
Sándor Márai in origine Sándor Károly Henrik Grosschmid de Mára (Košice, 11 aprile
1900 – San Diego, 22 febbraio 1989), è stato uno scrittore e giornalista
ungherese. La sua fama è legata in particolare al romanzo Le braci, apparso in
Italia nel 1998 e L'eredità di Eszter, pubblicato nel 1999.
«
Noi siamo ciò su cui manteniamo il silenzio » (S. Márai, Le braci)
Voce narrante: la moglie
Nella
vita di ogni essere umano, c’è un testimone, una persona più forte incontrata
in gioventù; e si fa tutto per nascondere agli occhi di questo giudice spietato
qualcosa di disonorevole che è dentro di noi. Il testimone non si fida di noi.
Sa qualcosa che nessun altro sa. Diventiamo ministri, vinciamo il Premio Nobel,
eppure il testimone ci guarda e sorride. Tu ci credi?...
Ogni
amore è sfrenato egoismo.
Sapeva
che dietro ogni cosa umana ci sono anche inettitudine, smania, menzogna e
ignoranza, che non si deve credere a tutto, nemmeno quando chi ti sta di fronte
sta parlando in assoluta buonafede.
L’amore c’è o non c’è. Che
altro resta da capire?...Quanto vale il sentimento umano quando dietro ci sono
nascoste l’intenzione, la consapevolezza? … Sai, quando si invecchia, si scopre
che le cose stanno in modo diverso, che bisogna sempre “sapere come si fa”,
bisogna imparare tutto, anche ad amare. Sì, quindi è inutile che scuoti il
capo, che sorridi. Siamo esseri umani, e ciò che accade nella nostra vita viene
filtrato dalla ragione. Ed è sempre attraverso la ragione che i nostri
sentimenti e le nostre passioni diventano sopportabili, oppure ci paiono
intollerabili. Amare non è sufficiente. […]
“Che cosa succede
nell’anima quando ci si innamora” gli chiesi, come una scolaretta.
“Nell’anima non succede
nulla.” Rispose senza indugio. “I sentimenti non si manifestano nell’anima.
Seguono un corso differente. Ma possono riversarsi sull’anima, come un fiume in
piena su un terreno alluvionale.”
“E una persona
intelligente, razionale, può contenere quest’onda?” domandai.
“Mia cara signora” disse
animatamente “la questione è piuttosto interessante. Me ne sono occupato
parecchio. Devo rispondere che, entro certi limiti, è possibile. Intendo dire
che… la ragione non può far scaturire né bloccare i sentimenti. Può invece
disciplinarli. I sentimenti, quando diventano un pericolo per se stessi e per
il prossimo, possono essere rinchiusi in gabbia.”
“Come un puma?” Ero quasi
inconsapevole delle mie parole.
“Come un puma” disse, e si
strinse nelle spalle. “Lì dentro il povero sentimento comincia a camminare su e
giù, a ruggire, digrigna i denti, si accanisce contro le sbarre… ma alla fine,
stremato, perde il pelo e i denti, invecchia, diventa triste e mansueto. Questo
è possibile.. ho già visto qualcosa di simile. È sempre opera della ragione. È possibile domare, addomesticare i
sentimenti. Certo,” proseguì con cautela “non è bene aprire anzitempo la porta
della gabbia. Perché il puma uscirebbe
e, se non è ancora abbastanza docile, potrebbe causare molti fastidi”.
“Sia più chiaro” gli
chiesi.
“Non riesco a essere più
chiaro” disse paziente. “Lei vorrebbe sapere da me se è possibile annientare i
sentimenti con l’aiuto della ragione… A questo rispondo con franchezza: no, non
lo è. Ma per consolarla, posso dirle che i sentimenti, talvolta, nei casi più
fortunati, possono essere domati e mortificati. Guardi me. Io sono
sopravvissuto.”
Quando
si comincia a piangere, vuol dire che ormai si cerca di ingannare il prossimo.
