Un libro che fa male. Ma è di una bellezza stravolgente. Unica.
Krasivaja. Chi vorrà leggerlo, ne scoprirà il significato.
Lascio la parola all’autrice, perchè io sono rimasta senza.
Note dell’autrice
“Alla fine ho imparato che,
anche nel profondo dell’inverno,
anche nel profondo dell’inverno,
dentro di me regnava
un’invincibile estate”
un’invincibile estate”
Albert Camus
Nel 1940 l’Unione Sovietica occupò gli Stati Baltici di Lituania, Lettonia ed Estonia. Di lì a breve il Cremlino emanò elenchi di persone considerate antisovietiche che sarebbero state uccise, imprigionate o deportate in schiavitù in Siberia. Medici, avvocati, insegnanti, membri dell’esercito, scrittori, imprenditori, musicisti, artisti e persino bibliotecari, tutti erano considerati antisovietici e vennero aggiunti alla lista sempre più lunga di coloro destinati allo sterminio di massa. Le prime deportazioni ebbero luogo il 14 giugno 1941.
Mio padre è figlio di un ufficiale dell’esercito lituano. Come Joana, fuggì con i genitori attraverso la Germania fino ai campi profughi. Come Lina, ebbe membri della sua famiglia deportati e imprigionati. Gli orrori che dovettero sopportare i deportati furono indicibili. [...]
Coloro che sopravvissero trascorsero da dieci a quindici anni in Siberia. Al ritorno in patria, alla metà degli anni Cinquanta, i lituani scoprirono che i sovietici avevano occupato le loro case, si stavano godendo tutti i loro beni e avevano persino adottato i loro nomi. Avevano perso tutto. I deportati che tornavano erano trattati come criminali. Erano costretti a vivere in zone riservate, sotto la costante sorveglianza del KGB, l’ex NKVD. Parlare della propria esperienza significava incarcerazione immediata o nuova deportazione in Siberia. Di conseguenza, gli orrori che avevano subito rimasero latenti, un segreto terribile condiviso da milioni di persone.
Come Lina e Andrius, alcuni deportati si sposarono e trovarono conforto negli sguardi eloquenti e nelle confidenze sussurrate a notte fonda. Bei bambini come Jonas e Janina crebbero bei campi di lavoro forzato e tornarono in Lituania da adulti. Innumerevoli madri e mogli come Elena morirono. Anime coraggiose, temendo che la verità potesse andare persa per sempre, seppellirono diari e disegni in terra baltica, rischiando la morte se le loro capsule di memoria fossero state scoperte dal KGB. Come Lina, molti incanalarono emozioni e paure nell’arte e nella musica, l’unico modo nel quale potevano esprimersi tenendo la loro nazione viva nel proprio cuore. Dipinti e disegni non venivano distribuiti pubblicamente. Le opere d’arte erano trasmesse in segreto, veicoli in codice per messaggi e notizie dai vari campi di prigionia [...].
Si calcola che Iosif Stalin abbia fatto uccidere più di venti milioni di persone durante il suo regno del terrore. [...] Ma la maggior parte della popolazione baltica non serba rancore, risentimenti o ostilità. Sono grati a quei sovietici che hanno mostrato compassione. La loro libertà è preziosa e stanno imparando ad esserne consapevoli.[...]
Alcune guerre si vincono con i bombardamenti. Per le popolazioni del Baltico questa guerra è stata vinta credendoci. [...] Hanno scelto la speranza e non l’odio e hanno dimostrato al mondo che anche alla fine della notte più buia c’è la luce.
Un profondo inchino a Michael Green, che è stato abbastanza coraggioso da tirare fuori il barattolo dalla terra e far conoscere finalmente questa storia al mondo.
L’arresto
Tre agenti dell’NKVD avevano circondato la mamma. Portavano berretti blu con un bordo rosso, su cui spiccava una stella dorata. Un agente alto aveva in mano i nostri passaporti.
«Ci serve più tempo. Saremo pronti domattina», disse la mamma.
«Venti minuti... o non vivrete abbastanza da arrivare a domattina», minacciò l’agente.
«Per favore, abbassate la voce. Ho dei figli», sussurrò la mamma.
«Venti minuti», gridò l’agente. Buttò la sigaretta accesa sul pavimento pulito del nostro soggiorno e la schiacciò sul legno con lo stivale.
Stavamo per diventare sigarette.
