Marcel Proust
PPC=Pour prendre congé
Ma la ruota gira, sempre, nella
vita, e ci ripaga della stessa moneta.
Così a nostra volta diventiamo amanti,
creatori di illusioni dolorose. L'immagine del nostro amato che ci torna e ci
fa soffrire non è l'immagine reale della persona che abbiamo di fronte, bensì
la proiezione dei desideri e delle speranze nutrite verso l’essere desiderato.
Viviamo in un mondo falsato dalle nostre emozioni. Perdiamo il contatto con la
persona che è oggetto del nostro amore e quando la realtá, infine, si svela al
nostro cuore, nella sua crudezza, l’amore lentamente volge alla fine, avvolto
da una finta indifferenza, simulata per colpire quell’essere indegno del nostro
amore. E quando l’indifferenza diventa alla fine reale e ci spinge a volgere le nostre
attenzioni altrove, può capitare che quella che un tempo avremmo definito come
“felicità” e nostra aspirazione assoluta, arriva, ma troppo tardi, perchè oramai non
ci interessa più.
Un amore che finisce è capitato a
tutti. Abbiamo sofferto, il nostro cuore si è straziato. Abbiamo pensato di
morirne. Ma prima o poi, è successo, ed abbiamo cessato di desiderare.
Marcel Proust percorre un'analisi lucida,
terribilmente razionale eppure di un lirismo ineccepibile, della fine del suo
amore per Gilberte, ardentemente desiderato e mai corrisposto. Tutti possiamo ritrovarci, in queste pagine, perchè tutti prima
o poi abbiamo sofferto, in tutte le sfumatore possibile, quel sentimento inequivocabilmente
doloroso, che ci rende sperduti e ci toglie la gioia della vita.
È Proust, potevamo aspettarci di meno?
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«L’idea che per molto tempo ci
siamo fatti di una persona occlude gli occhi e le orecchie.»
«Pochi capiscono il carattere
puramente soggettivo di quel fenomeno che è l’amore, e com’esso sia una specie
di creazione d’una persona supplementare, distinta da quella che porta lo
stesso nome in società, una persona di cui la maggior parte degli elementi sono
opera nostra. Perciò pochi sono coloro cui appaiono naturali le proporzioni
enormi che finisce con l’assumere per noi un essere che non è lo stesso che
essi vedono.»
«Soffiava un vento umido e dolce.
Era un tempo che conoscevo; ebbi la sensazione ed il presentimento che il
Capodanno non fosse un giorno diverso dagli altri, che non fosse il primo
giorno d’un mondo nuovo dove avrei potuto, con probabilità ancora intatte,
rifare la conoscenza di Gilberte come al tempo della Creazione, come se non
esistesse ancora un passato, come se fossero state annientate, con gli indizi
che se ne sarebbero potuto trarre per l’avvenire, le delusioni che Gilberte a
volte mi aveva date: un nuovo mondo dove nulla sussistesse dell’antico... nulla
fuorché una cosa: il mio desiderio che Gilberte mi amasse. Capii che, se il mio
cuore si augurava di vedersi rinnovato d’intorno un universo che non l’aveva
appagato, era perché lui, il mio cuore, non era cambiato, e mi dissi che non
c’era ragione perché fosse cambiato quello di Gilberte; sentii che quella nuova
amicizia era la stessa, così come un fossato non separa dagli altri gli anni
nuovi che il nostro desiderio, senza poterli raggiungere né modificare, ricopre
a loro insaputa d’un nome diverso.
Tornai a casa. Avevo vissuto il
Capodanno degli uomini vecchi che differiscono in quel giorno dai giovani non
perché non ricevono più strenne, ma perché non credono più all’anno nuovo. Strenne io ne avevo avute, ma non quell’unica
che mi avrebbe fatto piacere e che sarebbe stato un rigo di Gilberte. Eppure,
ero ancora giovane, nonostante questo, se avevo potuto scriverle con la
speranza che il dirle i sogni solitari della mia tenerezza ne risvegliasse di
simili in lei. La tristezza degli uomini invecchiati è di non pensare neppure a
scrivere certe lettere di cui hanno imparato l’inutilità.»
