«Non siamo personaggi, ma siamo storie. Ci fermiamo
all’idea di essere un personaggio impegnato in chissà quale avventura, anche
semplicissima, ma quel che dovremmo capire è che noi siamo tutta la storia, non
solo quel personaggio. Siamo il bosco dove cammina, il cattivo che lo frega, il
casino che c’è attorno, tutta la gente che passa, il colore delle cose, i
rumori. Tutti siamo qualche pagina di un libro, ma di un libro che nessuno ha
mai scritto e che invece cerchiamo negli scaffali della nostra mente. Mi disse
che quello che cercava di fare era scrivere quel libro per la gente che andava
da lui. Le pagine giuste. Era sicuro di poterci riuscire. »
Mr Gwyn è uno scrittore il cui «talento nel raccontare
era d’altronde indubbio, e in particolare sconcertava la facilità con cui
sapeva calarsi nella testa delle persone e ricostruire i loro sentimenti.
Sembrava conoscere le parole che ognuno avrebbe detto, e pensare in anticipo i
pensieri di ciascuno.»
Ad un certo punto della
sua vita, egli vuole smettere di scrivere, perchè si accorge che non gli
importa più di nulla e tutto lo ferisce a morte.
«Quel che gli accadde tuttavia, fu di ritrovarsi
addosso, col passare dei giorni, una singolare forma di disagio che all’inizio
fece fatica a comprendere e che solo dopo un po’ imparò a riconoscere: per
quanto fosse seccante ammetterlo, gli mancava il gesto dello scrivere, e la
quotidiana cura con cui mettere in ordine pensieri nella forma rettilinea di
una frase. [...] Prese a scrivere mentalmente, mentre camminava, o sdraiato nel
letto, la luce spenta, aspettando il sonno. Sceglieva le parole, costruiva
frasi. Poteva succedergli di proseguire giorni dietro a un’idea, arrivando a
scriversi in testa intere pagine, che poi gli piaceva ripetere a voce alta.
[...] Alla fine, l’unica cosa chiara che gli venne in mente fu una parola: copista. Gli sarebbe piaciuto fare il copista. Non era un
mestiere vero, se ne rendeva conto, ma c’era un riverbero in quella parola che
lo convinceva, e gli faceva credere di cercare qualcosa di preciso. C’era una
segretezza, nel gesto, e una pazienza di modi – un impasto di modestia e
solennità. Non avrebbe voluto fare altro che quello: il copista. Era sicuro di
poterlo fare benissimo. Cercando di immaginare cosa mai, nel mondo reale,
potesse corrispondere alla parola copista, Jasper Gwyn si fece scivolare
addosso un sacco di giorni, uno dopo l’altro, in modo apparentemente indolore.
Quasi non se ne accorse.»
Un giorno in uno studio medico, una vecchina, la signora con il foulard impermeabile, lo aiuta a dar forma alla sua idea: «Veda se trova qualcosa tipo copiare la gente». Ma è solo in una galleria d’arte, di fronte ad un catalogo che illustrava i momenti di composizione di un ritratto, che Jasper Gwyn intuisce ciò che desidera fare: scrivere un ritratto. Un ritratto che, come quelli pittorici, sappia «riportare a casa qualcuno». Così si ingegna a trovare un appartamento, a commissionare la scrittura di una musica che lo accompagnasse per giorni in quel suo lavoro, creando la giusta atmosfera, a comprare un mobilio essenziale. La sua preoccupazione principale era la luce, una luce «infantile» formata da diciotto lampadine commissionate ad un artigiano di Camden Town, destinate ad illuminare la scena ininterrottamente per trentadue giorni e a spegnersi in modo imprevedibile, l’una dopo l’altra, dettando i tempi per lo studio del modello da parte di Gwyn.[1]
Come primo modello,
sceglie Rebecca, la segretaria del suo amico ed editore Tom. La incontra, le
spiega che cosa si aspetta da lei:
«Ho preso uno studio, dietro a Marylebone High
Street, un enorme stanzone, tranquillo. Ci ho messo un letto, due poltrone,
poco altro. Legno per terra, muri vecchi, un bel posto. Quel che vorrei è che
lei venisse lì, quattro ore al giorno per una trentina di giorni, dalle quattro
di pomeriggio alle otto di sera. Senza mai saltare un giorno, neanche la
domenica. Vorrei che arrivasse puntuale e che, qualsiasi cosa accada, rimanesse
lì per quattro ore a posare, che per me significa semplicemente farsi guardare.
