Il grande Gatsby (titolo
originale: The Great Gatsby) è un romanzo dello scrittore statunitense Francis
Scott Fitzgerald pubblicato per la prima volta a New York il 10 aprile 1925 e
definito da T.S. Eliot "il primo passo in avanti fatto dalla narrativa
americana dopo Henry James".
Ambientato a New York e a Long Island durante
l'estate del 1922, Il grande Gatsby è il più acuto ritratto dell'anima dell'età
del jazz, con le sue contraddizioni, il suo vittimismo e la sua tragicità.
La storia, che secondo la tecnica di Henry
James viene raccontata da uno dei personaggi, narra la tragedia del mito
americano che aveva retto il paese dai tempi dello sbarco a Plymouth Rock e può
essere considerata l'autobiografia spirituale di Fitzgerald che, ad un certo
punto della sua vita, chiuso con l'alcolismo e con la vita da playboy, vuole
capire quali erano stati gli ostacoli che avevano inabissato la sua esistenza.
In questo libro, come scrive il suo biografo Andrew Le Vot,[1] Fitzgerald "riflette meglio che in tutti i suoi scritti autobiografici il cuore dei problemi che lui e la sua generazione dovettero affrontare... In Gatsby, pervaso com'è da un senso del peccato e della caduta, Fitzgerald assume su di sé tutta la debolezza e la depravazione della natura umana".
Scritto utilizzando in modo
magistrale la tecnica dello scorcio, Fitzgerald riesce ad intrecciare gli
avvenimenti presenti con quelli passati in nove brevi capitoli. Le scene sono
concatenate rapidamente con un distacco obiettivo e la prosa, scorrevole e
modulata, indica un cambiamento nella narrativa dello scrittore che si avvicina
alla forma di Henry James e Joseph Conrad.
Numerosi sono i temi dell'opera,
tra i quali spiccano quelli della mancanza di affetti autentici, del crollo dei
miti, del peccato e dell'inferno. Ma il tema principale del romanzo è quello
della solitudine, della incomunicabilità e dell'indifferenza. Nessuno comunica
alle lussuose feste di Gatsby, che sono invece solo "entusiastici incontri
tra gente che non si conosceva neanche di nome".
Il più solo di tutti i personaggi
è appunto Gatsby nella cui lussuosa villa si svolgono quelle feste favolose
alle quali egli non partecipa. Tutto ciò che avviene nella sua casa avviene per
il solo scopo di poter far venire da lui Daisy.
Il romanzo venne tradotto per la
prima volta in Italia nel 1936 da C. Giardini con il titolo Gatsby il magnifico
e nel 1950 da Fernanda Pivano con il titolo Il grande Gatsby.
Il libro venne rappresentato
sulle scene nel 1926 dal drammaturgo Owen Davis e in opera musicale nel 1999 da
John Harbison. Da esso furono tratte anche tre versioni cinematografiche: la
versione muta del 1926, la versione del 1949 del regista Elliott Nuget
interpretato da Alan Ladd e quella del 1974 con la regia di Jack Clayton e la
sceneggiatura di Francis Ford Coppola interpretato da Robert Redford e Mia
Farrow. Una quarta versione cinematografica
sarà in sala dal 16 maggio del 2013 a firma del registra Baz Luhrmann con
Leonardo Di Caprio e Carey Mulligan.
Brevi citazioni
Astenersi dal giudicare implica
un’infinita speranza.
Alta sulla città, la fila delle
nostre finestre gialle deve aver contribuito a far condivideere la sua parte di
segreti umani con lo spettatore casuale giù nella strada buia, e anch’io lo
ero, ero dentro e fuori, contemporaneamente incantato e respinto
dall’inesauribile varietà della vita.
E’ invariabilmente triste
guardare con occhi nuovi cose alle quali ci eravamo già adattati.
Gatsby
Sorrise con aria comprensiva –
molto più che comprensiva. Era uno di quei rari sorrisi dotati di eterna
rassicurazione, che s’incontrano quattro o cinque volte nella vita.
Fronteggiava – o sembrava fronteggiare – l’intero mondo esteriore per un
istante, e poi si concentrava su di te con un irresistibile pregiudizioa tuo
favore. Ti capiva fin dove volevi essere capito, credeva in te fin dove ti
sarebbe piaciuto credere in te, e ti assicurava di aver ricevuto da te
esattamente l’impressione migliore che speravi di dare. Precisamente in
quell’istante svaniva – e io mi trovavo di fronte a un elegante proletario poco
più che trentenne, la cui ricercatezza nel parlare sfiorava di poco il
ridicolo. Già prima che si presentasse avevo avuto l’impressione che ricercasse
con cura le parole.
