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1 nov 2012

Diario di una schizofrenica - Marguerite A. Sechehaye


“Ero caduta al di là del pensiero e non ero più che vuoto e desolazione. Solo coloro che hanno perduto la realtà ed hanno vissuto nel paese inumano e crudele della Luce, possono veramente apprezzare la gioia della vita e comprendere il valore inestimabile della comunicazione umana.”

Un classico della psicoanalisi. Il caso clinico più perturbante e commovente dell'ultimo secolo. Diario di una schizofrenica riferisce l'esperienza vissuta dal malato e mostra tutto ciò che si mascherava dietro le manifestazioni e i sintomi della schizofrenia. Questo libro costituisce un duplice documento. Un documento scientifico giacché è la descrizione del decorso e della cura di una grave malattia mentale: l'apparizione progressiva dei successivi sintomi, le fasi di parziale remissione, le tappe della faticosa normalizzazione, raggiunta attraverso un procedimento psicoterapeutico originale di grande importanza sia teorica che pratica. Ma anche un documento umano: la descrizione della malattia è infatti opera dell'ammalata stessa, Renée, che la racconta come una propria drammatica vicenda spirituale. Si scopre così una vita sentimentale che le apparenze erano ben lontane dal far supporre e che è estremamente ricca d'insegnamenti. "Un'opera poetica", così ha definito questo libro Cesare L. Musatti, "suscettibile di risvegliare elementi nascosti che sono in ognuno di noi".



Legenda

Marguerite Sechehaye
René
Cesare L.Musatti


La schizofrenia consiste in una dissociazione fra l’affettività che è profondamente turbata dalla perdita di contatto con la vita e l’intelligenza che resta inalterata e che, come un operatore cinematografico, registra tutto ciò che gli si svolge innanzi. 
Mi sembrava di non riconoscere più la scuola; era diventata grande come una caserma ed i bambini che cantavano mi pareva fossero dei prigionieri obbligati a cantare. [...] Non riconoscevo più la compagna che mi veniva incontro saltando per incrociarmi, eppure la riconoscevo chiaramente, eppure non era lei. [...] Ascoltavo le conversazioni, ma le parole erano senza senso e le voci mi sembravano metalliche senza timbro né colore. Ogni tanto una parola si distaccava dalle altre e si ripeteva, si scolpiva nel mio cervello, assurda. Quando una compagna si avvicinava, essa ingigantiva sempre più ai miei occhi come il mucchio di fieno. [...] Sentivo i rumori provenienti dalla strada: un tram, gente che discuteva, il nitrito di un cavallo, un claxon, e mi sembrava che ognuno di questi rumori si staccasse dal suo oggetto per rimanere inciso nell’aria immobile e senza senso.

Nella  schizofrenia si constata che tra le funzioni psichiche principalmente lese sono proprie quelle che assicurano la coscienza di sé, il senso della realtà, la possibilità di stabilire rapporti con gli elementi stessi della realtà: e cioè le funzioni che appunto si sviluppano nei primi mesi di vita. [...]
I primi due anni di analisi furono una lotta titanica e continua contro la paura ed il paese della Luce, come l’ho soprannominato, di fronte a cui mi sentivo debole e sgomenta. [...] Nella mia ignoranza credevo che la follia fosse uno stato di insensibilità assoluta, senza gioia, senza dolore e soprattutto senza responsabilità. [...] Per me, la follia era un regno opposto a quello della realtà, dominato da una luce implacabile, senza ombre, accecante. Era un’immensità senza limiti, desolata e squallida; un paese minerale, lunare, gelido come le steppe del nord. In questo paese tutto è immutabile, esanime e cristallizzato. Gli oggetti sono sparsi qua e là come cubi geometrici abbandonati o quinte di teatro private del loro scopo. Le persone si agitano in modo bizzarro facendo gesti, movimenti inutili; sono fantasmi che vagano in quella landa senza confini, sfiniti da una luce senza misericordia.

