Silvia_I_by_borissov www.deviantart.com |
Tutte le mattine seguivo lo stesso rito: uscivo da casa alle sei in punto, prendevo
l’auto e andavo alla fermata del metro, quello che andava in centro città, mi
fermavo al giornalaio per comprare il quotidiano e facevo una piccola
passeggiata di dieci minuti a piedi. Alle sette in punto varcavo la soglia del
Bar At Noon, un baretto del centro di Milano sempre pieno, a qualsiasi ora
del giorno, persino alle sette, quando le strade sono ancora un po’ vuote e
quei pochi che sono già in ufficio aspettano i colleghi per andare a prendere
il caffé.
Tuttavia Gervaso, il titolare, sapeva che doveva riservarmi un posto. Lo sa
da quindici anni, da quando avevo preso l’abitudine di dedicarmi un’ora e mezzo
al mattino per stare con me stesso, con i miei pensieri.
Ero sposato da venti anni, avevo due figlie oramai grandi, una frequentava
il liceo ed una l’università. La mia vita non presentava nulla di straordinario,
era una vita tranquilla, qualcuno direbbe mediocre, della quale apprezzavo la
certezza delle cose che mi circondavano. Ad essa mi ero adeguato, almeno
apparentemente. Ero un bravo marito, un bravo padre ed un onesto lavoratore. Avevo
impiegato anni, anni di dura lotta tra la mia innata voglia di straordinario e
la mia realtà quotidiana. Alla fine sembrava aver vinto la pacatezza dell’età
matura e la voglia di non stravolgere completamente la vita mia e della mia
famiglia.
Quell’unica ora e mezzo al giorno era l’unica nella quale lasciavo libero
il piccolo diavolo che c’è in me. Ero uno scrittore a tempo perso. Collaboravo
per una piccola casa editrice che pubblicava libri del genere del quale scrivevo:
piccoli racconti di vita quotidiana, che avevano in sé un tocco di
eccezionalità. Leggevo il giornale e prendevo appunti, rintracciando nella
cronaca alcuni avvenimenti che solleticavano la mia fantasia. O quando la
realtà era generosa, mi guardavo in giro ed osservavo le persone che entravano
ed uscivano dal bar. Mi regalavo un po’ di emozioni lasciando libera la mia
fantasia, fino alle otto e mezzo, quando dovevo chiudere qualsiasi cosa io stessi
facendo, per rientrare nella quotidiana verità. L’unica regola che mi ero
imposto, era che non dovevo avere censure: la mente volava, la fantasia la
sosteneva, la realtà si arrendeva a tutte le possibilità.
Fu in una di quelle pause che mi concedevo, che la vidi per la prima volta,
e a quella volta molte altre seguirono, per circa un anno intero.
Ricordo bene ogni particolare di quel suo primo ingresso nel bar. Era il
2009. Erano le sette e un quarto di un freddo lunedì di inizio anno, il 5
gennaio per l’esattezza. La porta del bar si aprì ed io alzai gli occhi dal
giornale, quasi istintivamente, come facevo di solito, un po’ per il brusco
soffio di freddo che si infilava nel locale, un po’ per curiosare tra gli
avventori. Di solito riabbassavo gli occhi subito dopo, soprattutto quando la
persona non attirava in alcun modo il mio interesse.