In quel momento, il corso degli eventi si è già concluso. Non credo alle
lacrime. Il dolore è asciutto e muto.
Non
è vero che con il dolore ci si purifica, che si diventa migliori, più saggi e
comprensivi. Si diventa freddi, lucidi e
indifferenti. Quando, per la prima volta nella vita, si comprende veramente com’è
il destino, si acquista una specie di tranquillità. Si è calmi, e soli al mondo
– di una solitudine così strana, e terribile…
Lo
disse con tale calma da risultare quasi indifferente, come solo le persone
anziane riescono ad essere quando sono sul punto di congedarsi dal mondo e,
conoscendo il vero significato delle parole, non hanno più nulla da temere e
stimano la verità al di sopra delle convenzioni umane. Impallidii appena a
quella confessione.
Va
sempre così: uno dei due ama più dell’altro. Ma chi ama è facilitato. Tu ami
tuo marito, perciò ritieniti fortunata,
anche se a volte ti fa soffrire. Io ero costretta a sopportare un sentimento
che non ricambiavo. Questo è molto più difficile. […] Le persone si uccidono
tra loro in molti modi. Non basta amare, cara. L’amore può anche trasformarsi
in un grande egoismo. Bisogna amare con umiltà e avere molta fede. Soltanto se
è animata dalla vera fede la vita intera acquista un senso. Dio ha donato
l’amore agli uomini affinché riescano a sopportare meglio il mondo e la
convivenza fra loro. Ma se si ama senza umiltà si finisce per essere di peso
all’altro.
Quel
che anima una cosa non è certo il mobilio, ma il sentimento che anima le
persone che vi abitano.
Nella
vita ci sono momenti del genere, in cui si prova una sorta di vertigine e si
vede tutto con assoluta lucidità, si riscoprono energie e potenzialità nascoste
e si comprende perché si è stati troppo codardi o troppo deboli. E sono i
momenti in cui la nostra vita cambia. Arrivano all’improvviso, come la morte, o
una conversione.
Conosci
quella scultura di Michelangelo, sai, quel magnifico marmo che si trova nel
Duomo… aspetta, come si chiama? Ah, sì. Pietà. L’artista aveva ritratto se
stesso, ormai vecchio, nel volto della figura che sovrasta il gruppo. A Firenze
ci andai insieme a mio marito. Fu lui a mostrarmi la statua. Disse che quello
era un volto umano nel quale non c’era rabbia né desiderio, un volto dal quale
era svanita ogni traccia di passione, il volto che sapeva tutto e non voleva
nulla, né vendetta, né clemenza, niente, assolutamente niente. Così
bisognerebbe essere, disse quel giorno mio marito dinanzi alla scultura. È questa la suprema perfezione umana,
questa sacra indifferenza, questa solitudine assoluta e sorda nei confronti
delle gioie e dei dolori.
L’amore,
quello vero, è paziente, mia cara figliola. L’amore è infinito e sa attendere.
È
duro avere a che fare con un vero uomo, mia cara, perché ha un’anima.
Lui
non se n’è mai andato. Per questo è impossibile. Si può far tornare qualcuno
che è stato infedele. Si può riconquistare chi si è allontanato. Ma chi in
realtà non è mai neppure arrivato, mai… No, è davvero impossibile.
Mi
è capitato di vedere più di una principessa, e nessuna aveva una figura
principesca. Questa donna invece sì. E c’era pure qualcos’altro nel suo
sguardo, nel suo volto, intorno a lei, negli oggetti, nell’arredamento e
nell’atmosfera della sua stanza, qualcosa che mi riempiva di paura. Prima ho
parlato di volontaria rinuncia… Ma sotto la rinuncia c’era un’attesa spasmodica.
SI teneva pronta. Voleva tutto o niente. Un istinto che resta in agguato, senza
mai arrendersi, per anni, per decenni. Uno sguardo vigile, instancabile. Una
rinuncia che non ha nulla di disinteressato e umile, ma è invece orgogliosa e
superba.