Lo schizofrenico non è un anaffettivo. Egli ha anzi impulsi e bisogni affettivi di una straordinaria potenza; solo non riesce ad estrinsecarli, perchè – per le difficoltà incontrate a stabilire normali rapporti oggettuali  - li avverte come estremamente pericolosi e come qualche cosa di colpevole. [...]
Io ero sperduta là dentro, isolata, fredda, nuda sotto la luce e senza scopo. Un muro metallico mi separava da tutto e da tutti. In tanta desolazione ero presa da uno sgomento indicibile, ma nessuno mi porgeva il suo aiuto; ero insopportabilmente sola, la mia solitudine era totale. [...] La paura incalzava fino a divenire impossibile, indicibile atroce.
[...] Avevo un senso di colpa terribile, infinito, per la masturbazione e per l’ostilità che avevo contro tutti. Odiavo letteralmente le persone senza saperne il perché, sognavo e fantasticavo spesso di costruire un congengo elettrico che avrebbe fatto saltare la terra e il mondo intero. [...] Reclamava una punizione e questa era crudele e sadica poichè consisteva appunto nell’essere colpevole; e sentirsi colpevoli è la cosa più orribile che possa succedere, la peggiore delle punizioni.
[...] Il Sistema mi dava degli ordini; non li sentivo come voci, ma erano molto più imperiosi che se fossero stati pronunciati a voce alta. [...] Dico “sentivo” perchè non saprei quale altro termine usare per spiegare la mia impressione di avvertire realmente una presenza invisibile che occupa un angolo della stanza e dice cose sgradevoli a cui bisogna rispondere, e nello stesso tempo non sentirla realmente. [...] Così, mentre stavo scrivendo a macchina, improvvisamente e senza che me lo aspettassi, una forza, che sembrava più un comando che un impulso, mi ordinava di scottarmi la mano destra o anche di bruciare la casa in cui mi trovavo. [...] Intuivo che obbedendo all’ordine compivo un atto incancellabile e disgregatore della mia personalità. Inoltre in ambedue le alternative di obbedienza o disobbedienza avevo un’impressione di stonatura e di commedia. [...] Da una parte la mia intelligenza, che aveva aderito al Sistema, credeva completamente alla sua realtà, alla sua potenza e quindi ai suoi ordini; dall’altra un sentimento oscuro inesprimibile, che si manifestava per istinto di conservazione, si opponeva alla realizzazione dell’ordine ogni volta che volevo bruciarmi la mano. [...] Solo un impedimento materiale poteva liberarmi da tale conflitto.

Lo schizofrenico, anche quando si trova in uno stato di decadimento mentale e psichico che fa pensare alla demenza, resta in possesso di un’anima, di un’intelligenza, e prova sentimenti talvolta molto vivi senza poterli esteriorizzare. Anche nei periodi di indifferenza completa e negli stati stuporali in cui il malato non sente più nulla, gli resta una lucidità impersonale che non solo gli permette di percepire quello che accade intorno a lui, ma amche di rendersi conto dei suoi stati affettivi. Spesso è questa stessa indifferenza che, spinta all’estremo, gli impedisce di parlare e di rispondere alle domande che gli si fanno.
[...] La maggior parte del tempo rimanevo infelicemente seduta, con lo sguardo ipnotizzato magari da una goccia di caffé, caduta sul tavolo. [...] L’infinito mondo del minuscolo mi afferrava e mi assorbiva tutta. Allora per aiutarmi ad uscire da questo vicolo cieco incominciavo a battere il muro o la tavola con i pugni chiusi alternativamente.
I medici e le infermiere, non andando oltre le apparenze, credevano che non comprendessi i loro ordini e le loro domande; capivo invece perfettamente quello che mi dicevano e quello che si svolgeva attorno a me; ma ogni cosa mi era così totalmente indifferente, così spoglia d’emozione e di affettività, che non mi sembrava neppure si rivolgessero a me. [...] Ero caduta al di là del pensiero e non ero più che vuoto e desolazione.

La schizofrenia si presenta quindi come una regressione della personalità a quelle sue fasi di sviluppo in cui la distinzione fra l’io e il mondo viene operandosi e non si è ancora integralmente stabilizzata. [...]

Cresciuta con un bisogno iniziale che reclamava soddisfazione, Renée non è mai riuscita ad adattarsi alla realtà. Avvicinandosi alla realtà adulta non ha potuto accettare la complessità del mondo esterno ed è ritornata ad uno stadio inferiore ed infantile della sua evoluzione.[...]

Ero molto infelice poichè mi sentivo diminuire di età ed il Sistema voleva ridurmi a nulla.