Quella volta no. Rimasi abbagliato dai suoi capelli lunghi e biondi e dagli occhi dei quali in
quel momento non riuscii a distinguere nettamente il colore, intuendone solo
una sfumatura tra il verde smeraldo e l’azzurro scuro. Era stretta in un
cappottino nero di alpaca, con una cinta che le segnava la vita sottile. Con un
gesto elegante sciolse la cinta e si sbottonò il cappotto e vidi che sotto
indossava un tailleur nero con una gonna corta, appena sopra il ginocchio. Due
gambe magre ma tornite scivolavano fino ad un paio di scarpe nere, erte sopra
un tacco che misurava circa dieci centimetri. Bell’esemplare femminile, in
forma nonostante l’età, che immaginai essere vicina ai quarantacinque, qualche
anno più giovane di me. Ma più che il corpo sinuoso ed il viso angelico, furono
i suoi occhi a catturarmi ed il modo in cui muoveva le mani. Gli occhi erano
profondamente tristi, nonostante un sorriso incerto stazionasse sul suo viso,
nel tentativo di depistare un distratto osservatore. Non riuscivano a fingere
serenità: qualcosa in lei la scuoteva fortemente dentro e a me incuriosiva
scoprire cosa fosse. Le sue mani accompagnavano quella inquietitudine ad ogni
suo gesto, sembrava quasi non le appartenessero, una suppellettile inutile e
fastidiosa della quale avrebbe volentieri fatto a meno. Questo non lo notai
subito, ma con il tempo, quando ebbi modo di osservarla meglio e più da vicino.
Quella mattina, la signora, che chiamerò Elsa, ma della quale ignoro
completamente il nome, bevve solo un caffé ed uscì dal bar, circa cinque minuti
dopo che era entrata, cioè alle sette e venti. Io rimasi inchiodato alla porta
del bar ed i miei pensieri scivolarono sotto di essa insieme a lei, mentre la
mia fantasia fuoriusciva dai limiti ad essa imposti e immaginava di lei e della
sua vita.
Scrissi un bel racconto, quel giorno, che parlava di una piccola strega che
rubava l’anima ad un vecchio barbone, incontrato per caso all’uscita di un bar.
Il barbone ero io e l’anima se l’era presa nell’esatto istante in cui i miei
occhi si erano appoggiati ai suoi.
Fu la prima volta che la mia fantasia non stette ai patti e alle otto e
mezza in punto, quando ero pronto per rimetterla nel taschino insieme alla mia
penna ed al mio taccuino, per cominciare la mia ordinaria giornata, essa fece
le bizze e decise che voleva rimanere fuori a trastullarsi con il più bel
pensiero che potesse avere. Fu un disastro! Al lavoro non riuscivo a
concentrarmi; a casa mia moglie mi disse che sembravo lontano, come tra le nuvole;
le mie figlie mi presero in giro perchè dovevano ripetere più volte le domande
prima che le comprendessi davvero e potessi rispondere. Quella notte andai a
letto con il desiderio che la mattina dopo arrivasse presto. Dormii poco e la
mattina già alle cinque e mezzo ero pronto ad uscire. Dormivano tutti a casa,
perciò non mi feci problemi ed uscii prima lo stesso, decidendo che per quella
mattina avrei liberato la mia mente per mezz’ora in più.
Alle sette e un quarto in punto, una folata di vento freddo mi riscaldò il
cuore. Soffermai gli occhi sul giornale per qualche secondo, timoroso di alzare
gli occhi e trovare qualche impostore, al posto di colei che avevo sognato e
desiderato di rivedere tutta la notte. Poi mi decisi e il suo volto mi rapì:
stava guardando proprio me e distolse lo sguardo solo per il tempo minimo
indispensabile a parlare con il cameriere, e chiedergli se poteva sedersi ad un
tavolino sul retro del locale. Mi guardai intorno e l’unico tavolino libero era
proprio quello accanto al mio. Il mio cuore sorrise e probabilmente anche i
miei occhi, perchè lei mi guardò e mi salutò, chiedendo scusa per aver
importunato la mia solitudine.
