbruttire e a offendere la
faccia della terra, però, nonostante tutto, è ciò che posseggo... l’unica cosa
ch’io possegga, e lei, l’anima vale a dire, non può sopportare il pensiero che
ci si possa liberare di lei con un sol cenno di mano, liberarsene ci si possa
con tanta indifferenza, e nemmeno i nostri nomi non ci avete chiesto prima di
massacrarci, e dunque, deh, mi permetta Vossignoria un piccolo rimorso, o un
morsetto di coscienza, mi permetta di attribuirle un unico pensiero pietoso, in
quanto che ho tanto bisogno di questa piccola frottola, e poi, faccia pure ciò
che desidera.» Neigel: «Fa’ ciò che ti par meglio, Wasserman. Ma non aspettarti
che la cosa mi tocchi nemmeno un po’...».
[...] I particolari di quanto era avvenuto durante quella disgraziata
licenza Wasserman venne a conoscerli solo due giorni dopo. [...] «Mi ha
lasciato. Per sempre. [...] No. Non per un altro uomo. Per colpa mia. Ma se te
l’ho già detto. Per colpa di quello che sono stato.» E all’improvviso si spezza
la maschera dura, la faccia dell’ufficiale si contorce dal dolore, di contrae
dalla troppa delusione. [...] «Lei di me non sa nulla, nulla di quello che era
successo durante la Prima Guerra, e poi di quando ero nel Movimento Giovanile,
e anche di qui, sì, perchè io non sono uscito dall’Inferno, no, ci sono
dentro-dentro, con tutto il suo puzzo del fumo e del gas e con Stauke che mi
sta addosso già da tanto tempo, e gli ucraini idioti, e i treni che vanno e
vengono senza posa, ora anche di notte, e qui non si può più chiudere occhio
dal rumore, e io già non so più se dirigo questo Campo o se vi sono
prigionierom na quando lei mi parla attraverso le lacrime allora io dimentico
tutto, dimentico il mio lavoro e il Reich, e mi calmo, così, dentro di me si fa
calma, e voglio credere che io la mia guerra l’ho già conclusa, e che davvero è
possibile che tutto venga cancellato e tutto cominci a essere buono. [...] E
custodimmo con cura quell’attimo, e poi lei si raddrizzò e si mise a sedere
rigida sul letto, e vide la mia faccia e si spaventò, e si mise una mano sulla
bocca, e con una voce piena di disperazione, una vocina debole come di bambina
piccola, mi chiese, hai davvero intenzione di smetterla con tutto quello, Kurt,
vero? Tutto quello è già finito lì per noi due, vero? Sei tornato, Kurt, sei
tornato? E io sentìì come d’un tratto tutto prorompeva da me, tutta la guerra e
tutto il lavoro che facevo, e tutta quella confusione nuova che era venuta
creandosi dentro di me negli ultimi tempi, e soprattutto – soprattutto la
paura, sì, la paura di merda, la paura di quello che Tina voleva da me, di
quello che osava chiedermi, ma cosa le era saltato in mente, ma cosa ci capiva
poi lei, ma cosa avevo io a questo mondo se non il Lavoro e il Movimento, e cosa
valevo a questo mjondo se... cosa sarei diventato se avessi lasciato il compito
che mi era stato affidato qui... sarebbe stata per me una condanna a morte!
[...] La delusione che lei provava verso di me e il disprezzo che cominciava a
riempirle gli occhi, e ho visto rosso, e il sangue mi è andato alla testa, e
non so cosa è successo [...] Solo tu e la tua storia mi siete restati, che
catastrofe.»
[...] Tutta la vita non è che
godere qualcosa che non ci spetta, velocemente e di soppiatto, ma poi alla fine
siamo tutti ricondotti, necessariamente, nei limiti del dominio di una forza
ignota, severa, decisa, che ci rimerita come ci spetta, senza compassione e
senza simpatia.
L’Olocausto
[...] «l’illusione ci avete tolto... l’illusione che esista un
inferno... anche per questo è necessaria un’illusione, e un pizzico di
non-conoscenza e di segreto, di mistero... ché solo così può la speranza
mantenersi in vita, quella misera speranziella che forse dopo tutto le cose non
sono poi così brutte... e sempre ci figuravamo l’Inferno, lo sa? con la lava
bollente in grandi caldaie, ma poi siete venuti voi, con permesso parlando, e
ci avete fatto vedere quanto povera era la nostra immaginazione».
[...] «Se era possibile fare di queste cose a esseri umani creati a
immagine divina, allora era segno che al mondo non c’era più nulla nel cui nome
valesse la pena di ribellarsi. E’ la risposta giusta, questa, Signore che stai
nei Cieli? Che i tuoi uomini ti hanno tradito a tal punto, che l’unica
punizione che siano degni di ricevere dalla mia poverella mano consiste in
questo: che io non muova più nemmeno il dito mignolo per ottenere il cosiddetto
privilegio di chiamarmi “uomo”? [...] Non esseri umani sono coloro che vanno
qui alla morte, no, sono solo ciò che resta dell’essere umano dopo che l’hanno
offeso così, dopo che gli hanno tolto se stesso e gli hanno lasciato solo lo
scheletro metallico, l’armatura interna del carattere umano, ruote dentate
prive d’anima, comuni a tutti, a tutti gli esseri viventi... solo questo
potevamo presentare, allora, come una specie di atto di protesta ironica e
misera, a quelli che ci uccidevano, proprio così, era solo il riflesso, solo la
crudele immagine di loro stessi riflessa in uno specchio, in quanto non degli
ebrei erano coloro che andavano qui a morire, ma degli specchi viventi, che
rappresentavano in una processione malinconica e infinita, l’immagine del mondo
che li produceva... e così, morendo, condannavano quel mondo, così nella loro
morte, ahi, la nostra morte in massa, la nostra morte senza senso, e sarà lei,
questa morte, che si rifletterà da ora in poi nell’arido deserto della vostra
vita.»