Ci
sono istanti precisi in cui comprendiamo che l’assurdo, l’impossibile,
l’inconcepibile sono in realtà tanto ordinari quanto semplici.
In un bel libro spagnolo,
un libro intelligente e triste – ho già dimenticato come si chiama l’autore, ha
un nome da toreador, lunghissimo, tutta una sfilza di nomi di battesimo -, ho
letto che questa specie di incantesimo, lo stato d’animo degli innamorati in
perenne attesa del loro amore assente, è per certi aspetti simile al deliquio
degli ipnotizzati; e il loro sguardo ricorda quello dei malati che, sollevando
a fatica le palpebre, si risvegliano dal coma. Del mondo questi non vedono
altro che un viso, non sentono altro che un nome.
Ma un giorno si svegliano.
Come me.
Si guardano intorno, si
stropicciano gli occhi. Ormai non vedono più soltanto quel viso… per la
precisione, vedono anche quel viso, ma più sfocato. Vedono un campanile, una
foresta, un quadro, un libro, i volti di altre persone, si accorgono di quanto
sconfinato sia il mondo. È
una sensazione strana. Quel che il giorno prima ancora sembrava insopportabile,
era tanto doloro e bruciava il cuore, oggi non fa più male. È questa la realtà, e ognuna di queste
cose è ugualmente importante. Ieri tutto era ancora improbabile, fluttuante e
privo di senso – e la realtà era completamente diversa. Ieri volevi ancora
vendetta, o redenzione, volevi che telefonasse, che avesse un disperato bisogno
di te, o che venisse sbattuto in carcere e giustiziato. Sai, finché provi tutto
questo, l’altro è ben felice di starsene lontano da te. Fino a quel momento ha
ancora potere su di te. Finché gridi vendetta, l’altro si frega le mani, perché
vendetta significa anche desiderio, la vendetta è una forma di sudditanza. Ma
arriva il giorno in cui ti svegli, ti stropicci gli occhi, fai uno sbaglio, e improvvisamente
ti rendi conto di non volere più nulla. Nemmeno incontrarlo per strada ti turba
più. Se telefona, rispondi come si deve. Se vuole vederti e non puoi fare a
meno di incontrarlo, non c’è problema, prego, si accomodi. E tutto questo lo
fai con animo tranquillo e sincero, sai… non c’è più niente di convulso, di
doloroso, di delirante. Che cosa è successo? Non capisci. È che non vuoi più vendicarti… e scopri
che proprio in questo sta la vera vendetta, l’unica, la più perfetta, nel fatto
che non vuoi più niente da lui, non gli auguri né male né bene, ormai non
riesce più a farti soffrire,
Le cose sono andate
proprio così. Una mattina mi sono svegliata e ho cominciato a vivere, a
camminare. […] Ho sofferto moltissimo, per un anno ho creduto che sarei morta
di crepacuore. Ma una bella mattina mi sono svegliata e ho scoperto una cosa.
Mi sono messa a sedere sul letto e ho sorriso. Non sentivo più alcun dolore. E
improvvisamente ho capito che non c’è nessuna persona giusta. Non esiste né in
terra né in cielo né da nessun’altra parte, puoi starne certa. Esistono
soltanto le persone, e in ognuna c’è un pizzico di quella giusta, ma in nessuna
c’è tutto quello che ci aspettiamo e speriamo. Nessuna racchiude in sé tutto
questo, e non esiste quella certa figura, l’unica, la meravigliosa la sola che
potrà darci la felicità. Esistono soltanto delle persone, e in ognuna ci sono
scorie e raggi di luce, tutto…
Voce narrante: il marito.
L’uomo non vive per essere
felice. L’uomo è al mondo per mantenere la propria famiglia, per allevare
persone oneste, e non deve aspettarsi in cambio né gratitudine né felicità.
Niente può renderci felici. Però avere una famiglia è un compito così
importante, di fronte a noi stessi e al mondo, che in suo nome vale la pena di
sopportare le incomprensibili difficoltà e le inutili sofferenze della vita.