Non dovrà rimanere in una posizione scelta da me, ma solo stare in quella
stanza, dove più le piace, camminando o stando sdraiata, sedendosi dove le
pare. Non dovrà rispondere a delle domande o parlare e nemmeno le chiederò mai
di fare qualcosa di particolare. [...] Vorrei che lei posasse nuda, perchè
penso che sia una condizione inevitabile alla nascita del ritratto.« [...]«Istintivamente
era sembrato a Jasper Gwyn che la nudità del modello fosse una condizione imprescindibile.
La immaginava come una specie di frustata necessaria. Avrebbe spostato tutto al
di là di un certo confine, e senza quella scomoda dislocazione sentiva che non
si sarebbe aperto nessun campo aperto, nessuna prospettiva infinita.»
Rebecca accetta e così,
giorno dopo giorno, si presenta puntuale allo studio di Jasper Gwyn e inizia a
posare, inizialmente con un certo imbarazzo destinato poi a sciogliersi con il
tempo, finchè riesce a mostrare il proprio ritratto. «Rebecca pensò
quanta strada può accadere di fare, e come misteriose siano le rotte dell’esperienza
se possono portarti seduta su una sedia, nuda, a farti guardare da un uomo che
da lontano ha trascinato la sua follia fino a lì, riordinandola fino a farne un
rifugio per lui e per te.» Scaduto il tempo reso
disponibile dalla luce delle diciotto lampadine, Rebecca è libera e Jasper
Gwyn, dopo cinque giorni, le consegna una cartelletta con gli elastici, nella
quale c’era scritto il ritratto della donna,
confezionato con cura dopo aver scelto fogli quadrati di carta vergata
piuttosto pesante, inchiostro blu, impaginazione ariosa, font simile a quello
delle macchine da scrivere. E quando l’ebbe letto, Rebecca «aveva gli
occhi lucidi».
Jasper Gwyn così
intraprende con coraggio il suo nuovo mestiere, assumendo Rebecca come
segretaria. All’undicesimo ritratto, quello di una ragazzina dalla bellezza «estremamente
pericolosa», il meccanismo si inceppa: dopo aver consegnato a Rebecca l’ultimo
ritratto da consegnare al committente, Jasper Gywn la informa che avrebbe
chiuso l’attività per molto tempo e scompare dalla scena. «Dove se ne
fosse andato Jasper Gwyn non le era concesso evidentemente saperlo. Lontano –
questo lo sentiva con assoluta certezza. Era tutto finito, e neppure con quella
solennità a cui sempre avrebbe diritto il tramonto delle cose.»
Rebecca cerca di rifarsi
una vita e un giorno, inaspettatamente, scopre che un libro che Jasper Gwyn le
aveva regalato prima di scomparire definitivamente, è molto più di quello che
le era inizialmente sembrato. Si mette alla ricerca dello scrittore, e finalmente
lo ritrova tratteggiato tra le pagine di un piccolo e misterioso libro di due
protagonisti che dialogano tra loro, sempre loro, in un modo «paradossale e
sorprendente».
Sprazzi di luce e ombre nel buio
Ci aveva messo anni ad accettare che il mestiere di scrivere gli era diventato impossibile e adesso si trovava costretto a registrare come senza quel mestiere non gli fosse affatto facile tirare avanti. Così finì per capire che si trovava in una situazione nota a molti umani, ma non per questo meno dolorosa: ciò che solo, li fa sentire vivi, è qualcosa che però, lentamente, è destinato ad ammazzarli. I figli per i genitori, il successo per gli artisti, le montagne troppo alte per gli alpinisti. Scrivere libri, per Jasper Gwyn.
Le risoluzioni definitive
si prendono sempre e soltanto per uno stato d’animo che non è destinato a
durare.
