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2 nov 2012

Emmaus - Alessandro Baricco


Mi ha ricordato molto “Bianca come il latte, rossa come il sangue” di Alessandro d’Avenia ed una considerazione è spiccata, quella scritta proprio sulla quarta di copertina di questo libro di Baricco: «Abbiamo tutti sedici, diciassette anni – ma senza saperlo veramente, è l’unica età che possiamo immaginare: a stento sappiamo il passato.»

Ho solo un aggettivo per definirlo: “disperato”. Come la disperazione di chi vede sciogliersi in mano qualcosa che pensava fosse duro come un diamante e che si ostina a credere di essere immortale: «Sono stato educato a un’ostinata resistenza, che considera la vita un obbligo nobile, da assolvere in dignità e pienezza. Mi hanno dato forza e carattere, per questo, e l’eredità di ogni loro tristezza, perchè ne facessi tesoro. Quindi mi è chiaro che non morirò mai – se non in gesti passeggeri e in momenti dimenticabili. Né dubito che più tagliente di qualsiasi paura si svelerà il mio andare. E così sarà.»




Recensione di Lucia dell’Omo

Un episodio dei Vangeli testimonia che, qualche giorno dopo la morte del Cristo, due uomini camminavano verso la cittadina di Emmaus e parlavano di quello che era successo a Gerusalemme. A un certo punto, si avvicinò un uomo e chiese loro di cosa stessero parlando. I due lo misero al corrente di tutto e, siccome si faceva tardi, lo invitarono a restare con loro, a mangiare insieme. L’uomo accettò, mangiò con loro, spezzò il pane. Guardandolo, i due capirono che quell’uomo era il Messia e, a quel punto, il Messia sparì. Rimasero soli, chiedendosi come non avessero potuto capire che si trattava del Messia. Eppure era stato con loro tutto quel tempo...

E’ proprio da questo episodio del Vangelo, che Baricco ha rubato il nome per il suo ultimo romanzo: Emmaus, uscito il 4 novembre 2009, con copertina essenziale e minimalista , dalla carta ruvida. Per cominciare, dico subito, che l’ho letto in due giorni e che con mia grande sorpresa, in questo libro i personaggi (a differenza di altri romanzi di Baricco) hanno nomi italiani, o per lo meno nomi facilmente pronunciabili. La storia è ambientata a Torino, anche se non si pronuncia mai il nome della città. E’ ambientato, negli anni settanta (più o meno) e i protagonisti sono quattro ragazzi cattolici, Bobby, Il Santo, Luca e l’io narrante che non ha un nome. Hanno diciassette, diciotto anni. Appartengono a famiglie della media borghesia, vanno a scuola, suonano in chiesa, fanno volontariato in un ospedale dei poveri. Rispettano e amano profondamente i loro genitori e la vita. Non fumano, non bevono, non fanno sesso. Hanno fidanzate che arriveranno vergini al matrimonio e la massima intimità delle loro coppie è carezzarsi sotto al plaid con, magari, i genitori nella stanza accanto. Hanno una vita lineare e pulita. Ma ogni tanto buttano lo sguardo di là, verso gli altri. Gli altri, sono semplicemente i loro coetanei risucchiati dal mondo. Quelli che si divertono, quelli che ascoltano altra musica, ballano, bevono, fanno sesso. E tra questi altri, il loro sguardo si perde sempre su Andre. Andre è bellissima, anche se non si cura della propria bellezza. Lei porta i capelli così come vengono, come un’indiana d’America. Andre è magra, di una magrezza che sa di malattia. Andre ha sempre gente intorno, fa sesso con chi capita, partecipa a orge, senza pensarci troppo. Per lei non è un problema stare con un mucchio di uomini, farsi prima un figlio e poi un padre. Tanto lei sembra non sentire nulla. Una volta ha provato ad uccidersi e fino a che non ci riesce, non si fermerà. Andre è piena di gente intorno, ma è sola da morire. Questi quattro ragazzi entrano nel mondo di Andre (o lei entra nel loro) in modo quasi casuale. Si parlano poco, eppure con gli occhi capiscono parecchie cose. Nel momento in cui, faranno un passo nel mondo di Andre, nel mondo degli altri, perderanno le loro certezze, a poco a poco, con tempi differenti, non rendendosene effettivamente conto. Da lì in poi, sarà un viaggio verso ciò che non avevano mai creduto possibile a loro (così cattolici, perfetti e puliti): sesso a tre, travestiti, droga, suicidio, omicidio. Bobby, Luca e Il Santo si disintegrano. A restare è la voce dell’io narrante, quella senza nome, che si rende conto di aver visto tutto sfuocato. Un po’ come i discepoli di Emmaus. Com’è stato possibile? Com’è possibile che non riconosciamo e comprendiamo davvero le persone che abbiamo intorno? Mangiano con noi, vivono con noi, eppure non li riconosciamo.

