Ci sono dei piccoli gioielli che viaggiano indisturbati per il mondo.
Parole che profumano di sogni, di stelle che brillano, di poesia.
A volte ci si inciampa per caso.
E quando chiudi l'ultima pagina, ti soffermi sull'ultima riga, incapace di abbandonarlo.
Francesco De Masi, Da quest'isola lontana.

Dammi un
cesto..
voglio
metterci dentro, come lucciole al buio,
i bagliori
dei bei momenti che abbiamo
passato
insieme
e portarli
nel mio cuore per sempre...
(Fatima
Tognetti)
In un caldo pomeriggio di luglio Mauro, affacciato alla
finestra, guarda le macchine ferme al semaforo che vanno verso il mare e
ripensa con nostalgia ai momenti della sua vita, alle persone incontrate, agli
amici che non ci sono piu', alle donne che ha conosciuto nella speranza di
cancellare il ricordo di Ester il suo amore perduto. Nello stesso giorno, in
un'altra città, Stella sta cercando il modo per dimenticare un amore
impossibile e lontano. Due solitudini che si incontrano, che provano a
conoscersi e ad amarsi.
Poesia della parola,
di Bruno Cascianelli
Da quest’isola lontana, ti scrivo... Ma siamo proprio sicuri
che quest’isola di Francesco De Masi sia proprio così lontana come vuole farci
intendere lui? No, l’isola è così vicina che addirittura la porta dentro di sé,
che tutti, quell’isola, la portiamo dentro di noi. Perché è l’isola dei
ricordi, dei sogni, delle speranze. E’, anche, l’isola della poesia. Della
poesia della parola che Francesco De Masi sa amalgamare come nessun altro, che
fa della parola poesia pura e della poesia la parola detta per eccellenza,
quella parola che trova echi e risonanze nella vita vera, quella che conta. La
vita dei sentimenti, delle emozioni. In questo lavoro, dalla trama semplice in
apparenza, tutto avviene dentro il protagonista, ed avviene, sembra, quasi
contemporaneamente: il ricordo indelebile di Ester, l’amore che non si
dimentica mai ("eravamo insieme. Tutto il resto del tempo l’ho scordato"), Ester che era
stato il sogno di invecchiare insieme e che invece invano provava ancora a
dimenticarla. Perché come si fa a dimenticare quel "bacio dato per gioco
in riva al mare di primavera". E poi Stella, l’amore virtuale che per
nessuna ragione al mondo è meno amore dell’altro, perchè un giorno...
"forse ci incontreremo saremo seduti al tavolino di un Bar a bere un caffè
e ci guarderemo finalmente negli occhi e ci diremo così le cose che ora ci stiamo
scrivendo". Ecco, la poesia di Francesco De Masi sta proprio qui, nel
suono di queste parole, nell’organizzazione delle parole stesse nel contesto
della frase, sicché non ha alcun senso andare
a cercare la trama della storia, perché la vera storia è questa. E lui,
Francesco, che con un sorriso quasi di timidezza afferma "Ah, qualche
volta dipingo", io dico che lui dipinge sempre, e da maestro sopraffino:
sa dare la perfetta sfumatura ad ogni parola, trasformarla da prosa in poesia,
farne un quadro da appendere davanti alllo sguardo per non dimenticare, per
vivere, per sperare, per continuare a sognare. No, davvero quell’isola non è
così lontana.
Citazioni
Non bisogna amare perché si è soli, bisogna amare per dare
significati piccoli e grandi alle cose che si fanno, alle parole che si dicono,
alle carezze date e ricevute, bisogna amare perché senti come un brivido lungo
la schiena ed il desiderio folle di passare il tempo, tutto il tuo tempo con
l’altra persona, perché è corto il tempo della vita, troppo e non ti accorgi di
come passano gli anni se non quando guardi indietro e non li trovi, quando ti
rendi conto che scappano via lasciando sempre una scia di nostalgia e di
rimpianto, di ciò che poteva essere e non è stato, di quanto si poteva fare e
non si è fatto, le occasioni perse, le speranze svanite e con i sogni
trasformati ormai in incubi crudeli e beffardi. Ma per amare, come per vivere
occorre coraggio o forse incoscienza, spezzare le funi che ci tengono legati a
luoghi e persone, talvolta con un ricatto di sentimento egoistico e sottile e
ci giustifichiamo col non volere far male o deludere, ma in quel momento, in
quello stesso momento ci facciamo male da soli molto di più che non andare via,
col coraggio di ricominciare.
Perché non provarci, senza infrangere i vetri delle
finestre, senza lasciare le imposte sbattere al vento di una incerta fuga, ma
semplicemente provare ad uscire piano, senza far rumore e vedere il mondo
fuori, sola e libera, magari anche con la piccola inconsistente bugia del tanto
fra poco torno e quel poco poteva servire come un inizio, come una prova; e
quel poco poteva diventare un molto, un tanto, un sempre, quel poco poteva voler
dire non torno più, perché è ancora giovane la mia pelle e desiderosa di
carezze, perché ho ancora gli occhi grandi e belli ed i miei riccioli non hanno
alcuna offesa di bianco ma sono ancora d’oro, e d’argento è la mia voce, sulle
mie mani non ci sono le macchie degli anni, ma solo la voglia immensa di
un’altra vita.