La regressione è uno dei meccanismi di difesa dell’apparato psichico di fronte a conflitti insopportabili: quando l’individuo nel corso della sua evoluzione e nel passaggio dall’una all’altra fase di questa evoluzione incontra situazioni conflittuali particolarmente dolorose, esso può appunto reagire abbandonando la raggiunta fase di evoluzione e riportandosi alle fasi anteriori. [...] La regressione è sempre predeterminata da una fissazione: essa si produce cioè nella direzione di quelle fasi di sviluppo, alle quali il soggetto, nel corso dell’evoluzione originaria, tendeva a rimanere fissato, a rinchiudersi: o per determinate esperienze a forte soddisfazione vissute in tali fasi o per particolari difficoltà (situazioni traumatiche) incontrate nel passare alla fase ulteriore. [...] La connessione fra la regressione attuale e la remota fissazionne a situazioni precoci è tale che il soggetto si trova attualmente a rivivere tutte quelle passate difficoltà. [...] Egli rivive – ingigantiti per questa sua condizione di adulto, ed arricchiti di elementi tratti da quella sua somma di esperienze – le paure, le angosce, gli impulsi aggressivi ed autoaggressivi, gli intensi bisogni affettivi, che hanno caratterizzato i suoi primi contatti oggettuali e la contrastata elaborazione del processo di formazione dell’io e di distinzione dell’io dall’oggetto.

Il compito principale di ogni psicoterapia è quello di condurre il malato a risolvere i conflitti attuali che lo hanno portato nella malattia, in un modo diverso da quel tentativo (inadeguato) di soluzione al quale è stato avviato dai meccanismi patologici di difesa che hanno agito in lui. Ma uno dei concetti fondamentali della psicoanalisi suggerisce che, una volta instauratasi la malattia, è assai difficile risolvere questi conflitti attuali senza risolvere contemporaneamente i conflitti remoti (risalenti all’infanzia) che hanno predisposto l’entrata in azione dei meccanismi patologici di difesa. [...] Si tratta di far ripercorrere al paziente, che è riportato a quelle prime fasi di sviluppo, quelle fasi stesse: correggendo per così dire il processo come storicamente si è determinato. [...] Sarebbe come a dire che si tratta di prendere questo individuo adulto, ridivenuto in un certo modo e per certi aspetti un bambino di pochi giorni, privo della coscienza di sé ed incapace di riconoscere le cose, e portarlo a ripercorrere quell’evoluzione che i bambini normali percorrono nei primi mesi di vita, finchè giungono a sorridere al volto della madre, a riconoscere cose e persone, ad esprimere i loro bisogni e desideri, e ad agire sulla realtà per ottenerne la soddisfazione.

Esiste la possibilità per stabilire una comunicazione [n.d.r. tra l’analista e il paziente; l’analista] deve tentare di raggiungere una comunicazione con il paziente attraverso gli elementi rimasti integri della sua personalità; deve soddisfare le esigenze affettive del paziente (esigenze che occorre individuare o interpretare, dato che il paziente è incapace di esprimerle apertamente), evitando tuttavia che il paziente avverta queste soddisfazioni come pericolose o proibite.

Bisognava assolutamente che tenessi conto dello stadio a cui la malata era regredita.[...] L’assenza dell’amore materno aveva impedito la formazione di un normale narcisismo. [...] Poichè ella desiderava ritornare nel corpo della madre, non bisognava più opporsi a tale desiderio ma cercare di soddisfarlo. L’autorizzavo così a rimanere completamente passiva ed a godere della perfetta tranquillità del bimbo non ancora nato. Con tale mezzo volevo creare un legame, per quanto primario, fra la malata e la madre-analista.

Nella mia camera la semioscurità era verde e questo colore mi dava l’impressione di trovarmi rinchiusa in un vago mondo di terra e acqua, il che equivaleva per me a trovarmi nel corpo della Mamma. Ero priva di desideri, ero in uno stato passivo ma ideale poichè la sofferenza era terminata ed era la Mamma che mi procurava tale felicità. Finalmente, pensavo, mi riceve, mi accetta nel suo corpo; un immenso sollievo mi invadeva, ero nel seno materno, nel paradiso! Da quel momento ebbi una fiducia profonda nella Mamma ed incominciai ad amarla, come non l’avevo mai amata fin allora. Che lei soddisfacesse il mio più caro desiderio, che io fossi racchiusa in lei, mi colmava di felicità e mi dava la prova perfetta del suo amore.

[...] e deve infine, attraverso il dosaggio di queste soddisfazioni affettive, portare il paziente a rivivere le fasi rimaste turbate, della costruzione della sua personalità infantile, e dello stabilimento di normali rapporti con la realtà.

 [...] Bisognava [...]  che passassi al seguente solo le malata avesse manifestato il desiderio. [...] Incominciai allora ad occuparmi di una bambola.  A questo modo presentavo alla malata un modello nel quale io suo Io inconscio avrebbe potuto proiettarsi. [...] Renée assistette passivamente alle cure che prodigavo a Ezéchiel, godendo per procura. Intanto diveniva più facile nutrirla, specialmente se “allattavo” Ezéchiel proprio prima dei pasti.