Se devo dimenticarti mi
ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono
ricordato.
Morire è solo un modo
particolarmente esatto di invecchiare.
Quella ragazza era perfetta. Aveva in mente come la bellezza irrimediabile del suo
viso suggerisse un desiderio che poi il suo corpo smentiva, con fare placido e
lento, perfetto. Era veleno e antidoto – lo era in modo dolce e enigmatico.
Jasper Gwyn non l’aveva incontrata una volta senza sentire l’infantile
desiderio di toccarla, appena: ma come avrebbe potuto desiderare di posare le
dita su un insetto lucente, o su un vetro coperto di vapore. Inoltre la
conosceva, ma non la conosceva, sembrava essere alla giusta distanza, in quella
zona intermedia dove qualsiasi intimità ulteriore sarebbe stata una conquista
lenta ma non impossibile. Sapeva che avrebbe potuto guardarla a lungo, senza
soggezione, senza desiderio, e senza annoiarsi mai.
Era forse il settimo o
ottavo giorno, quando la vide d’un tratto composta in una bellezza
sorprendente, senza incrinature. Durò un attimo, come se lei sapesse benissimo
dove si era spinta, e non avesse intenzione di restarci. [...] Se Jasper Gwyn
avesse dovuto dire quando iniziò a pensare che c’era una soluzione,
probabilmente avrebbe citato un giorno in cui lei si era infilata, a un certo
punto, la camicia, e non era un modo di tornare indietro su qualche sua
decisione, ma di andare avanti oltre quello che aveva deciso. La tenne un po’
addosso, sbottonata davanti – giocava con i polsini. Allora qualcosa in lei si
spostò, in un modo che si sarebbe potuto definire laterale, e Jasper Gwyn sentì, per la prima volta, che Rebecca gli stava
lasciando intravedere il proprio ritratto.
Non l’avrebbe potuto
immaginare prima, ma proprio la cosa più assurda – che quell’uomo la fissasse –
era divenuta la cosa di cui aveva bisogno, e senza la quale non ritrovava nulla
di se stessa. Con sorpresa capì che si accorgeva di essere nuda solo quando era
sola, o lui non la guardava. Invece le era naturale quando lui la fissava, e si
sentiva vestita, allora, e compiuta, come un lavoro ben fatto.
Nelle chiazze di buio ogni
tanto lei passava, camminando, come a provare una sparizione. Jasper Gwyn
allora la guardava, aspettandosi qualcosa dall’ombra. Poi tornava nei suoi
pensieri. Sembrava lieto, tranquillo, tra i resti delle sue cene, il viso non rasato,
i capelli scompigliati dalle notti per terra. Rebecca lo guardava e pensava che
era irrimediabilmente delizioso.
Una simile intensità
Rebecca non l’aveva mai conosciuta. Pensò che in quel momento qualsiasi gesto
sarebbe stato inadatto, ma capì che era anche vero il contrario, e che era
impossibile, in quel momento, fare un gesto che fosse sbagliato.
Jasper Gwyn si chiese se l’avrebbe
mai più rivista, e decise che sì, da qualche parte, ma fra molti anni, in un’altra
solitudine.
Come accade spesso, ci
misero un po’ a ricordarsi che quando muore qualcuno, agli altri spetta di
vivere anche per lui – altro non c’è, di adatto.
Di cosa
siamo capaci, pensò. Crescere, amare, fare figli, invecchiare – e tutto questo
mentre anche siamo altrove, nel tempo lungo di una risposta non arrivata, o di
un gesto non finito. Quanti sentieri, e a che passo differente li risaliamo, in
quello che sembra un unico viaggio.
Capì che, in un solo
giorno, una certa distanza a cui aveva lavorato per anni, si era scostata con
eleganza – una tenda in un colpo di vento. E da lontano la raggiunse una
nostalgia che credeva di avere sconfitto.
[1] Questi due
personaggi molto particolari mi hanno fatto pensare a Mr Gwyn come ad una favola incantevole, completa di
due piccoli folletti: la signora dal foulard impermeabile, nonostante sia
deceduta pochi giorni dopo l’incontro con Jasper Gwyn, gli è presente fino al
termine del primo ritratto per fornirgli spunti ed incoraggiamenti; e l’artigiano
di Camden Town confeziona per lui, una per una, a mano, tutte le diciotto lampadine
Caterine de’ Medici delle quali Jasper Gwyn necessita per ogni ritratto.
