“Ero caduta al di là del pensiero e non ero più che
vuoto e desolazione. Solo coloro che hanno perduto la realtà ed hanno vissuto
nel paese inumano e crudele della Luce, possono veramente apprezzare la gioia
della vita e comprendere il valore inestimabile della comunicazione umana.”
Un classico della psicoanalisi. Il caso clinico più perturbante e commovente dell'ultimo secolo. Diario di una schizofrenica riferisce l'esperienza vissuta dal malato e mostra tutto ciò che si mascherava dietro le manifestazioni e i sintomi della schizofrenia. Questo libro costituisce un duplice documento. Un documento scientifico giacché è la descrizione del decorso e della cura di una grave malattia mentale: l'apparizione progressiva dei successivi sintomi, le fasi di parziale remissione, le tappe della faticosa normalizzazione, raggiunta attraverso un procedimento psicoterapeutico originale di grande importanza sia teorica che pratica. Ma anche un documento umano: la descrizione della malattia è infatti opera dell'ammalata stessa, Renée, che la racconta come una propria drammatica vicenda spirituale. Si scopre così una vita sentimentale che le apparenze erano ben lontane dal far supporre e che è estremamente ricca d'insegnamenti. "Un'opera poetica", così ha definito questo libro Cesare L. Musatti, "suscettibile di risvegliare elementi nascosti che sono in ognuno di noi".
Legenda
Marguerite Sechehaye
René
Cesare L.Musatti
La schizofrenia consiste in una
dissociazione fra l’affettività che è profondamente turbata dalla perdita di
contatto con la vita e l’intelligenza che resta inalterata e che, come un
operatore cinematografico, registra tutto ciò che gli si svolge innanzi.
Mi sembrava di non riconoscere più la scuola; era
diventata grande come una caserma ed i bambini che cantavano mi pareva fossero dei
prigionieri obbligati a cantare. [...] Non riconoscevo più la compagna che mi
veniva incontro saltando per incrociarmi, eppure la riconoscevo chiaramente,
eppure non era lei. [...] Ascoltavo le conversazioni, ma le parole erano senza
senso e le voci mi sembravano metalliche senza timbro né colore. Ogni tanto una
parola si distaccava dalle altre e si ripeteva, si scolpiva nel mio cervello,
assurda. Quando una compagna si avvicinava, essa ingigantiva sempre più ai miei
occhi come il mucchio di fieno. [...] Sentivo i rumori provenienti dalla
strada: un tram, gente che discuteva, il nitrito di un cavallo, un claxon, e mi
sembrava che ognuno di questi rumori si staccasse dal suo oggetto per rimanere
inciso nell’aria immobile e senza senso.
Nella schizofrenia si constata che tra le funzioni
psichiche principalmente lese sono proprie quelle che assicurano la coscienza
di sé, il senso della realtà, la possibilità di stabilire rapporti con gli
elementi stessi della realtà: e cioè le funzioni che appunto si sviluppano nei
primi mesi di vita. [...]
I primi due anni di analisi furono una lotta
titanica e continua contro la paura ed il paese della Luce, come l’ho soprannominato, di fronte a cui mi
sentivo debole e sgomenta. [...] Nella mia ignoranza credevo che la follia
fosse uno stato di insensibilità assoluta, senza gioia, senza dolore e
soprattutto senza responsabilità. [...] Per me, la follia era un regno opposto
a quello della realtà, dominato da una luce implacabile, senza ombre,
accecante. Era un’immensità senza limiti, desolata e squallida; un paese
minerale, lunare, gelido come le steppe del nord. In questo paese tutto è
immutabile, esanime e cristallizzato. Gli oggetti sono sparsi qua e là come
cubi geometrici abbandonati o quinte di teatro private del loro scopo. Le
persone si agitano in modo bizzarro facendo gesti, movimenti inutili; sono
fantasmi che vagano in quella landa senza confini, sfiniti da una luce senza
misericordia.
Lo
schizofrenico non è un anaffettivo. Egli ha anzi impulsi e bisogni affettivi di
una straordinaria potenza; solo non riesce ad estrinsecarli, perchè – per le
difficoltà incontrate a stabilire normali rapporti oggettuali - li avverte come estremamente pericolosi e
come qualche cosa di colpevole. [...]
Io ero sperduta là dentro, isolata, fredda, nuda
sotto la luce e senza scopo. Un muro metallico mi separava da tutto e da tutti.
In tanta desolazione ero presa da uno sgomento indicibile, ma nessuno mi
porgeva il suo aiuto; ero insopportabilmente sola, la mia solitudine era
totale. [...] La paura incalzava fino a divenire impossibile, indicibile
atroce.