Metterò nella mia borsa da viaggio i miei sandali più belli,
i miei vestiti di mirra, i miei riccioli di arcangelo perché quando lo vedrò,
dovrò incantargli gli occhi e disorientargli il futuro.
Questa volta no, non avrebbe fatto l’errore consueto di
illusionista della parola come era sempre stato, non avrebbe giocato alla vita,
perché il tempo vola e gli angeli non passano più di una volta sopra lo stesso
cielo, non avrebbe costruito le difese mille volte ripetute per conservare quel
niente che stringeva nelle mani perché alla fine le luci si spegnevano, i
giornali di oggi diventavano quelli di ieri e lui rimaneva sempre da solo nella
via di casa.
L’avrebbe accolta con il suo sogno di uomo finalmente
sincero, baciandola sulla fronte e chiamandola per nome e lei avrebbe sorriso
stringendosi a lui, con quella sicurezza timida che fa battere il cuore e si
sarebbero inondati di parole per non arrossire per andare oltre l’imbarazzo
dell’ignoto; l’avrebbe riconosciuta dal passo lieve, dal profumo di stelle, dal
violino infinito delle sue mani e tra tutte le voci, nessuna se non la sua,
avrebbe cantato lo splendore di quel giorno.
Avrebbe voluto rivederla, parlarle, ma ormai lei era immune
a qualsiasi rintocco di nostalgia, era approdata al di là di ogni sogno e di
ogni dolore.
Potrai vedere le rughe dei miei ricordi solo se sarai così
bravo a guardare oltre i miei occhi.
Sono nata dove le vocali cantano e ti avvolgano con la
dolcezza della primavera e tutti i giorni indico la rotta per il futuro a chi
lo ha tutto davanti ora che il mio è diventato sottile come carta velina. Non
ti dirò dei miei giorni felici con quell’uomo che sorrideva con gli occhi e
cullava il mio corpo sottile con la leggerezza della seta, eppure anche con lui
era stato per caso, come con te, ma mi ha fatto sentire la voce del fiume
davanti alla finestra mentre l’estate finiva, ha stretto le mie mani nervose
nelle sere ed al mattino e mi ha eletto principessa dei mesi a venire, si è
poggiato piano sui miei seni e gli baciavo gli occhi mentre aspettava, in un
letto non per due, che mi sorprendesse la notte. Non dormiva per vedermi
dormire e mi svegliava, baciandomi le palpebre, con l’aroma del caffè e sentivo
l’odore della sua pelle su di me e sentivo avvolgermi come fosse un mantello
quando mi cercava nel buio e mi parlava piano, dolcemente, con le sue “e”
aperte come melograni a novembre.
Avevano
fatto l’amore
con una passione ed un trasporto fino ad allora sconosciuti
e nel pomeriggio autunnale, Mauro aveva sentito il corpo di Stella sussultare,
accaldarsi, stendersi vicino a lui,sudato e felice. Poi erano usciti con quella
meravigliosa certezza di avere accanto quell’inaspettata distrazione di Dio.
Forse, più probabilmente, la distrazione era stata di Mauro
che fino a quel momento aveva scambiato per sogno ciò che sogno non era,
l’inaspettata bottiglia nel mare era un multiplo di altre bottiglie, il
messaggio per naufraghi si era arenato nei labirinti della sua vita per un
caso, anche se aveva pensato che era solo per lui quel luccichio d’infinito che
era stato sparso nell’etere alla ricerca di un approdo.
Non era per lui, Mauro era stato solo il primo pescatore di
stelle o l’unico a tirare a riva quel frammento d’anima rimanendo stordito dal
profumo di firmamento sperando finalmente in un accordo felice negli equinozi
del suo destino.
L’aveva riconosciuta dal grano dei capelli, nella voce di
velluto, in quella carezza lunga che gli faceva inciampare le parole ed
incrinava la voce ed aveva deciso in quell’istante eterno che sarebbe stata, se
lei l’ avesse voluto, l’unica baia che voleva trovare nelle sue sere senza
luna,l’unico canto di sirena nei suoi giorni di vetro leggero.
L’amore era arrivato senza dirselo, come le sue labbra poche
ore dopo averla incontrata, aveva sentito il caldo della sua pelle sotto la
maglietta leggera, il fremito di donna quando sgusciava via, arrossendo di
desiderio, dalle sue braccia.
E aveva aspettato, non aveva fretta, vedeva tutti gli anni
davanti e che sia bello, almeno per una volta, come quando ragazzo si era
scoperto affannato e felice tra le braccia di Ester. Aveva i suoi stessi
riccioli e gli stessi occhi e la sua voce cantava quando si erano amati la
prima volta in quel nord alpino chiusi in un nido incantato del quattordicesimo
piano con lei che non sussurrava promesse e futuro, anche se tutte e due
avevano la certezza di rivedersi ed amarsi ancora.