Ero a questo punto, quando la Mamma incominciò ad occuparsi amorevolmente di una bambola: un bebé di qualche mese che avevo nominato Ezéchiel. Ella lo copriva, lo abbracciava, lo addormentava affettuosamente nella culla. Nei primi giorni mi accontentai di osservarla attentamente e fui meravigliata nel constatare che Ezéchiel ricevesse tante carezze e tanto affetto dalla Mamma senza che gli accadesse nulla di male. [...] Un giorno mi feci coraggio e spinsi la testa di Ezéchiel, che era nelle braccia della Mamma, sul suo seno. Con quel gesto volevo sapere se avevo diritto alla vita. [...] Era come se la mamma occupandosi amorevolmente di Ezéchiel mi desse altrettanti diritti, e soprattutto, quello di vivere. [...] Accettavo il cibo che mi dava nella misura in cui Ezéchiel lo riceveva.

Quando si convinse che volevo nutrire regolarmente Ezéchiel, accettò volentieri di mangiare anche da sola. Man mano che l’inconscio di Renée è rassicurato dall’amore della madre-analista nei suoi riguardi, l’energia che era al servizio degli impulsi autodistruttivi si libererà per trasferirsi sull’istinto di conservazione dell’Io. [...] Le pulsioni autodistruttrici create dallo stato di frustrazione furono neutralizzate dall’energia affettiva attinta all’amore materno.

Una volta divenuta indipendente per quanto riguarda la nutrizione, il primo enorme passo verso la realtà fu fatto. Dopo che la Mamma mi ebbe accettata nel suo “verde” (nel suo seno) la percezione della realtà mutò completamente ai miei occhi; la riconobbi colma di affettività, animata e vivente.

Renée è arrivata allo stadio assertivo, secondo la terminologia di Pierre Janet, allo stadio cioè in cui il soggetto si considera un “personaggio”. Pichon chiama tale stadio la “persona costruita” in opposizione alla “persona impersonata” in cui la prima persona interviene come soggetto o completamento.

Incominciai ad occuparmi della mia persona e ad amarla. E’ stato estremamente importante ed ha grandemente contribuito a liberarmi dal senso di colpa ed a farmi acquistare coscienza di me, il modo in cui la Mamma mi parlava. [...] Parlandomi in terza persona o personificando il mio corpo: «Com’è grazioso questo corpo, ora lo laviamo e lo profumiamo!» lo separava da me, lo rendeva un oggetto indipendente che io consideravo allo stesso modo di come potevo considerare il corpo di Ezéchiel.

Copiando le azioni altrui il bimbo acquista progressivamente coscienza di sé; allo stesso modo Renée, copiando la madre, ha preso coscienza di sé. [...] Renée non è più un personaggio, ma una persona, un essere.

[...] Dopo essermi occupata qualche tempo con la Mamma della mia persona, potei farlo senza di lei ma parlandomi esattamente come la Mamma mi parlava. Quando poi riuscii ad assumermi la responsabilità di amarlo, osai dire: «Il mio corpo, io mi lavo, sono graziosa. ». Attraverso la Mamma avevo imparato ad amarmi e la unità della mia personalità era quasi compiuta.

Non aveva ancora investito di libido i settori sociali della personalità della madre.

[...] Non potevo ancora accettare che la Mamma appartenesse al resto del mondo.

Stabilendo rapporti sicuri fra il suo Io e la madre-sociale Renée si incamminava verso la logica delle relazioni.

Col tempo, dopo essermi emancipata nel campo del nutrimento prima, della pulizia e della cura della persona dopo, accettai di pensare in modo diverso dal suo, senza che per questo la mia percezione della realtà dovesse mutare.

Renée ha così attraversato, come il bambino piccolo, tutti gli stadi dell’imitazione fino al termine del lavoro di introiezione e di identificazione della madre amata. Ma la sintesi dell’Io non è veramente compiuta fino a quando la malata non ha coscienza di essere corpo. E’ infatti attraverso il corpo che la coscienza percepisce le sensazioni esterne. [...]

Dal momento in cui il realismo affettivo è completamente dissolto dal lavoro di introiezione e d’identificazione alla madre che l’ama, la sintesi dell’Io di Renée è veramente compiuta. L’energia libidica, che era investita negli elementi formatori della psicosi, si è messa al servizio dell’Io. L’Io oramai libero ed autonomo, si adatterò sempre meglio alla realtà ed alle esigenze del mondo esterno.

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