“Stoner è uno dei libri più silenziosi che possa capitare di leggere”
(Daniela Carnevali)
Trama
William
Stoner nasce in una povera famiglia nella campagna del Missouri e inizia a
lavorare nel terreno del padre. Nel 1910, all'età di diciannove anni, accede
all'Università di Missouri e si iscrive alla facoltà di Agraria. Durante un
corso di Lettere e Filosofia il professore legge il sonetto n.73 di Shakespeare
e Stoner ne resta affascinato, perciò dirotta i suoi studi verso la
letteratura. Otto anni dopo si laurea e diventa insegnante presso la stessa
università in cui ha condotto gli studi. Successivamente si sposa con una donna
di nome Edith dalla quale ha una figlia, Grace, ma il loro matrimonio diventa
infelice e contrastato; dopo vari anni si innamora di Katherine Driscoll, una
giovane studiosa conosciuta in un corso ma la loro relazione, che inizialmente
i due riescono a mantenere nascosta, viene scoperta e scatena uno scandalo
all'interno dell'università. Stoner è perciò costretto a lasciare la compagna.
La carriera universitaria prosegue senza successi né promozioni, ostacolata per
venticinque anni dal rettore. Stoner muore nel 1956 all'età di sessantacinque
anni.
Pubblicazione e riscoperta
Il
romanzo, pubblicato nel 1965, inizialmente non riscosse molto successo,
vendendo solo duemila copie. Fu ripubblicato dalla casa editrice statunitense
Vintage Classics nel 2003 e pubblicato di nuovo dal "New York Review of
Books Classics" nel 2006[2]. Grazie al passaparola e ai social network è
diventato ben presto un bestseller e in Italia è stato pubblicato da Fazi
editore nel 2012. È stato apprezzato da pubblico, critica e scrittori,
raccogliendo pareri favorevoli. Lo scrittore inglese Ian McEwan ha detto:
"Appena lo inizi a leggere senti di essere in ottime mani. Ha una prosa
molto lineare. La trama, se ci si limita a elencare i suoi elementi, può
suonare molto noiosa e un po' troppo triste. Ma di fatto è una vita minima da
cui John Williams ha tratto un romanzo davvero molto bello. Ed è la più
straordinaria scoperta per noi fortunati lettori."
Il
mistero di un romanzo perfetto: Stoner, di John Williams
di
Daniela Brogi
Che
Stoner, il terzo romanzo di John Edward Williams (1922-1994), pubblicato nel
1965 ma uscito in traduzione italiana soltanto nel febbraio 2012 (traduz. it.
di S. Tummolini, Fazi), sia tra le narrazioni più belle circolate in questi
anni, è stato scritto ormai molte volte; e torna a dircelo, tra l’altro, anche
il consenso in continua crescita che sta ricevendo quest’opera. Per una rara
coincidenza, successo di vendite e qualità letteraria combaciano, riscattando
un libro che sta per compiere mezzo secolo dal silenzio in cui era rimasto per
decenni, dopo le duemila copie vendute alla sua apparizione. Esattamente come
quella del protagonista, come pure del suo autore, l’esistenza dimenticata di
Stoner è rinata all’attenzione e alla memoria proprio attraverso il racconto,
cioè il passaparola, e così, dopo la ripubblicazione del romanzo, prima in una
riproposta del 2003, poi nel 2006 per The New York Review of Books Classics, e
infine nel 2011 (con postfazione di Peter Cameron); e dopo che l’autrice di
best-sellers Anna Gavalda ha deciso di portare il libro in Europa traducendolo
in francese (Le Dilettante, 2011), “the Stoner phenomenon” è decollato verso un
successo ogni giorno più grande.
Come
mai?
Perché
chi finisce Stoner continua a ripensarci, a tornare sulla storia, magari a
metterla accanto alla propria, sentendo il bisogno di ricominciare a leggere,
come accade quando incontriamo un «romanzo perfetto», com’è stato definito
Stoner? Per provare a rispondere si può ripartire dall’inizio del libro:
William
Stoner si iscrisse all’Università del Missouri nel 1910, all’età di diciannove
anni. Otto anni dopo, al culmine della prima guerra mondiale, gli fu conferito
il dottorato in Filosofia e ottenne un incarico presso la stessa università,
dove restò a insegnare fino alla sua morte nel 1956. Non superò mai il grado di
ricercatore, e pochi studenti, dopo aver frequentato i suoi corsi, serbarono di
lui un ricordo nitido (p. 9).