Piano, dolcemente, come il giorno sul mare, avevano
continuato ad incontrarsi ed i silenzi erano diventati parole, e le parole
frasi e le frasi promesse, biglietti colorati da cioccolatino, persi nei vicoli
di città sconosciute, confusi nelle stelle degli alberghi e nelle prenotazioni
dei treni, finché tornò il luglio di giubilo nei viali di acacie e buganvillee
fiorite.
E ti ho sussurrato, proclamandoti regina, chiudi gli occhi
amore, questa notte e per tutte le notti a venire, chiudi gli occhi che non si
sente il mare ed il cielo è fermo sopra di noi, tacciono le cicale e si ferma
il mondo perché tu sei qui, finalmente, tra le mie braccia.
E pur non conoscendo il domani e gli inganni del destino, ti
vedevo negli specchi del mio futuro perché credevo di essere padrone del tuo
cuore ed il destinatario dei tuoi pensieri, perché speravo di far cantare la
tua vita, così come tu facevi cantare la mia. e non riesco a capire questo
cruciverba di inganno questo negare i giorni, i sorrisi ed i ricordi per un
interrogativo di attesa.
Eppure pochi attimi prima ero il tuo futuro grande, il tuo
solo presente, il tuo pensiero notturno, l’ansia del tuo domani di sole e
begonie, il solo uomo che amavi, l’unico che poteva capirti. Improvvisamente
ero diventato un dubbio, un’incertezza, un chissà, non ero nemmeno l’amico che
mille volte aveva cercato il tuo cuore, che taceva sui tuoi silenzi che ti
immaginava nelle mattine di freddo e di nebbia. Ero il punto interrogativo
delle tue attese, il cantastorie ignoto delle tue romanze.
Oggi che non riesco a scuotere queste stelle di amarezza
dalla coperta della mia notte vorrei parlarti, ma non sei qui e non mi basta
solo la tua voce che mi giunge da lontano, vorrei vederti, guardarti negli
occhi per sapere in quale stagno di illusione si sono perse le nostre parole.
Si, perché le nostre erano parole e nient’altro, un garbato
modo per rispondere alle mie speranze, una gentilezza dovuta, una cortesia, ma
possibile che solo per questo trovavo il tuo corpo accanto al mio, sentivo la
tua bocca e mi mischiavo al tuo profumo nelle nostre notti di mare, dimmi
perché trovavo le tue mani ogni volta che li cercavo, perché riempivi il mio
tempo con la tua voce sussurrante.
Non ti avevo cercato, ci eravamo incontrati negli incroci di
una comune disperazione e mi ero illuso di vivere quel tratto di vita, lungo o
corto che fosse con la gioia del momento di meraviglia che era l’averti accanto
convinto di leggere dentro i cocci sparsi della tua anima il sorriso che si
apriva assieme alle tue braccia ad ogni tuo arrivo.
Mi hanno insegnato di diffidare sulle lacrime di una donna e
forse è vero perché si erano inumiditi i tuoi occhi sull’ultimo treno nei venti
gelidi di novembre ed io a quelle lacrime, però, avevo creduto, ed avevo fatto
mia la tua tristezza e il tuo dolore, il mio pensiero ti aveva accompagnato
nella strada del ritorno, cullava i tuoi pensieri ed i tuoi desideri, era con
te nelle mattine incerte, nei pomeriggi lunghi, nelle sere e nelle notti, era
con te nei tuoi passi e nei tuoi vestiti, nei tuoi profumi, negli incroci del
traffico, nei supermercati affollati, nel the delle cinque.
Forse, se tu mi avessi chiesto di dirti del domani, sarei
rimasto in silenzio senza sapere cosa dire, ma davo per certo che sarebbe stato
e con te; avevo messo in conto l’amarezza di non conoscere il resto della tua
vita, l’uomo a cui avevi dato i tuoi anni e le cose che con lui avevi diviso,
avevo steso un telo bianco sul nostro mondo ed avevo provato a ricostruire il
tempo dalla sera che avevo stretto le tue mani davanti alla Cattedrale, col vento
di settembre che ti arruffava i capelli ed accarezzava i tuoi occhi inventati.
E poi ti ho amato, come non si deve amare.
E ti amo ancora, anche se ormai conosco gli accordi stonati
dei tuoi pentagrammi per viandanti, anche se ora so che per te le parole hanno
lo stesso senso delle gocce di rugiada sulle onde marine, ti amo ancora non so
se perché fa troppo dolore questa ferita o per ricordarmi di non amare più.
Ed era un amore,
come quello che voleva ancora con la sua voglia caparbia di continuare a
sognare, ed a sbagliare, magari, perché ora l’avrebbe vissuto col desiderio
splendido di una maturità di disincanto, lontano dalla passione senza senso di
un sospiro in più da raccontare; voleva ancora un amore da vivere, ed a lei a
quell’unica, irripetibile ultima lei, avrebbe detto delle sue notti insonni,
del suo dolore di figlio unico, delle parole che non aveva mai trovato per
crescere, a lei, a lei soltanto avrebbe consegnato quella scatola di meraviglia
che era la sua voglia di vita e con lei avrebbe ballato una notte di s.
silvestro tra fuochi di giubilo e petardi di festa.
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