Eva era stesa sul suo letto.
Un libro aperto per leggerne svogliatamente qualche pagina era stato riposto al suo fianco e le pungeva appena la coscia abbronzata e liscia con la punta di una pagina. Il computer portatile era aperto sulle sue ginocchia e le riscaldava leggermente la pelle. Era acceso da molte ore, fermo sempre sulla stessa pagina che di tanto refreshava, con una foto che Eva fissava oramai da ore. La bacheca blinkava ogni tanto di un nuovo messaggio e Eva correva a leggerlo, come una piccola spettatrice che spiava nascosta. Sull’altro tab del browser era aperta la sua mail : se fosse arrivato un messaggio, lei sarebbe corsa a leggerlo, sperando che fosse il “suo”. Ma erano ore che non le scriveva nessuno e le sembrava quasi normale, visto che il pomeriggio il sole aveva brillato per ore e la gente non era disposta a stare in casa, perdendosi le ultime belle giornate d’estate. Forse adesso con la pioggia che a secchiate pioveva dal cielo, una speranza in più poteva averla.
Nell’appartamento affianco qualcuno era rinchiuso da ore a suonare la chitarra. La musica faceva da contrappasso al silenzio che regnava dentro e fuori Eva. Le piaceva ciò che suonavano e non la infastidiva. Una musica prepotente, che era capace di scacciare i pensieri dalla testa, rendendola libera di fluttuare: rock, punk, house, non sapeva cosa fosse, ma quel rimbombare del ritmo attraverso i muri in qualche modo batteva il tempo al suo cuore, impedendogli di andare più forte. Eppure essa non riusciva a liberarle la mente, a farla sentire un po’ più leggera, a scrollarle di dosso solo un pezzetto di quel macigno che sentiva al centro del petto e non era riuscita ancora a scacciare via.
Le immagini di quell’estate le scorrevano incessantemente davanti ai suoi occhi, facendoli brillare al buio. La prima volta che gli aveva parlato, al parco, era stato un immenso tumulto di sensazioni. Quel giorno era andata a correre, come al solito, un po’ sul tardi. Al secondo giro, passando accanto al fiume, lo aveva visto passeggiare da solo, la testa alta, una camminata lenta, una sigaretta tra le dita per darsi importanza, forse. Non era la prima volta che lo vedeva, ma di solito era con un amico ed il cane di questi e correvano insieme. All’inizio aveva notato proprio il cane, un pastore tedesco magnifico a pelo lungo, che si muoveva con sinuosa eleganza dietro quei due amici. Poi aveva alzato gli occhi e si era accorta di lui.
Quel pomeriggio però non c’era il suo amico, nè il cane. Forse erano partiti per le vacanze, lasciandolo da solo. Eva aveva rallentato istintivamente la corsa, volgendo spesso il suo sguardo verso l’altro lato del fiume e tutte le volte che si girava, lui la stava guardando e le sorrideva. Così aveva deciso di svoltare verso il ponticello più avanti, invece di percorrere il solito anello che i suoi piedi ben conoscevano.
Si erano incontrati sul ponte. Lei era passata dalla corsa leggera alla camminata veloce e poi si era fermata appena in cima a vedere scorrere il fiume, fingendo di riposarsi. Lui l’aveva vista da lontano, le si era affiancato appena dietro e le aveva bisbigliato qualcosa di davvero stupido che non ricordava bene, ma sembrava tipo “L’acqua scorre più lentamente oggi, non credi?”.
Avevano passeggiato a lungo, lui le aveva preso la mano e lei la teneva per un po’ nella sua e poi gliela mollava fingendo di volersi sistemare il top. Alla fine si erano seduti su una panchina vicino ad un parco giochi, affianco ad un campo di calcio dove giocavano dei ragazzi ed avevano parlato molto. Si erano raccontati un po’ ed alla fine lui l’aveva tirata a sé e l’aveva baciata.