[...] Avevo un senso di colpa terribile, infinito,
per la masturbazione e per l’ostilità che avevo contro tutti. Odiavo
letteralmente le persone senza saperne il perché, sognavo e fantasticavo spesso
di costruire un congengo elettrico che avrebbe fatto saltare la terra e il
mondo intero. [...] Reclamava una punizione e questa era crudele e sadica
poichè consisteva appunto nell’essere colpevole; e sentirsi colpevoli è la cosa
più orribile che possa succedere, la peggiore delle punizioni.
[...] Il Sistema mi dava degli ordini; non li
sentivo come voci, ma erano molto più imperiosi che se fossero stati
pronunciati a voce alta. [...] Dico “sentivo” perchè non saprei quale altro
termine usare per spiegare la mia impressione di avvertire realmente una
presenza invisibile che occupa un angolo della stanza e dice cose sgradevoli a
cui bisogna rispondere, e nello stesso tempo non sentirla realmente. [...] Così,
mentre stavo scrivendo a macchina, improvvisamente e senza che me lo
aspettassi, una forza, che sembrava più un comando che un impulso, mi ordinava
di scottarmi la mano destra o anche di bruciare la casa in cui mi trovavo.
[...] Intuivo che obbedendo all’ordine compivo un atto incancellabile e
disgregatore della mia personalità. Inoltre in ambedue le alternative di
obbedienza o disobbedienza avevo un’impressione di stonatura e di commedia. [...]
Da una parte la mia intelligenza, che aveva aderito al Sistema, credeva
completamente alla sua realtà, alla sua potenza e quindi ai suoi ordini; dall’altra
un sentimento oscuro inesprimibile, che si manifestava per istinto di
conservazione, si opponeva alla realizzazione dell’ordine ogni volta che volevo
bruciarmi la mano. [...] Solo un impedimento materiale poteva liberarmi da tale
conflitto.
Lo
schizofrenico, anche quando si trova in uno stato di decadimento mentale e
psichico che fa pensare alla demenza, resta in possesso di un’anima, di un’intelligenza,
e prova sentimenti talvolta molto vivi senza poterli esteriorizzare. Anche nei
periodi di indifferenza completa e negli stati stuporali in cui il malato non
sente più nulla, gli resta una lucidità impersonale che non solo gli permette
di percepire quello che accade intorno a lui, ma amche di rendersi conto dei
suoi stati affettivi. Spesso è questa stessa indifferenza che, spinta all’estremo,
gli impedisce di parlare e di rispondere alle domande che gli si fanno.
[...] La maggior parte del tempo rimanevo
infelicemente seduta, con lo sguardo ipnotizzato magari da una goccia di caffé,
caduta sul tavolo. [...] L’infinito mondo del minuscolo mi afferrava e mi
assorbiva tutta. Allora per aiutarmi ad uscire da questo vicolo cieco
incominciavo a battere il muro o la tavola con i pugni chiusi alternativamente.
I medici e le infermiere, non andando oltre le
apparenze, credevano che non comprendessi i loro ordini e le loro domande;
capivo invece perfettamente quello che mi dicevano e quello che si svolgeva
attorno a me; ma ogni cosa mi era così totalmente indifferente, così spoglia d’emozione
e di affettività, che non mi sembrava neppure si rivolgessero a me. [...] Ero
caduta al di là del pensiero e non ero più che vuoto e desolazione.
La
schizofrenia si presenta quindi come una regressione della personalità a quelle
sue fasi di sviluppo in cui la distinzione fra l’io e il mondo viene operandosi
e non si è ancora integralmente stabilizzata. [...]
Cresciuta
con un bisogno iniziale che reclamava soddisfazione, Renée non è mai riuscita
ad adattarsi alla realtà. Avvicinandosi alla realtà adulta non ha potuto
accettare la complessità del mondo esterno ed è ritornata ad uno stadio
inferiore ed infantile della sua evoluzione.[...]
Ero molto
infelice poichè mi sentivo diminuire di età ed il Sistema voleva ridurmi a
nulla.