Questo
inizio non mente: nel corso delle trecento pagine successive, il libro
effettivamente ci racconta una biografia talmente ritirata dai grandi eventi
(di qua la vita particolare; là fuori la guerra), talmente povera di passaggi
rilevanti, talmente incatenata alla necessità, che i suoi sviluppi si allineano
perfettamente alla perentoria sintesi con cui era stata esaurita nelle prime
cinque righe del testo; una vita, insomma, che non potrebbe essere più desolata
e ripetitiva: inutile. Lo stile (la frase asciutta, il linguaggio
referenziale), come la sintassi narrativa organizzata per strutture sequenziali
che scorrono sempre in avanti, rimanendo fedeli alla progressione
logico-temporale, accompagnano l’effetto complessivo di una superficie liscia,
dove la scrittura ha scavato al massimo la frase per renderla più semplificata
che si può. La trama messa su dal libro è, potremmo dire, “inespressiva”, da
quanto è perfettamente attenta, sia nella scelta dei materiali che nella
costruzione di un’inquadratura attorno ad essi, ad assecondare un effetto
tematico, temporale e testuale di scivolamento, di inevitabilità: «Nel giro di
un mese, Stoner realizzò che il suo matrimonio era un fallimento. Di lì a un
anno smise di sperare che le cose sarebbero migliorate. Imparò il silenzio e
mise da parte il suo amore» (p. 89); oppure, quando ha inizio la relazione
extraconiugale: «E così ebbe la sua storia d’amore» (p. 219, che richiama,
forse non ingenuamente, il passaggio flaubertiano «Elle avait eu, comme une
autre, son histoire d’amour», di Un coeur simple ).
Quanto
è prevedibile, dunque, la storia di Stoner, e quanto ci appassiona contro ogni
previsione. Perché?
Per
certi aspetti il libro potrebbe essere un esempio atipico di campus novel, ma
l’ambientazione universitaria è più che altro uno scheletro narrativo di base
per raccontare una storia in cui c’è altro; e non si tratta, a mio parere,
della vita comune in sé vissuta dal personaggio, ma del modo in cui è resa
raccontabile e, soprattutto, memorabile. Stoner non ci parla soltanto di un
uomo medio e ordinario; né è la vicenda di un uomo senza qualità, altrimenti ci
procurerebbe un interesse puramente plastico, relativo cioè all’effetto
d’insieme; piuttosto, il destino di Stoner ci strappa attenzione, persino
identificazione romanzesca, anche perché racconta la ricerca potremmo dire
“antifavolosa” – senza effetti eclatanti d’intreccio, senza colpi di scena
della volontà – di una “quasi-felicità”, come dice il testo, dentro una vita
come tante altre. Non è solo il mistero dell’indifferenza di Stoner a colpirci,
ma la risonanza interrogativa che riesce ad avere, anche al di fuori dell’opera,
dentro i nostri pensieri. Contro il destino stabilito dalle sue origini
famigliari e dalla grande storia, Stoner dice “non importa”, ricordando
qualcosa, in questa degnissima forza di debolezza, della grandezza etica di
Bartleby lo scrivano: con la sua stessa fermezza Stoner decide di studiare
letteratura, di trovare nelle biblioteche il riparo dal lavoro nei campi e
dall’andata in guerra, di insegnare, alla fine della sua carriera, le cose che
più ama.
Anche
questo, però, ancora non basta a spiegare il paradossale carisma del
protagonista di Stoner, che può trovare invece una chiave possibile di lettura
in quello stesso testo grazie al quale, ascoltando una lezione di letteratura,
il personaggio vive un’esperienza di uscita dal tempo e dallo spazio contingenti,
e decide cosa farà da adulto. Si tratta del sonetto 73 di Shakespeare, noto
anche come il sonetto dedicato all’autunno:
In
me tu vedi quel periodo dell’anno
Quando nessuna o poche foglie gialle ancor
resistono
su quei rami che fremon contro il freddo,
nudi archi in rovina ove briosi cantarono gli
uccelli.
In me tu vedi il crepuscolo di un giorno
che dopo il tramonto svanisce all’occidente
e a poco a poco viene inghiottito dalla notte
buia,
ombra di quella vita che tutto confina in
pace.
In me tu vedi lo svigorire di quel fuoco
che si estingue fra le ceneri della sua
gioventù
come in un letto di morte su cui dovrà
spirare,
consunto da ciò che fu il suo nutrimento.