Il sogno di Bruno
«Tutti noi non siamo che statue di pietra, chiusi in trappola dal
momento della nascita al momento della morte, e non abbiamo speranza alcuna di
salvarci dalla roccia nella quale un bravo scultore ha appena tracciato le
linee del nostro essere, ma quello scultore era bravo ma non geniale, geniale
ma non pietoso. E il Messia, Shlomoh, è lui che ci libera, ci fa uscire dalla
trappola di pietra, ci soffia in aria come coriandoli senza peso che vagano
nello spazio della piazza, e qui ci creeremo una vita nuova a ogni istante,
scriveremo interi poetmi epici nel fugace incontro di due di noi, perchè già
sai come me che tutte le altre strade
portano all’insuccesso, alla sconfitta e alla prigione, alla vecchia cultura
malata di elefantiasi...»
«Dimmi, ti prego [...], in base a cosa credi che quei coriandoli
isolati sospesi in aria vorranno poi stringere legami fra loro, conversare e
creare e cosa impedirà loro di cadere giù così, sulle pietre del selciato della
piazza, o di continuare a volteggiare sospesi in aria senza coscienza alcuna?
Dimmelo, Bruno!» [...] «Sono tutti esseri umani
perciò – creatori. Sono condannati ad esserlo. Sono obbligati a esserlo,
per loro stessa natura – obbligati a creare la propria vita, il proprio amore e
il proprio odio e la propria libertà e il proprio canto; siamo tutti artisti,
Bruno, e solo alcuni di noi l’hanno dimenticato, e altri preferiscono ignorarlo
per una strana paura di cui non riesco a comprendere il motivo, e c’è qualcuno
che se ne rende conto solo al momento della morte, e c’è qualcuno [...] che non
lo comprende nemmeno allora...»
«E noi? I poeti? I pittori? I musicisti e gli scrittori?»
«Ah, caro Shlomoh, in confronto all’arte vera e naturale, la
letteratura e la musica non sono che mestieri, non sono che un lavoro
provvisorio di copisti, un artigianato di interpretazione superficiale, per non
dire poi chiaramente: un misero plagio, un plagio privo di fantasia e di
talento creativo... [...] chi uccide un uomo produce in tal modo la fine di un’arte
tutta peculiare, individuale, idiosincratica, che mai più sarà possibile
restaurare... un’intera mitologia, un’epoca geniale infinita... [...] In questo
mondo nuovo, Shlomoh, anche la morte apparterrà esclusivamente all’uomo. E
quando un uomo vorrà morire, dovrà solo sussurrare a se stesso la sua parola d’ordine
intracorporea, la parola d’ordine che ha il potere di scompoprre in un istante
il codice genetico della sua unica esistenza, il segreto dell’autentica essenza
dell’individuo, e non ci sarà più una morte in massa, Shlomoh, come non ci sarà
più una morte in massa.»
L’urlo
Dal momento in cui Bruno aveva visto il quadro Il grido nella galleria “Artus Hop”, aveva capito cos’era successo
là sulla tela: la mano del pittore era scivolata. Munch non avrebbe mai osato
progettare di creare una tale completezza. Avrebbe potuto solo indovinarla.
Averne paura o esserne attratto. Non crearla, però, intenzionalmente. Bruno,
che dipingeva e scriveva lui stesso, lo sapeva bene, purtroppo: e infatti
anelava da sempre di arrivare a un giorno in cui – l’espressione è sua – il
mondo avrebbe cambiato pelle, sarebbe sgusciato fuori dalle sue squame come una
meravigliosa lucertola. “La superba epoca geniale”, così Bruno chiamava quel
giorno avvenire. E fino ad allora, avvertiva, fino ad allora non dobbiamo mai
dimenticare che le parole con cui scriviamo non sono che miseri brani di storie
antichissime ed eterne; che noi tutti costruiamo case – a somiglianza di
barbari – con pezzi di statue ed effigi di antichi dei, con briciole di immense
mitologie. E, naturalmente ci si chiede, si è mai verificato un avvento
dell’epoca superba e geniale? E a questa domanda è difficile rispondere. Anche
Bruno esita. Perchè ci sono cose che non possono avvenire del tutto, fino in fondo. Sono troppo grandi
per poter trovare un luogo dove avvenire. E solo provano ad avvenire, provano
il terreno della realtà per vedere se le può sopportare. E subito arretrano,
timorose di perdere la propria completezza in un realizzarsi incompleto. E poi
restano le nostre biografie, quelle macchie bianche, segni odorosi, quelle
impronte d’argento perdute dei piedi scalzi degli angeli, sparse in passi
giganteschi sui nostri giorni e sulle nostre notti...
Quest’urlo arriverà molto lontano! [...] Ma perchè? [...] Forse perchè
tra mille o duemila anni lo senta qualcuno, da qualche parte, in uno dei mondi
lontani, in una delle galassie sperdute dell’universo, lo senta e presti
finalmente attenzione a quello che succede qui, da noi, perchè forse ci hanno
dimenticato... ci hanno trascurato un poco...
[...] Come mai potrà
un uomo vedere tutto questo e restare in vita? [...] Abbiamo chiesto così poco:
che sia possibile che un uomo viva in questo mondo tutta la sua vita, dal
principio alla fine, senza mai conoscere la guerra.
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