«Un dolore causato da una persona che si ama può essere amaro,
anche quando si inserisce in mezzo a preoccupazioni, occupazioni, gioie che non
abbiano per oggetto quell’essere e da cui la nostra attenzione solo di tanto in
tanto si distolga per tornare a lui. Ma,
quando un simile dolore nasce, come era il caso per me, nel momento in cui la
felicità di vedere quella persona ci colma per intero, l’improvvisa depressione
che allora pervade la nostra anima fino a quel momento soleggiata, protetta e
calma, determina in noi una furibonda tempesta contro cui non saremo capaci di
lottare fino all’ultimo. [...] Stavo per passare per una di quelle congiunture
difficili davanti alle quali accade in generale di trovarsi a parecchie riprese
nella vita e che, benché non sia cambiato carattere né natura – la nostra
natura che crea lei stessa i nostri amori, e quasi le donne che amiamo, e
perfino le loro colpe – ogni volta, vale a dire a ogni età, non si affrontano
mai nella stessa maniera. In quei momenti la nostra vita è divisa e come
distribuita in una bilancia, su due piatti opposti che la contengono per
intero. Nell’uno v’é il nostro desiderio di non dispiacere, di non apparire
troppo umili all’essere che amiamo senza riuscire a comprenderlo, ma che
stimiamo più abile lasciare un poco in disparte perchè non abbia quel senso di
credersi indispensabile che lo allontanerebbe da noi; nell’altro piatto della
bilancia v’è una sofferenza – e non già una sofferenza circoscritta e parziale
– che, al contrario, potrebbe acquietarsi solo se, rinunciando a piacere a
quella donna e a farle credere che possiamo privarci di lei, tornassimo di
nuovo a cercarla. Quando dal piatto su cui è la fierezza si sottrae una piccola
dose di volontà che abbiamo la debolezza di lasciar logorare con gli anni,
basta aggiungere al piatto dove è il nostro affanno una sofferenza fisica
acquisita ed a cui si è permesso di aggravarsi; e, invece della soluzione coraggiosa
che sarebbe prevalsa a venti anni, sarà l’altra soluzione, divenuta troppo
pesante e senza un contrappeso sufficiente, ad avvilirci a cinquanta. Tanto più
che le situazioni, pur ripetendosi, cambiano, ed è probabile che a metà o alla
fine della vita si sia avuta per se stessi la funesta compiacenza di complicare
l’amore con una parte di abitudine che l’adolescenza, trattenuta da altri
doveri, meno libera di sé, non conosce. »
«Per il fatto di credere che la
mia sofferenza non sarebbe durata, ero in un certo senso costretto a rinnovarla
senza posa. La sofferenza era forse la stessa, ma, invece di limitarsi, come in
passato, a prolungare uniformemente una emozione iniziale, ricominciava
parecchie volte il giorno, esordendo con un’emozione rinnovata così di
frequente che finiva – pur essendo uno stato tutto fisico, essenzialmente
momentaneo – col diventare stabile, in modo che il turbamento causato
dall’attesa aveva a malapena il tempo di calmarsi prima che una nuova ragione
d’attendere sopravvenisse e non c’era più un solo minuto in cui io non fossi
immerso in quell’ansia che pure è tanto difficile da sopportare per un’ora.
Così la mia sofferenza era infinitamente più crudele che al tempo di
quell’antico Capodanno, perchè questa volta c’era in me, invece
dell’accettazione pura e semplice della sofferenza, la speranza, a ogni
istante, di vederla cessare. All’accettazione finii tuttavia per arrivare. »
«Quando, meglio che con le
parole, con azioni indefinitamente ripetute, le avessi provato che non mi stava
a cuore vederla, forse io le sarei stato di nuovo a cuore. Ahimé! Inutilmente:
cercare, col non vederla più, di rianimare in lei il desiderio di vedermi,
voleva dire perderla per sempre; prima di tutto, perché, quando quel desiderio
fosse cominciato a rinascere in lei, se volevo che durasse avrei dovuto non
cedergli subito; e d’altrone, le ore più crudeli sarebbero passate; ella mi era
indispensabile in quel momento ed avrei voluto poterla avvertire che presto,
rivedendomi, non avrebbe calmato che un dolore a tal punto diminuito da non
essere più, come lo sarebbe stato ancora in quel momento, e se ella vi avesse
messo fine, un motivo di capitolazione, una ragione per riconciliarci e
rivederci. E più tardi, quando avrei potuto finalmente confessare senza pericolo
a Gilberte, tanto la sua inclinazione per me avrebbe ripreso forza, la mia
inclinazione per lei, questa non avrebbe potuto resistere ad un così lungo
distacco e non sarebbe più esistita: Gilberte mi sarebbe divenuta indifferente.