Questo in me tu vedi, perciò il tuo amore si
accresce
per farti meglio amare chi dovrai lasciare fra
breve
(pp. 19-20, traduz.it. di M. A. Marelli)
Stoner
ha vent’anni, eppure capisce che il segreto della letteratura, e della sua
esistenza, sarà questo: saper imparare ad amare la vita tanto più quanto più ne
cogliamo, come nel sonetto di Shakespeare, i suoi tratti di passaggio verso la
dissoluzione, come nell’autunno. L’esperimento della scrittura di Stoner
consiste nella trasformazione di questo concetto in un ordito narrativo,
costruendo una sacralità laica attorno a ciò che il protagonista ha deciso di
amare – perché Stoner, sia chiaro, non è un inetto, malgrado tutto: saprà
tenacemente amare il suo lavoro, la figlia, Katherine, anche se, o proprio
perché, sa che dovrà lasciare tutto questo fra breve.
Al
tempo stesso, come spiegano gli ultimi due versi del sonetto, anche chi legge
amerà sempre di più Stoner. Se ci pensiamo, infatti, accade precisamente come
in Everyman, il dramma religioso allegorico risalente al 1485 circa, una delle
opere più note della letteratura inglese medievale – la disciplina studiata e
insegnata sia dall’autore che dall’eroe di Stoner. Come in Everyman, infatti,
dove Dio invia la Morte con un messaggio a Everyman, l’uomo comune, affinché
prepari il conto della sua vita, anche nel romanzo di Williams il narratore
manda a Stoner la morte fin dalla prima pagina: tutto ricomincia da lì; e
possiamo pure dire, ragionando sulla tecnica di racconto usata: tutto finisce
da capo. Chi legge allora deve accogliere subito l’evento e il pensiero della
morte di Stoner, e di conseguenza, entrando in questa inquadratura della
storia, seguire il protagonista, nel corso del racconto, come un personaggio in
temporaneo esilio dalla morte, elaborando via via l’idea che si cela dietro a simile
forma di procedimento e che potremmo sintetizzare così: «perché vivere, se
sappiamo in partenza che ci attende la morte?». “Soprattutto per quello”,
sembra che replichi Stoner, rimandando a una saggezza che ha qualcosa di
mistico da quanto è opposta al carpe diem edonistico.
Sapere
chi si è, e cosa si è stati: questa è la verità del personaggio, e qui consiste
il fascino, oltre che della storia, della forma di Stoner, perché questa verità
non è pronunciata astrattamente o didascalicamente, ma di nascosto – Stoner è
uno dei libri più silenziosi che possa capitare di leggere – trasformandosi in
significante. Non serve che sia il protagonista a dircelo: è il libro che ci
mostra che ciò che rimane, oltre l’estinzione, è la maniera in cui abbiamo
scelto di vivere l’essenziale: per questo, o anche per questo probabilmente, il
finale del libro rovescia lo stilema per cui le stagioni che accompagnano
Stoner per tutto l’arco del racconto sono l’autunno e l’inverno (p. 21, 24, 55,
114, 208, 289 – con l’unica eccezione della relazione con Katherine, che si
consuma tra due primavere: 225, 243, 247; pure quando, molto più tardi,
giungeranno notizie di Katherine, siamo «all’inizio della primavera»: 289).
Stoner, infatti, muore dentro la dolcezza dell’estate (p. 320): il tempo in cui
il ciclo della vita raggiunge l’effetto della vigorosa compiutezza, quello in
cui può sembrare di avere tutto il tempo del mondo.
Il
mistero di Stoner, anche in senso tecnico, è da un lato nel paradossale
equilibrio tra una relazione di massima vicinanza e di estrema lontananza che
la sua vita intrattiene col mondo; dall’altro lato, e insieme,
nell’oscillazione tra estrema appartenenza e massima indifferenza con cui il
protagonista prende parte a ciò che gli accade. La scrittura mima e riproduce
entrambi gli effetti: da un lato costruendo scene ordinarie, fatte di dettagli
precisi, che lasciano parlare le cose e in qualche maniera hanno la medesima
funzione dei dettici nel sonetto di Shakespeare, ossia attaccano, in senso
serio e letterale, il personaggio alle condizioni della sua stagione;
dall’altro lato, l’alone sfuggente che circonda Stoner è raggiunto raccontando
il protagonista senza mai farci accedere alla sua psiche. Stoner, che uscì nel
1965, cioè due anni prima del Portnoy’s Complaint, per indicare un esempio
antitetico di trattamento del personaggio, non mette al centro un ego narciso e
debordante coi suoi monologhi, ma un modo di “lasciarsi perdere”: come se
guardare all’esperienza personale dicendosi «non importa», anziché «io», potesse
contare molto di più; forse più di tutto il resto.
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