MR GWYN
Leggi le prime pagine: http://edigita.cantook.net/o/ 2/p/9834?l=en&r=http://www. feltrinellieditore.it
Sito del libro: http://mrgwyn.feltrinelli.it/
Presentazione del libro da parte dell'autore:
Premesso che mi lasciano indifferente le fazioni in cui si dividono critici letterari e lettori al cospetto del re mida del romanzo italiano Alessandro Baricco, e che non riconosco la distinzione tra capolavoro e opera di sublime artigianato, ci sono almeno 3 motivi convincenti per correre a leggere Mr Gwyn(Feltrinelli), l'ottava creazione dello scrittore torinese repentinamente ascesa in vetta alle classifiche.
Numero 1. Quello che all'inizio sembra il trito cliché del personaggio in cerca di autore (uno scrittore sulla cresta dell'onda che decide di sparire dalla scena pubblica, un agente letterario sicuro di convincerlo a rientrare in gioco) si trasforma pian piano, in maniera quasi subdola, in un poetico thriller. Ritmo rilassato e sospeso per circa due terzi, poi improvvisamente si sterza, "si comincia a correre" ha detto l'autore. Insomma la storia appassiona, vien voglia di girare pagina per vedere cosa succede. Il ritmo della narrazione è maniacalmente curato dal suo artefice, maestro di dettagli e di sottrazioni. Mai una parola di troppo. Ai futuribili sceneggiatori potrebbe addirittura capitare di dover aggiungere qualche battuta.
Numero 2. Mr Gwyn è un artista unico, un uomo che dal nulla inventa una nuova arte combinando con elegante purezza la tecnica pittorica e quella narrativa, la maieutica socratico-platonica e la fine sensibilità dell'accordatore di pianoforti. Ma diversamente per esempio da Danny Goodman Novecento, Gwyn è circondato da un pugno di indimenticabili coprotagonisti. Non a caso il sito dedicato al libro è ispirato dal vecchio lampadinaio con il quale immagino Baricco ami identificarsi. Il demiurgo della luce e del buio nel lugubre laboratorio fabbrica bulbi palpitanti di vita, destinati a spegnersi inesorabilmente in un tempo prestabilito ma secondo un ordine indecidibile a priori, lasciato alla creatività del caso.
Numero 3. Baricco cosparge il libro di indizi e non svela tutti i misteri ma lascia aperti innumerevoli sentieri da esplorare. O forse è solo il dispiacere di aver chiuso l'ultima pagina. Confesso che non mi sarei sorpreso se avesse pubblicato Mr Gwin sotto mentite spoglie, per tenere accesa la fiamma con i lettori in un gioco di specchi con il suo personaggio, ma sarebbe stato banale. Perché il tempo di questo romanzo è, finalmente, un tempo esatto. Il tempo che serve per purificare gli strati che contaminano l'essenza individuale, finché il copista giunge all'atto puro di guardare. Proustianamente, Gwyn "ritrova il tempo" riconoscendovi la più autentica figura della propria vocazione e del proprio destino.
Alla fine i modelli si rivedono simultaneamente in tutti i personaggi che compongono il loro ritratto narrato, sperimentano cioè una inedita visione multidimensionale di se stessi. Ma lo spegnersi dell'ultima lampadina li fa sentire per la prima volta davvero nudi. Non di fronte al copista ma di fronte al tempo, che intanto è volato via portandosi dietro un sacco di cose. Lo stesso accade al lettore, finito risucchiato in un mosaico di vita reale, immaginaria e poi perduta: quanta malinconia quando Gwyn, leggero come l'ala del suo anagramma, sparisce davvero. Non resta che il ricordo di come "qualsiasi incantesimo sia fragile oltre ogni dire".
(Numero 4. Non a tutti piacciono, ma questo libro è pieno di frasi-sentenze. Alcune molto semplici e molto vere come questa: "Quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui".)
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