»
« La visione costante di quella
felicità immaginaria mi aiutava a sopportare la distruzione della felicità
reale. Con le donne che non ci amano, come con i “dispersi”, sapere che non si
ha nulla da sperare non impedisce di continuare ad attendere. Si vive in
agguato, in ascolto.»
«Quando si ama, l’amore è troppo
grande perché possa trovar posto tutto quanto in noi; s’irradia verso la
persona amata, incontra in lei una superficie che lo arresta, lo costringe a
tornare verso il punto di partenza, e questo rimbalzo della nostra stessa
tenerezza noi lo chiamiamo i sentimenti dell’altro, lo troviamo tanto più dolce
di quanto fosse all’andata, perchè non sappiamo che proviene da noi. »
«Il rimpianto, infatti, come il
desiderio, non cerca di analizzarsi, ma di soddisfarsi; quando si comincia ad
amare si passa il tempo non a comprendere che cosa sia il nostro a more,
ma a preparare la possibilità dei
convegni dell’indomani. Quando si rinuncia, si cerca non già di conoscere il
proprio dolore, ma di offrirne, a colei che lo causa, l’espressione che ci
sembra più tenera. Si dicono le cose che si prova il bisogno di dire e che
l’altra non capirà, si parla solo per se stessi. Ioo scrivevo: “Credevo che non
sarebbe stato possibile. Mi accorgo, ahimé, che non è poi tanto difficile”.
Dicevo anche: “Probabilmente non vi vedrò più.”, lo dicevo continuando a
guardarmi da una freddezza che lei avrebbe potuto credere simulata, e quelle
parole, scrivendole, mi facevano piangere, perchè sentivo che esprimevano non
quel che avrei voluto credere, ma ciò che sarebbe accaduto in realtà. Perchè
alla prossima richiesta di appuntamento che Gilberte mi avrebbe fatto
rivolgere, io avrei avuto ancora, come questa volta, il coraggio di non cedere,
e, di rifiuto in rifiuto, sarei giunto a poco a poco al momento in cui, a forza
di non averla più vista, non avrei desiderato più di vederla. Piangevo, ma
trovavo il coraggio, assaporavo la dolcezza, di sacrificare la felicità
d’esserle accanto alla possibilità di esserle un giorno gradito, un giorno in
cui, ahimé, riuscirle gradito mi sarebbe stato indifferente. La stessa ipotesi,
pur così verosimile, che in quel momento, come lei aveva sostenuto durante
l’ultima visita che le avevo fatto, Gilberte mi amasse, che ciò ch0io prendevo
per il fastidio che si prova vicino a qualcuno di cui si è stanchi fosse dovuto
soltanto ad una suscettibilità gelosa, ad una finta indifferenza analoga alla
mia, questa stessa ipotesi non faeva che rendere meno crudele la mia
risoluzione. Mi sembrava allora che entro qualche anno, dopo che ci saremmo
dimenticati l’uno dell’altra, quando avrei potuto dirle retrospettivamente come
quella lettera che in quel momento le stavo scrivendo non fosse stata affatto
sincera, ella mi avrebbe risposto: - Ma come, mi amavate? Se sapeste come
l’aspettavo, quella lettera, come speravo in un appuntamento, come mi faceste
piangere! – Mentre ero intento a scriverle, appena di ritorno da sua madre, il
pensiero che forse stavo commettendo proprio un simile malinteso, quel
pensiero, per la sua stessa tristezza, per il piacere d’immaginare che ero
amato da Gilberte, mi spingeva a continuare la mia lettera. »
«Si può ben amare il veleno che
ci fa soffrire: quando qualche necessità ce ne priva già da qualche tempo, non
si può non attribuire un certo pregio alla quiete a cui non si era più avvezzi,
all’assenza di emozioni e di sofferenze. Se non siamo del tutto sinceri quando
ci diciamo che non vorremmo mai rivedere l’essere amato, non saremmo neppure
tali se si dicesse che vogliamo rivederlo. Non c’è dubbio, infatti, che si può
sopportare la sua assenza solo promettendosela breve, pensando al giorno in cui