[...] James Gatz – questo era il suo vero nome
o almeno quello legale. L’aveva cambiato a diciassette anni nel momento stesso
in cui ebbe inizio la sua carriera – quando vide lo yacht di Dan Cody buttare
l’ancora nella secca più insidiosa del Lago Superiore. Era James Gatz quello
che stava bighellonando sulla spiaggia quel pomeriggio con un vecchio maglione
verde e dei pantaloni di tela, ma era già Jay Gatsby quello che prese in
prestito una barca a remi, accostò al Tuolomée e informò Cody che poteva essere
sorpreso dal vento e affondare in mezz’ora.
Immagino che avesse avuto il nome
pronto da tempo, perfino allora. I suoi genitori erano contadini incapaci e
falliti – la sua immaginazione non li aveva mai accettati come genitori. La
verità è che Jay Gatsby di West Egg, Long Island, scaturiva dalla platonica concezione
di se stesso. Era figlio di un dio – e doveva occuparsi degli affari del Padre,
servire una vasta, volgare e falsa bellezza. Perciò inventò questa storia di
Jay Gatsby che giusto un ragazzino di diciassette anni poteva inventare e vi
restò fedele fino alla fine.
Per oltre un anno aveva battuto
la costa del sud del Lago Superiore come pescatore di molluschi e salmoni o
facendo qualsiasi altra cosa che gli procurasse da mangiare e da dormire. Il
suo corpo abbronzato e sempre più resistente non faticava troppo con quei
lavori un po’ pesanti e un po’ pigri di quei giorni eccitanti. Conobbe presto
donne, e siccome lo viziavano, lui cominciò a disprezzarle, le vergini perché
erano ignoranti, le altre perché erano isteriche per cose che nel suo egoismo
predominante dava per scontate.
Ma il suo cuore era in costante e
turbolenta rivolta. Le più grottesche ambizioni lo braccavano la notte nel
letto. Il suo cervello tesseva un universo di ineffabile lusso mentre
l’orologio ticchettava sul lavabo e la luna bagnava di luce i suoi vestiti
ammucchiati sul pavimento. Ogni notte accresceva quest’intreccio di fantasie
finché la sonnolenza non si chiudeva con un abbraccio incurante su qualche
vivida scena. Per qualche tempo questi sogni ad occhi aperti gli procurarono uno
sfogo per la sua immaginazione; erano un soddisfacente indizio dell’irrealtà
della realtà, una promessa che la saldezza del mondo era di sicuro fondata
sulle ali di una fata.
L’istinto della gloria futura
l’aveva condotto, alcuni mesi prima, al college luterano di St.Olaf nel
Minnesota del sud. Restò là due setimane, sbigottito per la feroce indifferenza
verso i tamburi di gloria del suo destino, del destino stesso, e disprezzando
il lavoro di portiere che doveva fare per pagarsi gli studi. Allora si lasciò
andare alla deriva verso il Lago Superiore e stava ancora cercando qualcosa da
fare il giorno in cui Dan Cody buttò l’ancora nella secca.
[...] Per il giovane Gatz,
appoggiato ai remi col naso all’insù verso il parapetto del ponte, quello yacht
rappresentava tutta la bellezza e il fascino del mondo. Immagino abbia sorriso
a Cody – aveva già probabilmente scoperto che piaceva alla gente quando
sorrideva. Ad ogni modo Cody gli fece un paio di domande (una delle quali
sollecitò il nome nuovo di zecca) e lo trovò sveglio e ambizioso in modo
stravagante. Qualche giorno dopo lo portò a Duluth e gli comprò una giacca blu,
sei paia di pantaloni di tela bianca e un berretto da yacht. E quando il
Tuolomée partì per le Indie Occidentali e la Barbary Coast, partì anche Gatsby.
Era stato assunto con un incarico
vago – mentre stava con Cody era a turno maggiordono, secondo di bordo,
skipper, segretario e perfino carceriere, visto che Dan Cody sobrio sapeva a
quali acialacquatrici azioni si lasciava andare il Cody ubriaco, e si premunì
contro queste situazioni riponendo sempre più fiducia in Gatsby. L’accordo durò
cinque anni, durante i quali la barca fece tre volte il giro del continente.
Avrebbe potuto durare all’infinito, se una notte Ella Kay non fosse salita a
bordo a Boston e una settimana più tardi Dan Cody non fosse morto, con poco
riguardo per l’ospitalità.