La
regressione è uno dei meccanismi di difesa dell’apparato psichico di fronte a
conflitti insopportabili: quando l’individuo nel corso della sua evoluzione e
nel passaggio dall’una all’altra fase di questa evoluzione incontra situazioni
conflittuali particolarmente dolorose, esso può appunto reagire abbandonando la
raggiunta fase di evoluzione e riportandosi alle fasi anteriori. [...] La
regressione è sempre predeterminata da una fissazione: essa si produce cioè
nella direzione di quelle fasi di sviluppo, alle quali il soggetto, nel corso
dell’evoluzione originaria, tendeva a rimanere fissato, a rinchiudersi: o per
determinate esperienze a forte soddisfazione vissute in tali fasi o per
particolari difficoltà (situazioni traumatiche) incontrate nel passare alla
fase ulteriore. [...] La connessione fra la regressione attuale e la remota
fissazionne a situazioni precoci è tale che il soggetto si trova attualmente a
rivivere tutte quelle passate difficoltà. [...] Egli rivive – ingigantiti per
questa sua condizione di adulto, ed arricchiti di elementi tratti da quella sua
somma di esperienze – le paure, le angosce, gli impulsi aggressivi ed
autoaggressivi, gli intensi bisogni affettivi, che hanno caratterizzato i suoi
primi contatti oggettuali e la contrastata elaborazione del processo di
formazione dell’io e di distinzione dell’io dall’oggetto.
Il
compito principale di ogni psicoterapia è quello di condurre il malato a
risolvere i conflitti attuali che lo hanno portato nella malattia, in un modo
diverso da quel tentativo (inadeguato) di soluzione al quale è stato avviato
dai meccanismi patologici di difesa che hanno agito in lui. Ma uno dei concetti
fondamentali della psicoanalisi suggerisce che, una volta instauratasi la
malattia, è assai difficile risolvere questi conflitti attuali senza risolvere
contemporaneamente i conflitti remoti (risalenti all’infanzia) che hanno
predisposto l’entrata in azione dei meccanismi patologici di difesa. [...] Si
tratta di far ripercorrere al paziente, che è riportato a quelle prime fasi di
sviluppo, quelle fasi stesse: correggendo per così dire il processo come
storicamente si è determinato. [...] Sarebbe come a dire che si tratta di
prendere questo individuo adulto, ridivenuto in un certo modo e per certi
aspetti un bambino di pochi giorni, privo della coscienza di sé ed incapace di
riconoscere le cose, e portarlo a ripercorrere quell’evoluzione che i bambini
normali percorrono nei primi mesi di vita, finchè giungono a sorridere al volto
della madre, a riconoscere cose e persone, ad esprimere i loro bisogni e
desideri, e ad agire sulla realtà per ottenerne la soddisfazione.
Esiste la
possibilità per stabilire una comunicazione [n.d.r. tra l’analista e il
paziente; l’analista] deve tentare di raggiungere una comunicazione con il
paziente attraverso gli elementi rimasti integri della sua personalità; deve
soddisfare le esigenze affettive del paziente (esigenze che occorre individuare
o interpretare, dato che il paziente è incapace di esprimerle apertamente),
evitando tuttavia che il paziente avverta queste soddisfazioni come pericolose
o proibite.
Bisognava
assolutamente che tenessi conto dello stadio a cui la malata era regredita.[...]
L’assenza dell’amore materno aveva impedito la formazione di un normale
narcisismo. [...] Poichè ella desiderava ritornare nel corpo della madre, non
bisognava più opporsi a tale desiderio ma cercare di soddisfarlo. L’autorizzavo
così a rimanere completamente passiva ed a godere della perfetta tranquillità
del bimbo non ancora nato. Con tale mezzo volevo creare un legame, per quanto
primario, fra la malata e la madre-analista.
Nella mia
camera la semioscurità era verde e questo colore mi dava l’impressione di
trovarmi rinchiusa in un vago mondo di terra e acqua, il che equivaleva per me
a trovarmi nel corpo della Mamma. Ero priva di desideri, ero in uno stato
passivo ma ideale poichè la sofferenza era terminata ed era la Mamma che mi
procurava tale felicità. Finalmente, pensavo, mi riceve, mi accetta nel suo
corpo; un immenso sollievo mi invadeva, ero nel seno materno, nel paradiso! Da
quel momento ebbi una fiducia profonda nella Mamma ed incominciai ad amarla,
come non l’avevo mai amata fin allora. Che lei soddisfacesse il mio più caro
desiderio, che io fossi racchiusa in lei, mi colmava di felicità e mi dava la
prova perfetta del suo amore.
[...] e
deve infine, attraverso il dosaggio di queste soddisfazioni affettive, portare
il paziente a rivivere le fasi rimaste turbate, della costruzione della sua
personalità infantile, e dello stabilimento di normali rapporti con la realtà.
[...] Bisognava [...] che passassi al seguente solo le malata avesse
manifestato il desiderio. [...] Incominciai allora ad occuparmi di una
bambola. A questo modo presentavo alla
malata un modello nel quale io suo Io inconscio avrebbe potuto proiettarsi.
[...] Renée assistette passivamente alle cure che prodigavo a Ezéchiel, godendo
per procura. Intanto diveniva più facile nutrirla, specialmente se “allattavo”
Ezéchiel proprio prima dei pasti.