lo rivedremo; ma d’altra parte, sentiamo fino a qual punto questi sogni
quotidiani d’un ricongiungimento prossimo e sempre rinviato siano meno dolorosi
di un incontro cui probabilmente farebbe seguito la gelosia: di modo che la
notizia che si sta per rivedere l’essere amato darebbe una commozione poco
piacevole. Quel che ora si rimanda di giorno in giorno non è più la fine
dell’intollerabile ansia causata dalla separazione, è il temuto ricominciare di
emozioni da cui non c’è scampo. Ad un simile incontro si preferisce il ricordo
docile, - che completiamo a piacer nostro di fantasticherie, dove colei che in
realtà non ci ama ci fa invece delle dichiarazioni; il ricordo che,
mischiandovi a poco a poco molto di quel che si desidera, si può render dolce
quanto si vuole, si preferisce all’incontro rinviato in cui si avrebbe a che
fare con un essere al quale non detteremmo più a piacer nostro le parole
desiderate, ma di cui subiremmo le rinnovate freddezze, le violenze inattese.
Sappiamo tutti quando non amiamo più, che l’oblio, e anche il ricordo vago, non
cagionano tante sofferenze quanto l’amore infelice. Era d’un simile oblio
anticipato ch’io preferivo, senza confessarmelo, la riposante dolcezza.
D’altronde, quel tanto di
doloroso che può avere una simile cura di distacco psichico e d’isolamento va
diminuendo sempre più per un altro motivo: perchè indebolisce, in attesa di
guarirla, quell’idea fissa che è un amore. [...] La rassegnazione, modalità
dell’abitudine, permette a certe forze di accrescersi indebitamente. Quelle che
io possedevo in misura tanto ridotta per sopportare il mio dolore, la prima
sera della rottura con Gilberte, erano state portate col tempo ad una potenza
incalcolabile. Soltanto, la tendenza di tutto ciò che esiste a prolungarsi, è
talvolta troncata da impulsi improvvisi ai quali ci abbandoniamo con tanto meno
scrupolo, in quanto sappiamo per quanti giorni, per quanti mesi, abbiamo
potuto, ancora potremmo privarci. E spesso, proprio quando la borsa in cui si
accumulava il nostro risparmio sta per essere colma, proprio allora la vuotiamo
di colpo, smettiamo la cura senza attenderne il risultato, e quando già ci
siamo abituati ad essa.»
«A causa di ciò che si ama e che
un giorno ci sarà indifferente, si rifiuta con sdegno di vedere ciò che oggi ci
è indifferente, che domani ameremo, che forse, se avessimo consentito a
vederlo, si sarebbe potuto amar prima, ed avrebbe così abbreviato le nostre
sofferenze presenti, per sostituirle, è vero con altre. »
«La lontananza può essere
efficace. Il desiderio, la voglia di rivederci, finiscono col rinascere nel
cuore che attualmente ci disconosce. Soltanto, ci vuole del tempo. E le nostre
esigenze riguardo al tempo non sono meno esorbitanti di quelle avanzate dal
cuore per mutare. Anzitutto, il tempo è proprio ciò che accordiamo meno
facilmente, perchè la nostra sofferenza è crudele e siamo ansiosi di vederne la
fine. Inoltre, del tempo di cui l’altro cuore avrà bisogno per mutare, il
nostro si servirà per mutare anch’esso, dimodoché, quando lo scopo propostoci
diventerà accessibile, che non c’è felicità a cui, quando non sarà più per noi
una felicità, non finiremo col giungere, una simimle idea importa una parte, ma
solo una parte di verità. La felicità ci coglie quando ci è divenuta
indifferente. Ma precisamente quasta indifferenza ci ha resi meno esigenti e ci
consente di credere retrospettivamente che quel bene ci avrebbe resi felici in
un tempo in cui forse ci sarebbe sembrato molto incompleto. Non siamo molto
difficili né molto buoni giudici riguardo alle cose che non ci stanno a cuore.