Da allora era stato un susseguirsi di messaggi, fino al giorno in cui l’aveva invitata ad un aperitivo fuori, in un locale proprio vicino a casa sua. Un locale molto “trendy” l’aveva definito lei, con divanetti bianchi e neri e cuscinoni morbidi, tavolini neri di legno dalle gambe spesse ed un grande bancone d’acciaio per ordinare. Proprio lì l’aveva baciata la seconda volta, così all’improvviso, quando era andata a chiedere qualcosa al cameriere e si era fermata ad aspettare che la servissero. Lui si era alzato, le si era accostato da dietro, le aveva passato la mano sulla schiena, lentamente, carezzandola, regalandole un brivido intenso, e alla fine l’aveva baciata proprio sul collo nudo.
Avevano iniziato a scriversi lunghe lettere. Non parlavano mai di quello che facevano nella loro vita reale. Questo era ciò che più attraeva Eva: si raccontavano favole. Era un gioco strano, forse, ma Eva lo adorava, perchè lui riusciva a scatenare la sua fantasia in un modo che nessuno prima aveva mai fatto. Folletti, draghi, fate, streghe e maghi. A volte si alternavano in una storia, a volte erano racconti singoli di qualche pagina che si spedivano l’un l’altro. Eva parlava sempre d’amore, pozioni, filtri magici ed innamoramenti. Lui parlava sempre di guerre e trofei. Le storie più belle, riconobbero, furono quelle scritte insieme, completandosi a vicenda in racconti d’arme e d’amori.
Eva adorava quel rapporto così particolare. Teneva conservati quei racconti in un folder speciale del suo computer contrassegnato da un’icona con un cappello blu a stelline gialle. Quando lui tardava a scriverle, lei aspettava senza protestare e nel frattempo rileggeva quelli che già avev. Provava ad immaginare storie simili con finali diversi, nobili soldati che salvavano principesse, finti ranocchi che le baciavano, trame segrete ordite per gelosia. Sembrava che vivesse in quel mondo, dove il suo principe era anche il suo scrittore. Non le sembrava strano vivere più di fantasia che di realtà. La realtà l’aveva ormai abbandonata. Non sopportava il quotidiano susseguirsi delle giornate monotone. Lei aveva bisogno di volare e lui la faceva volare in alto, molto in alto.
Era durato tutto un paio di mesi. Un paio di mesi nei quali la mattina Eva si svegliava con il pensiero di correre a guardare la posta o i messaggi. Un paio di mesi nei quali faticava a fare altro, perchè il pensiero correva sempre a lui o perchè doveva scrivere qualcosa per lui. Lui era diventato la sua droga. Era diventato una parte di sé dalla quale faceva fatica a staccare persino di notte. Per questo la sera aveva preso l’abitudine di immaginare che la sua mente si staccasse da lei, prendesse forma d’angelo nell’aria sopra il letto, e corresse da lui, ovunque lui fosse, per stringersi accanto e ripetere l’esperienza di un bacio. Non lesinava le fantasie d’amore, pur rimanendo cosciente che di fantasie si trattava.
Ma poi era tutto finito. Con un messaggio sul cellulare. Una brutale serie di parole che disonoravano tutte quelle prima scritte. Dopo la favola, il terrore: lui le aveva formalmente comunicato che non l’avrebbe più cercata. Tutto lì.
Le era crollato il mondo addosso. Non voleva nessuna giustificazione. Non voleva altre parole. Capire non l’avrebbe certo aiutata a superare quel momento in cui si era sentita sprofondare. Le era mancata la terra sotto i piedi. Il suo corpo aveva smesso di respirare. I suoi occhi avevano fatto fatica a leggere il messaggio dopo le prime parole, quando il cervello aveva intuito cosa stava per succedere. Le sue orecchie avevano iniziato a fischiare ed il mondo l’aveva chiusa... dentro, dentro se stessa. Aveva trovato un piccolo bozzolo e si era racchiusa all’interno. Si sentiva ferita, si sentiva a tratti completamente vuota, a tratti piena di pietre: ricordava la storia delle pecore che, mentre il lupo dorme, gli riempiono la pancia di enormi sassi che gli causano la sete e lo fanno affogare appena si appresta a bere in un laghetto.
