Mi ha ricordato molto “Bianca
come il latte, rossa come il sangue” di Alessandro d’Avenia ed una
considerazione è spiccata, quella scritta proprio sulla quarta di copertina di
questo libro di Baricco: «Abbiamo tutti sedici, diciassette anni – ma senza
saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il
passato.»
Ho solo un aggettivo per
definirlo: “disperato”. Come la disperazione di chi vede sciogliersi in mano
qualcosa che pensava fosse duro come un diamante e che si ostina a credere di
essere immortale: «Sono stato educato a un’ostinata resistenza, che
considera la vita un obbligo nobile, da assolvere in dignità e pienezza. Mi
hanno dato forza e carattere, per questo, e l’eredità di ogni loro tristezza,
perchè ne facessi tesoro. Quindi mi è chiaro che non morirò mai – se non in
gesti passeggeri e in momenti dimenticabili. Né dubito che più tagliente di
qualsiasi paura si svelerà il mio andare. E così sarà.»
Un
episodio dei Vangeli testimonia che, qualche giorno dopo la morte del Cristo,
due uomini camminavano verso la cittadina di Emmaus e parlavano di quello che
era successo a Gerusalemme. A un certo punto, si avvicinò un uomo e chiese loro
di cosa stessero parlando. I due lo misero al corrente di tutto e, siccome si
faceva tardi, lo invitarono a restare con loro, a mangiare insieme. L’uomo
accettò, mangiò con loro, spezzò il pane. Guardandolo, i due capirono che
quell’uomo era il Messia e, a quel punto, il Messia sparì. Rimasero soli,
chiedendosi come non avessero potuto capire che si trattava del Messia. Eppure
era stato con loro tutto quel tempo...
E’
proprio da questo episodio del Vangelo, che Baricco ha rubato il nome per il
suo ultimo romanzo: Emmaus, uscito il 4 novembre 2009, con copertina essenziale
e minimalista , dalla carta ruvida. Per cominciare, dico subito, che l’ho letto
in due giorni e che con mia grande sorpresa, in questo libro i personaggi (a
differenza di altri romanzi di Baricco) hanno nomi italiani, o per lo meno nomi
facilmente pronunciabili. La storia è ambientata a Torino, anche se non si
pronuncia mai il nome della città. E’ ambientato, negli anni settanta (più o
meno) e i protagonisti sono quattro ragazzi cattolici, Bobby, Il Santo, Luca e
l’io narrante che non ha un nome. Hanno diciassette, diciotto anni.
Appartengono a famiglie della media borghesia, vanno a scuola, suonano in
chiesa, fanno volontariato in un ospedale dei poveri. Rispettano e amano
profondamente i loro genitori e la vita. Non fumano, non bevono, non fanno
sesso. Hanno fidanzate che arriveranno vergini al matrimonio e la massima
intimità delle loro coppie è carezzarsi sotto al plaid con, magari, i genitori
nella stanza accanto. Hanno una vita lineare e pulita. Ma ogni tanto buttano lo
sguardo di là, verso gli altri. Gli altri, sono semplicemente i loro coetanei
risucchiati dal mondo. Quelli che si divertono, quelli che ascoltano altra
musica, ballano, bevono, fanno sesso. E tra questi altri, il loro sguardo si
perde sempre su Andre. Andre è bellissima, anche se non si cura della propria
bellezza. Lei porta i capelli così come vengono, come un’indiana d’America.
Andre è magra, di una magrezza che sa di malattia. Andre ha sempre gente
intorno, fa sesso con chi capita, partecipa a orge, senza pensarci troppo. Per
lei non è un problema stare con un mucchio di uomini, farsi prima un figlio e
poi un padre. Tanto lei sembra non sentire nulla. Una volta ha provato ad
uccidersi e fino a che non ci riesce, non si fermerà. Andre è piena di gente
intorno, ma è sola da morire. Questi quattro ragazzi entrano nel mondo di Andre
(o lei entra nel loro) in modo quasi casuale. Si parlano poco, eppure con gli
occhi capiscono parecchie cose. Nel momento in cui, faranno un passo nel mondo
di Andre, nel mondo degli altri, perderanno le loro certezze, a poco a poco,
con tempi differenti, non rendendosene effettivamente conto. Da lì in poi, sarà
un viaggio verso ciò che non avevano mai creduto possibile a loro (così
cattolici, perfetti e puliti): sesso a tre, travestiti, droga, suicidio,
omicidio. Bobby, Luca e Il Santo si disintegrano. A restare è la voce dell’io
narrante, quella senza nome, che si rende conto di aver visto tutto sfuocato.
Un po’ come i discepoli di Emmaus. Com’è stato possibile? Com’è possibile che
non riconosciamo e comprendiamo davvero le persone che abbiamo intorno?
Mangiano con noi, vivono con noi, eppure non li riconosciamo.
Il
romanzo è breve, solo 139 pagine, scritto benissimo, con eleganza e maestrìa.
Baricco non delude, ha una penna ferma, certa e i suoi giovani personaggi sono
tutto e vogliono tutto. Certo non vi è la magia di chi, come me, ha amato
"Oceano mare" o "Castelli di rabbia". Non ha il sapore, né
il linguaggio, né i tempi di quelle storie lì. Non vi aspettate quella magia.