L’amabilità di un essere che non amiamo più, e che sembra ancora eccessiva alla
nostra indifferenza, probabilmente sarebbe stata molto lontana dal bastare al
nostro amore. Quelle parole tenere, quell’offerta d’un convegno, pensiamo al
piacere che ci avrebbero dato, e non a tutte le parole, a tutte le offerte da
cui avremmo voluto vederle immediatamente seguite e che tale avidità forse avrebbe
impedito s’avverassero. Sicché nulla assicura che la felicità sopravvenuta
troppo tardi, quando non se ne può più godere, quando non si ama più, sia
proprio la stessa la cui mancanza ci rese tanto infelici in passato. Una sola
persona potrebbe deciderlo, in nostro “io” di allora; ma non c’è più; e senza
dubbio basterebbe che ritornasse perché, identica oo no, la felicità svanisse.
»
«Finché il nostro cuore racchiude
in modo permanente l’imagine di un altro essere, non è solo la nostra felicità
che può essere ad ogni momento distrutta; ma, quando tale felicità è svanita,
quando abbiamo sofferto, e poi siamo riusciti ad addormentare a nostra
sofferenza, non meno illusoria e precaria della felicità è la nostra calma.
[...] D’altronde chi soffre per amore è, come si dice di certi ammalati, il
medico di se stesso. Siccome può ricevere consolazione solamente dalla persona
che è causa del suo dolore, e di cui quel dolore è un’emanazione, proprio in
esso finisce col trovare un rimedio. Un rimedio che a un certo momento il
dolore stesso gli scopre. Perché, man mano che egli lo rimugina dentro di sé,
il dolore mostra un aspetto nuovo della persona rimpianta, a volte così odioso
che non si ha più neppure il desiderio di rivederla, perchè prima di poter
provare il piacere di star con lei bisognerebbe farla soffrire, a volte così
dolce che questa dolcezza che le attribuiamo le si fa un merito e si ritrae un
motivo di speranza. [...] Prima di tutto, in coloro che amano e sono
abbandonati, il sentimento d’attesa – sia pure d’attesa inconfessata – in cui
vivono e si trasforma da sé, e benché in apparenza identico, ad un primo stato
da succedere un secondo esattamente contrario. Il primo era la conseguenza, il
riflesso degli incidenti dolorosi che ci avevano sconvolti. L’attesa di ciò che
potrebbe accadere è mista di spavento, tanto più che desideriamo in quel
momento, se nulla di nuovo ci viene da parte di colei che amiamo, agire noi
stessi, e non sappiamo bene quale sarà il risultato d’un passo dopo il quale
forse non sarà più possibile tentarne altri. Ma presto, senza che ce ne
rendiamo conto, la nostra attesa, che continua, è determinata, l’abbiamo
veduto, non più dal ricordo del passato che si è subito, ma dalla speranza d’un
avvenire immaginario. Da allora in poi, essa è quasi piacevole. Inoltre, nel
corso della sua prima fase, ci siamo abituati a vivere nell’aspettativa. La
sofferenza che abbiam provata durante i nostri ultimi convegni sopravvive
tuttora dentro di noi, ma già assopita. Non abbiamo troppa premura di
rinnovarla, tanto più che non vediamo bene che cosa orami chiederemmo. Il
possesso un poco più ampio della donna mata non farebbe che renderci più
necessario quel che non possediamo, e che resterebbe, nonostante tutto, nascendo
i nostri bisogni dalle nostre soddisfazioni, qualcosa d’irriducibile.»
«Certi stati di coscienza, a cui
l’essere amato rimane estraneo, occupano allora un posto che, per quanto
piccolo sia da principio, è tanto di sottratto all’amore che occupava l’animo
per intero. Bisogna cercare di nutrire, di fare crescere quei pensieri, mentre
declina il sentimento che non è più se non un ricordo, in modo che i nuovi
elementi introdotti nello spirito gli disputino, gli strappino una porzione
sempre più grande dell’animo, e finalmente glielo tolgano tutto. Io mi rendevo
conto che era la sola maniera di uccidere un amore, ed ero ancora abbastanza
giovine, abbastanza coraggioso per tentare di farlo, per assumere il più
crudele dei dolori, quello che nasce dalla certezza che, per quanto lungo possa
essere il tempo che impiegheremo, vi si riuscirà. »
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