Il viaggio
Lo stavano portando via. Il mio dolce e bel fratellino, che scacciava gli insetti fuori casa invece di schiacchiarli. [...] La mamma tirò fuori un fascio di rubli e li fece intravedere all’agente. Lui allungò la mano per prenderli, poi disse qualcosa a mia madre, facendo un gesto con la testa. Con un gesto brusco mia madre si staccò dal collo un pendente di ambra e lo infilò nella mano dell’agente dell’NKVD. Lui però non sembrava soddisfatto. La mamma continuò a parlare in russo e tirò fuori dal cappotto un orologio da taschino. [...] L’agente glielo strappò di mano, lasciò andare Jonas [...] Vi siete mai chiesti quanto vale una vita umana? Quella mattina la vita di mio fratello valeva un orologio da taschino.
Contai le persone: quarantasei pigiate in una gabbia su ruote, forse una bara semovente. [...] Le facce parlavano del loro futuro. Vi lessi coraggio, rabbia, paura e confusione. Altri erano disperati. Si erano già arresi. E io?
«Ma come fanno a decidere che siamo animali? Non ci conoscono neanche», dissi.
«Noi conosciamo noi stessi», rispose la mamma. «Loro si sbagliano. E non permettere mai che ti convincano del contrario. Hai capito?»
Annui, ma sapevo che qualcuno se ne era già convinto. Li vedevo farsi piccoli davanti alle guardie, i volti senza speranza.
Sentivo su di me il loro alito cattivo, e i loro gomiti e le ginocchia sempre dietro la mia schiena. A volte mi veniva la tentazione di cominciare a spingere lontano da me la gente, ma non sarebbe servito a niente. Eravamo come fiammiferi in una scatoletta.
La mamma chiese il permesso di andare a fare i bisogni e mi trascinò fra gli alberi insieme alla signora Rimas. Ci accovacciammo, con i vestiti raccolti in vita, per liberarci.
Ci guardavamo in faccia, tutte accosciate. «Elena, puoi passarmi il talco, per favore?» disse la signora Rimas asciugandosi con una foglia.
Ci mettemmo a ridere. Era una scena così ridicola, noi tre che ci abbracciavamo le ginocchia in cerchio. Ridemmo sul serio. La mamma rideva così forte che i riccioli le uscirono dal fazzoletto che si era legata in testa.
«Il nostro senso dell’umorismo», disse la mamma con gli occhi pieni di lacrime dal ridere. «Quello non possono portarcelo via, giusto?»
Al campo
Certo, eravamo al sicuro. Al sicuro tra le fauci dell’inferno.
Camminammo mano nella mano, in silenzio. Rallentai il passo. «Andrius, sono spaventata...». Lui si fermò e si voltò verso di me. «No. Non devi esserlo. Non devi concedergli niente, Lina, nemmeno la tua paura.»
Camminammo mano nella mano, in silenzio. Rallentai il passo. «Andrius, sono spaventata...». Lui si fermò e si voltò verso di me. «No. Non devi esserlo. Non devi concedergli niente, Lina, nemmeno la tua paura.»
Persone che non conoscevo formarono un cerchio intorno a me, riparandomi dalla vista. Mi scortarono sana e salva fino alla nostra yurta, senza che mi scoprissero. Non chiesero nulla. Erano felici di aiutare qualcuno, di riuscire ad ottenere qualcosa, anche se non era a loro beneficio. Avevamo cercato di toccare il cielo dal profondo degli abissi. Capii che se ci fossimo incoraggiato a vicenda forse ci saremmo andati più vicino.
«Questa donna chiude gli occhi e non c’è più. Io ho desiderato morire fin dal primo giorno, invece sono ancora vivo. E’ davvero così difficile morire?»
[...] Era più difficile morire o essere fra i sopravvissuti? Io avevo sedici anni, ero un’orfana in Siberia, ma conoscevo la risposta. Era l’unica cosa di cui non avevo mai dubitato. Volevo vivere. Volevo vedere mio fratello crescere. Volevo rivedere la Lituania. Volevo vedere Joana. Volevo annusare il mughetto nella brezza sotto la mia finestra. Volevo dipingere nei prati. Volevo ritrovare Andrius con i miei disegni. C’erano solo due possibili esiti in Siberia. Il successo significava sopravvivere. Il fallimento significava morire. Io volevo la vita. Io volevo sopravvivere.
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