Ma è piuttosto uno sguardo, sotto sotto, benevolo, comprensibile verso le
debolezze umane. In fondo, si parla di noi. Che siamo indifesi, soli, nudi,
egoisti, miserevoli, impauriti, curiosi, desiderosi, folli, incomprensibili. Si
parla solo di noi.
Scorrendo le pagine...
Per quanto assurdo sia, c’è
un’unica tenebra per tutti.
Chi ha iniziato a morire,
non smette mai di farlo.
Ci avevano insegnato la
misura, e anzi l’avevano fatto prima di ogni altra cosa, sapendo che così ci
avrebbero consegnato l’antidoto a qualsiasi insegnamento successivo. Ma non c’è
misura nell’amore. Nell’amore e nel dolore.
Nell’abisso delle nostre madri,
inavvertita, sempre cova un’audacia incomparabile. La conservano, dormiente,
tra i gesti prudenti di una vita intera, per poterne disporre pienamente il
giorno a cui si sospettano destinate. Lo spenderanno ai piedi di una croce.
Come abbiamo potuto? Noi
conosciamo quella domanda. Come abbiamo potuto non sapere, per così tanto
tempo, nulla di ciò che era, e tuttavia sederci alla tavola di ogni cosa e
persona incontrata sul cammino? Cuori piccoli – li nutriamo di grandi illusioni
e al termine del processo camminiamo come discepoli a Emmaus, ciechi, al fianco
di amici e amori che non riconosciamo – fidandoci di un Dio che non sa più di se
stesso. Per questo conosciamo l’avvio delle cose e poi ne riceviamo la fine,
mancando sempre il loro cuore. Siamo aurora ma epilogo – perenne scoperta
tardiva. Ci sarà forse un gesto che ci farà capire. Ma per adesso, noi viviamo, tutti.
Senza la vertigine dei
cieli non rimane che la terra, poca cosa.
Le chiese cosa pesava
sulla sua anima. Lei rispose senza pensarci, disse che era incapace di essere
grata alla vita e questo era il più grande dei peccati. [...] Ogni cosa era
meravigliosa nella mia vita, ma io non sapevo essere grata, e mi vergognavo
della mia felicità. Se non è felicità, dissi al monaco, è quanto meno gioia o
fortuna, dispensata come a poche altre persone è concesso, ma a me sì, senza
che però io riesca mai a tradurla in qualche pace dell’anima.
Nell’assenza di senso, il
mondo pur tuttavia accade, e in quell’acrobazia dell’esistere senza coordinate
c’è una bellezza, perfino una nobilità, talvolta, che noi non sappiamo – come una
possibilità di eroismo a cui non abbiamo mai pensato, l’eroismo di una qualche
verità. Se riconosci questo, coi tuoi occhi, nel fissare il mondo, anche solo
una volta, allora sei perduto – c’è ormai un’altra battaglia, per te. Cresciuti
nella certezza di essere degli eroi, in altre leggende diventano memorabili.
Sfuma Dio, come un ripiego infantile.
In quel bacio sulla
guancia era tutto sparito, come l’acqua che si richiude, dimenticando il sasso
posato sul fondo.
Adolescenti
Siamo saldi, e di una
forza illogica per la nostra età. Ce la insegnano insieme alla fede, che è
fenomeno evanescente ma pietra dura, diamante. Andiamo per il mondo portando
una certezza in cui si scioglie ogni nostra timidezza, fino a condurci oltre la
soglia del ridicolo. Spesso non c’è difesa, per la gente, perchè noi ci
muoviamo senza pudore, e non resta che accettare, senza capire, disarmati dal
nostro candore. [...] E’ tipico del nostro modo di fare prenderla alla larga e
farne una questione di salvezza o perdizione, una cosa grossa. Non ci passa
nemmeno per la testa che sia tutto più semplice – ferite normali da risanare
con gesti naturali, tipo incazzarsi, o fare cose spregevoli. Non conosciamo
simili scorciatoie.
Ci disarma, infatti, l’inclinazione
a pensare che la nostra vita sia, innanzitutto, un frammento conclusivo della
vita dei nostri genitori, solo affidato alla nostra cura. Come se ci avessero
incaricato, in un momento di stanchezza, di tenere un attimo quell’epilogo per
loro prezioso – ci si aspettava da noi che lo restituissimo, prima o poi,
intatto. L’avrebbero poi ricollocato a posto, formando la rotondità di una vita
compiuta, la loro. Ma ai nostri padri stanchi, che si erano fidati di noi, noi
restituiamo il taglio di cocci affilati, oggetti scappati di mano. Nel sordo
strisciare di un simile fallimento, non troviamo il tempo di riflettere, né la
luce di una ribellione. Solo l’immobilità sorda della colpa. Così tornerà
nostra, la nostra vita, quando sarà ormai troppo tardi.
Dico a te, chi cavolo credete di essere?
Io me ne stavo in piedi, con quella sacca in mano.
Abbiamo diciott’anni, dissi, e siamo tutto.
Tutto facciamo senza alcuna prudenza, nella
convinzione di essere invisibili – siamo in un mondo parallelo che nemmeno noi
rileviamo.
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