Non credo esistano “famiglie felici”. Ma ho visto certe situazioni di armonia,
di concordia tra esseri umani, in cui ciascuno viveva sì, in parte, a dispetto
degli altri, per se stesso, eppure, nell0insieme, ognuno in famiglia viveva
anche per gli altri, anche se i vari membri litigavano come lupi. Famiglia… è
una parola grossa. Sì, la famiglia è forse uno degli scopi della vita.
E finché in questa
solitudine resta viva l’attesa, finché in fondo al cuore e all’anima si
custodisce la speranza, la vita è sopportabile. Si continua a vivere, come si
può… non benissimo, certo, non in modo degno di un essere umano, ma si vive: la
mattina ha ancora senso dare la carica al meccanismo e farlo ticchettare fino a
sera. Perché si continua a lungo a sperare.
È davvero difficile arrendersi a questa
realtà sconfortante, rassegnarsi al fatto di essere soli, terribilmente e
disperatamente soli. Soltanto pochissimo restano saldi nella consapevolezza che
non c’è rimedio alla solitudine dell’esistenza. I più nutrono speranze, si
affannano a destra e a manca, cercano rifugio nei rapporti umani, ma in questi
tentativi di fuga dalla solitudine non c’è mai vera passione, né dedizione, e
allora si nascondono dietro mille impegni fasulli, lavorando dalla mattina alla
sera, o progettano viaggi, acquistano
grandi case, comprano i favori di donne
con le quali non hanno nessuna affinità, o cominciano a collezionare gli
oggetti più svariati. Ma niente giova. E mentre si danno tanto da fare sono
perfettamente consapevoli che non serve a nulla. Eppure continuano a sperare,
senza più nemmeno sapere in che cosa.
Tutto questo non serve a
nulla… Ecco che perché in preda all’angoscia e allo smarrimento, cercano in
ogni modo di mantenere tutto in ordine. Tutto, pur di non restare nemmeno per
un attimo in questa solitudine!
Una volta raggiunta una
certa età, la solitudine inizia a manifestarsi. Non accade da un giorno
all’altro; le autentiche crisi della vita, come le malattie o le separazioni, o
l’incontro tra due persone la cui unione è segnata dal destino, non arrivano a
un’ora precisa e non vengono né stabilite né annunciate, al punto che spesso
chi vi è coinvolto non si accorge nemmeno di quanto sta succedendo. La solitudine è una specie di malattia, più
precisamente uno stato nel quale ci si rinchiude, una condizione che trasforma
l’uomo in un animale impagliato dentro una gabbia.
È un grande diritto, questo. Per il resto
hai soltanto debiti. Fino a quando avrai desideri, hai anche dei doveri. Ma
arriverà il giorno in cui l’anima si riempirà completamente del desiderio della
solitudine. Quando avrai voglia di gettare fuori dalla tua anima tutto ciò che
è superfluo, falso.
L’ultimo
viaggio di un essere umano. A questo hai diritto. Il bagaglio per tale viaggio
non può che essere leggero… devi poterlo portare con una mano sola. Dentro non
c’è ciente di futile, niente di superfluo.
Non
abbiamo mai il coraggio di ridurre a dimensioni umane coloro che il nostro
desiderio ha trasformato in ideali.
Voce narrante: il batterista
Certe storie non passano
come se niente fosse… Questa foto non è l’unica cosa che mi resta di lei. Mi è
rimasto anche altro… la sua voce. E un sacco di fatti che mi ha raccontato. Lei
era diversa dalle donne che mi è capitato di incontrare in vita mia. Tutte le
altre sono sparite senza lasciare traccia. Ma di questa non mi dimenticherò
mai. È durata
poco, ma abbastanza per sapere la verità. Perché una notte, quando non c’era
ormai più imbarazzo tra di noi, mi ha raccontato tutto. Voleva raccontare a
qualcuno la verità, una buona volta in vita sua… o almeno quello che lei
credeva che fosse la verità.
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