Il romanzo è breve, solo 139 pagine, scritto benissimo, con eleganza e maestrìa. Baricco non delude, ha una penna ferma, certa e i suoi giovani personaggi sono tutto e vogliono tutto. Certo non vi è la magia di chi, come me, ha amato "Oceano mare" o "Castelli di rabbia". Non ha il sapore, né il linguaggio, né i tempi di quelle storie lì. Non vi aspettate quella magia. Ma è piuttosto uno sguardo, sotto sotto, benevolo, comprensibile verso le debolezze umane. In fondo, si parla di noi. Che siamo indifesi, soli, nudi, egoisti, miserevoli, impauriti, curiosi, desiderosi, folli, incomprensibili. Si parla solo di noi.

Scorrendo le pagine...


Per quanto assurdo sia, c’è un’unica tenebra per tutti.

Chi ha iniziato a morire, non smette mai di farlo.

Ci avevano insegnato la misura, e anzi l’avevano fatto prima di ogni altra cosa, sapendo che così ci avrebbero consegnato l’antidoto a qualsiasi insegnamento successivo. Ma non c’è misura nell’amore. Nell’amore e nel dolore.

Nell’abisso delle nostre madri, inavvertita, sempre cova un’audacia incomparabile. La conservano, dormiente, tra i gesti prudenti di una vita intera, per poterne disporre pienamente il giorno a cui si sospettano destinate. Lo spenderanno ai piedi di una croce.

Come abbiamo potuto? Noi conosciamo quella domanda. Come abbiamo potuto non sapere, per così tanto tempo, nulla di ciò che era, e tuttavia sederci alla tavola di ogni cosa e persona incontrata sul cammino? Cuori piccoli – li nutriamo di grandi illusioni e al termine del processo camminiamo come discepoli a Emmaus, ciechi, al fianco di amici e amori che non riconosciamo – fidandoci di un Dio che non sa più di se stesso. Per questo conosciamo l’avvio delle cose e poi ne riceviamo la fine, mancando sempre il loro cuore. Siamo aurora ma epilogo – perenne scoperta tardiva. Ci sarà forse un gesto che ci farà capire. Ma per adesso, noi viviamo, tutti.

Senza la vertigine dei cieli non rimane che la terra, poca cosa.

Le chiese cosa pesava sulla sua anima. Lei rispose senza pensarci, disse che era incapace di essere grata alla vita e questo era il più grande dei peccati. [...] Ogni cosa era meravigliosa nella mia vita, ma io non sapevo essere grata, e mi vergognavo della mia felicità. Se non è felicità, dissi al monaco, è quanto meno gioia o fortuna, dispensata come a poche altre persone è concesso, ma a me sì, senza che però io riesca mai a tradurla in qualche pace dell’anima.

Nell’assenza di senso, il mondo pur tuttavia accade, e in quell’acrobazia dell’esistere senza coordinate c’è una bellezza, perfino una nobilità, talvolta, che noi non sappiamo – come una possibilità di eroismo a cui non abbiamo mai pensato, l’eroismo di una qualche verità. Se riconosci questo, coi tuoi occhi, nel fissare il mondo, anche solo una volta, allora sei perduto – c’è ormai un’altra battaglia, per te. Cresciuti nella certezza di essere degli eroi, in altre leggende diventano memorabili. Sfuma Dio, come un ripiego infantile.

In quel bacio sulla guancia era tutto sparito, come l’acqua che si richiude, dimenticando il sasso posato sul fondo.

Adolescenti


Siamo saldi, e di una forza illogica per la nostra età. Ce la insegnano insieme alla fede, che è fenomeno evanescente ma pietra dura, diamante. Andiamo per il mondo portando una certezza in cui si scioglie ogni nostra timidezza, fino a condurci oltre la soglia del ridicolo. Spesso non c’è difesa, per la gente, perchè noi ci muoviamo senza pudore, e non resta che accettare, senza capire, disarmati dal nostro candore. [...] E’ tipico del nostro modo di fare prenderla alla larga e farne una questione di salvezza o perdizione, una cosa grossa. Non ci passa nemmeno per la testa che sia tutto più semplice – ferite normali da risanare con gesti naturali, tipo incazzarsi, o fare cose spregevoli. Non conosciamo simili scorciatoie.

Ci disarma, infatti, l’inclinazione a pensare che la nostra vita sia, innanzitutto, un frammento conclusivo della vita dei nostri genitori, solo affidato alla nostra cura. Come se ci avessero incaricato, in un momento di stanchezza, di tenere un attimo quell’epilogo per loro prezioso – ci si aspettava da noi che lo restituissimo, prima o poi, intatto. L’avrebbero poi ricollocato a posto, formando la rotondità di una vita compiuta, la loro. Ma ai nostri padri stanchi, che si erano fidati di noi, noi restituiamo il taglio di cocci affilati, oggetti scappati di mano. Nel sordo strisciare di un simile fallimento, non troviamo il tempo di riflettere, né la luce di una ribellione. Solo l’immobilità sorda della colpa. Così tornerà nostra, la nostra vita, quando sarà ormai troppo tardi.

Dico a te, chi cavolo credete di essere?
Io me ne stavo in piedi, con quella sacca in mano.
Abbiamo diciott’anni, dissi, e siamo tutto.

Tutto facciamo senza alcuna prudenza, nella convinzione di essere invisibili – siamo in un mondo parallelo che nemmeno noi rileviamo.

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