Ecco, si sentiva così.
Come quelle pecore, lui, una parola dopo l’altra, le aveva riempito il corpo di pietre pesanti e scure e non ce la faceva a reggerle. Si sentiva incapace di respirare, di sussultare, di gioire, di sorridere. Non ce la faceva, nemmeno quando si sforzava di piegare verso l’alto la bocca. Il pensiero di lui le impediva di tornare alla vita, la trascinava giù in un pozzo dove nell’acqua si rifletteva se stessa, ciò che aveva sperato e non c’era più, ciò che avrebbe voluto e che oramai non avrebbe mai avuto. Sperava che il silenzio l’aiutasse a non pensare. Sperava che la solitudine l’aiutasse a non pensare. Sperava che addormentarsi l’aiutasse a non pensare. Ma il silenzio dentro di lei era un vuoto incolmabile che la opprimeva. La solitudine era solo l’avvinghiarsi delle viscere nel suo ventre. Il sonno era tormentato e risvegliarsi presto era solo la naturale conseguenza del non aver dormito.
Sapeva che doveva resistere. Sapeva che in qualche modo sarebbe sopravvissuta. Tutti sopravvivono. Qualcuno rimane più ferito di altri, ma tutti sopravvivono. Non ci sono più nemmeno quegli amori per i quali vale la pena morire. Perciò si convinceva che doveva solo passare del tempo. Lo sapeva, se lo ripeteva, ma continuava a guardare l’orologio e a chiedergli perchè non passava più in fretta. In un momento sperava di non incontrarlo più e quello subito dopo desiderava vederlo. Sperava che le scrivesse, ma lui non scriveva. Iniziava a scrivergli e poi cancellava le mail prima di spedirle. Erano giorni che taceva, ma lei continuava a sperare e a guardare l’orologio. In un modo o nell’altro, quelle lancette avrebbero cambiato il suo dolore. Piangeva, e si asciugava il moccio con il braccio perchè aveva finito i fazzoletti e non voleva farsi vedere piangere in giro per casa. Sarebbe stato difficile spiegare. Era sicura che non avrebbero capito. Voleva urlare, ma non riusciva a farlo perchè quel nodo in gola le bloccava l’aria e le bruciava la gola.
Si strinse contro di sé nel letto, raggomitolandosi come se volesse sparire in un buco nero, e spingendo via il computer con le gambe. Doveva convincersene: lui non c’era più. Lo scrisse nel suo quaderno. Ne compose una pagina intera, mentre la schiena sussultava di bagnati singhiozzi che non riusciva a fermare. Tutto il mondo le stava crollando addosso e aveva deciso che non si sarebbe opposta. In fondo era colpa sua se si era lasciata andare così, se si era lasciata prendere in giro dalle favole, proprio quelle favole che adorava. Giurò a se stessa che non ne avrebbe più scritte, che le sue parole non sarebbero più state usate per farla soffrire.
Spinse la testa ancora di più tra le gambe, tra il suo sudore ed il pianto, proprio quando una mano leggera giunse a carezzarle la testa. Rimase ferma, immobile, sotto quella mano. Non aveva il coraggio di uscire dal bozzolo per affrontare di nuovo la vita. Era disperata. Voleva solo lui, ma sapeva che quella mano, quella mano così leggera, non era la sua. Non poteva essere la sua.
- - Perchè piangi? – le chiese la mano.
- - Non credo più alle favole... – rispose Eva.
La mano la prese con forza e la spinse fuori dal letto. Le asciugò le lacrime e le baciò una guancia. Se l’appoggiò al petto e la strinse forte.
- - Ti aspetto di là. Fai pure con calma, ma ricordati che noi abbiamo bisogno di te, non puoi rinchiuderti qui – le spiegò la mano, prima di andare via.
Eva si asciugò gli occhi. Passò davanti allo specchio a rassettarsi i capelli. Cambiò il pigiama ed indossò un top ed un pantaloncino.
Alla fine, nonostante la pesantezza dei suoi tristi sedici anni, Eva decise che in qualche modo doveva riuscire a tornare alla vita.
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