[...] E fu da Cody che ereditò i
soldi – un legato di venticinquemila dollari. Non li ebbe. Non capì mai il
cavillo legale che fu usato contro di lui, ma i milioni che erano rimasti
andarono tutti a Ella Kaye. Gli rimase la sua singolarmente appropriata
educazione, il vago contorno di Jay Gatsby aveva preso la forma concreta di
uomo.
[...] Parlò a lungo del passato, e
compresi che voleva recuperare qualcosa, forse una qualche idea di se stesso,
che era finita nell’amore per Daisy. La sua vita era stata disordinata e
confusa da allora, ma se riusciva una sola volta a ritornare a un certo punto
di partenza e ricominciare lentamente tutto daccapo, sarebbe riuscito a capire
la cosa che cercava...
Una notte d’autunno di cinque anni prima stavano camminando con le foglie
che cadevano, e arrivarono a un posto dove non c’erano alberi e il marciapiede
era bianco per il chiarore lunare. Si fermarono e si voltarono l’uno verso
l’altra. Era una notte fresca con quella misteriosa eccitazione che i cambi di
stagione creano. Le luci tranquille delle case ronzavano nell’oscurità e c’era
un fruscio e un bisbiglio tra le stelle. Con la coda dell’occhio Gatsby vide
che gli edifici formavano una scala che saliva fino a un luogo segreto sopra
gli alberi – poteva scalarla, se l’avesse fatto da solo, e una volta là,
avrebbe potuto succhiare il nettare della vita, ingollare l’incomparabile latte
della meraviglia.
Il suo cuore batté sempre più forte quando il viso bianco di Daisy si
avvicinò al suo. Sapeva che baciando quella ragazza, e unendo per sempre quelle
indicibili visioni al mortale respiro di lei, la sua mente non avrebbe più
spaziato come quella di un dio. Perciò aspetto. Ascoltando ancora per un
momento il diapason che aveva battuto su una stella. Poi la baciò. Al tocco
delle sue labbra, Daisy sbocciò per lui come un fiore e l’incantesimo fu
completo.
[...] Ad ogni parola lei si ritraeva
sempre di più in se stessa, perciò lui rinunciò, e solo il sogno morto continuò
a battersi mentre il pomeriggio scivolava via, cercando di toccare ciò che non
era più tangibile, lottando infelice, senza disperazione, per raggiungere
quella voce perduta al di là della stanza.
[...] Ci dovevano essere stati
momenti perfino in quel pomeriggio, in cui Daisy non era stata all’altezza dei
suoi sogni – non per colpa sua, ma per la colossale vitalità della sua
illusione. Era andato oltre lei, oltre tutto. Si era gettato in quella storia
con una passione creativa, accrescendola continuamente, ornandola con tutte le
piume più colorate trovate sulla sua strada. Non c’è fuoco o gelo che possa
sfidare ciò che un uomo può immagazzinare nella sua anima.
[...] Gran parte delle ville costiere era oramai chiusa e non c’era
praticamente nessuna luce eccetto quella incerta e mutevole del traghetto sullo
stretto. E mentre la luna si levava più alta le inutili case cominciarono a
confondersi gradualmente finché non mi resi conto dell’antica isola che spuntò
davanti agli occhi dei marinai olandesi – un seno verde e fresco del nuovo
mondo. I suoi alberi scomparsi, gli alberi che avevano ceduto il posto alla
casa di Gatsby, avevano fatto da ruffiani bisbiglianti all’ultimo e immane dei
sogni umani; per un attimo transitorio e incantato l’uomo doveva aver
trattenuto il respiro alla presenza di questo continente, costretto a
un’estatica contemplazione che né capiva né desiderava, faccia a faccia per
l’ultima volta nella storia con qualcosa commensurato alla sua capacità di meraviglia.
E mentre sedevo là a riflettere sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla
meraviglia di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde sul molo di
Daisy. Aveva fatto molta strada per arrivare a questo prato azzurro, e il suo
sogno gli doveva essere sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non
sapeva che l’aveva già alle spalle, da qualche parte nella vasta oscurità oltre
la città, dove i campi bui della repubblica si stendevano nella notte.
Gatsby credeva nella luce verde, al futuro orgiastico che anno dopo anno
indietreggia di fronte a noi. Ci è sfuggito allora, ma non importa – domani
correremo più forte, allungheremo ancora di più le braccia... E una bella
mattina...
Così remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.
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