Ero a
questo punto, quando la Mamma incominciò ad occuparsi amorevolmente di una
bambola: un bebé di qualche mese che avevo nominato Ezéchiel. Ella lo copriva,
lo abbracciava, lo addormentava affettuosamente nella culla. Nei primi giorni
mi accontentai di osservarla attentamente e fui meravigliata nel constatare che
Ezéchiel ricevesse tante carezze e tanto affetto dalla Mamma senza che gli
accadesse nulla di male. [...] Un giorno mi feci coraggio e spinsi la testa di
Ezéchiel, che era nelle braccia della Mamma, sul suo seno. Con quel gesto
volevo sapere se avevo diritto alla vita. [...] Era come se la mamma
occupandosi amorevolmente di Ezéchiel mi desse altrettanti diritti, e
soprattutto, quello di vivere. [...] Accettavo il cibo che mi dava nella misura
in cui Ezéchiel lo riceveva.
Quando si
convinse che volevo nutrire regolarmente Ezéchiel, accettò volentieri di
mangiare anche da sola. Man mano che l’inconscio di Renée è rassicurato dall’amore
della madre-analista nei suoi riguardi, l’energia che era al servizio degli
impulsi autodistruttivi si libererà per trasferirsi sull’istinto di
conservazione dell’Io. [...] Le pulsioni autodistruttrici create dallo stato di
frustrazione furono neutralizzate dall’energia affettiva attinta all’amore
materno.
Una volta
divenuta indipendente per quanto riguarda la nutrizione, il primo enorme passo
verso la realtà fu fatto. Dopo che la Mamma mi ebbe accettata nel suo “verde”
(nel suo seno) la percezione della realtà mutò completamente ai miei occhi; la
riconobbi colma di affettività, animata e vivente.
Renée è
arrivata allo stadio assertivo, secondo la terminologia di Pierre Janet, allo
stadio cioè in cui il soggetto si considera un “personaggio”. Pichon chiama
tale stadio la “persona costruita” in opposizione alla “persona impersonata” in
cui la prima persona interviene come soggetto o completamento.
Incominciai
ad occuparmi della mia persona e ad amarla. E’ stato estremamente importante ed
ha grandemente contribuito a liberarmi dal senso di colpa ed a farmi acquistare
coscienza di me, il modo in cui la Mamma mi parlava. [...] Parlandomi in terza
persona o personificando il mio corpo: «Com’è grazioso questo corpo, ora lo laviamo e lo
profumiamo!» lo separava da me, lo rendeva un oggetto indipendente che io
consideravo allo stesso modo di come potevo considerare il corpo di Ezéchiel.
Copiando le
azioni altrui il bimbo acquista progressivamente coscienza di sé; allo stesso
modo Renée, copiando la madre, ha preso coscienza di sé. [...] Renée non è più
un personaggio, ma una persona, un essere.
[...] Dopo
essermi occupata qualche tempo con la Mamma della mia persona, potei farlo
senza di lei ma parlandomi esattamente come la Mamma mi parlava. Quando poi
riuscii ad assumermi la responsabilità di amarlo, osai dire: «Il mio corpo, io mi lavo, sono graziosa. ». Attraverso
la Mamma avevo imparato ad amarmi e la unità della mia personalità era quasi
compiuta.
Non aveva
ancora investito di libido i settori sociali della personalità della madre.
[...] Non
potevo ancora accettare che la Mamma appartenesse al resto del mondo.
Stabilendo
rapporti sicuri fra il suo Io e la madre-sociale Renée si incamminava verso la
logica delle relazioni.
Col tempo,
dopo essermi emancipata nel campo del nutrimento prima, della pulizia e della
cura della persona dopo, accettai di pensare in modo diverso dal suo, senza che
per questo la mia percezione della realtà dovesse mutare.
Renée ha
così attraversato, come il bambino piccolo, tutti gli stadi dell’imitazione
fino al termine del lavoro di introiezione e di identificazione della madre
amata. Ma la sintesi dell’Io non è veramente compiuta fino a quando la malata
non ha coscienza di essere corpo. E’ infatti attraverso il corpo che la
coscienza percepisce le sensazioni esterne. [...]
Dal momento
in cui il realismo affettivo è completamente dissolto dal lavoro di
introiezione e d’identificazione alla madre che l’ama, la sintesi dell’Io di
Renée è veramente compiuta. L’energia libidica, che era investita negli
elementi formatori della psicosi, si è messa al servizio dell’Io. L’Io oramai
libero ed autonomo, si adatterò sempre meglio alla realtà ed alle esigenze del
mondo esterno.
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