Elsa si sedette ed aprì un quadernetto dove iniziò a scrivere. Ogni tanto
si fermava a bere un sorso di the e poi riprendeva. A tratti alzava lo sguardo
verso il soffitto o lo girava intorno e tutte le volte che lo faceva,
incrociava i miei occhi sperduti in lei. Pensai che dal suo punto di vista la
cosa potesse essere anche un po’ antipatica, ma ciò non mi impedì di continuare
ad osservare mentre scriveva, con la mano veloce sul foglio bianco, impugnando
una penna stilografica dall’inchiostro nero. I suoi occhi concentrati su quella
carta svolazzavano tra le parole e la bocca a tratti ripeteva le lettere che
magicamente apparivano componendosi elegantemente dal pennino. Sembrava un’immagine
di altri tempi e più la osservavo, più lo stomaco mi si attorcigliava dentro ed
il cuore pulsava forte. La mente cercava frasi non stupide da rivolgerle, ma Elsa
sembrava circondata da un’aura talmente ricca di perfezione, che qualsiasi cosa
io avessi detto, l’avrebbe macchiata di fango. Così decisi di star zitto,
quella mattina e molte altre che seguirono.
Elsa divenne la mia ossessione. Il suo pensiero straripò dai confini che
ero sempre riuscito ad imporre alla mia fantasia e iniziò ad occupare ogni
istante delle mie giornate, violando la censura della mia razionalità. La
mattina mi perdevo nella sua bellezza e la stavo a guardare ininterrottamente.
Facevo finta di leggere il giornale. Facevo finta di bere più caffé. Osservavo
ogni particolare di lei: l’eleganza con la quale la sua mano si muoveva sulla
carta e poi all’improvviso si arrestava, si staccava e accarezzava il manico
della tazza da the. Seguivo la sua bocca mentre si appoggiava con cautela alla
porcellana bollente e desideravo essere io quella porcellana perchè lei potesse
appoggiare le sue labbra su di me e percepire la passione che mi turbava.
Osservavo il suo corpo appoggiato al tavolo, seguivo il profilo dei suoi seni,
scendevo lungo la sua vita stretta e mi fermavo ad abbracciarla. Poi gli occhi
si adagiavano sui suoi stretti fianchi e le mani immaginavano di sfiorare le
sue gambe. Quando si alzava per andare via, puntualmente alle otto, i miei
occhi la imploravano di restare, di rivolgermi uno sguardo. Ma lei, ogni
giorno, si alzava, mi guardava mentre si infilava il cappotto, e sorrideva,
senza dire nulla, senza aspettarsi nemmeno che io dicessi qualcosa.
Io non avevo il coraggio di parlarle per primo, accettavo la sua
discrezione ed il suo tatto nell’avvicinarmi e la rispettavo, standomene seduto
a guardarla con gli occhi di un cerbiatto innamorato. Di giorno, quando ero al
lavoro, capitava spesso che uscissi per andare al bar e vedere se per caso si
trovasse lì. Ma non la incontrai mai. La sera i miei pensieri erano per lei e
la notte mi addormentavo sognando di poter essere Peter Pan, volare sopra i
cieli della mia città, spalancare le finestre di tutte le case, alla ricerca
disperata della mia Wendy-Elsa.
Non trovai mai il coraggio di fermarla, di parlarle, di farle capire quello
che provavo per lei. In fondo, cosa avrei potuto offrirle, una vita normale?
No, lei non la meritava. Lei meritava qualcosa di speciale, una passione fuori
dal comune che sì, in quell’ora e mezza io mi sentivo nel pieno potere di
darle, ma dopo? Lei avrebbe condizionato tutta la mia vita ben oltre quell’ora
ed io potevo offrirle soltanto un posto da amante, e l’idea mi raccapricciava.
Lei aveva diritto a tutto ciò che nella vita reale io avrei dovuto negarle e
così, forzosamente, rimasi fermo come uno scolaretto, disperato, al mio posto.
Resistetti ogni giorno alla tentazione di porre la mia mano sulla sua per
fermarla. Mi facevo forza per distogliere il mio sguardo dal suo nello stesso
istante nel quale mi abberevavo, impunemente e crudelmente, alla sua bellezza e
mi immergevo nella inconsolabile tristezza di quegli occhi. Ero un principe
senza reame, che guardava la sua principessa specchiarsi nel lago ed evita di
respirare perchè nemmeno un piccolo soffio scheggi la superficie dell’acqua che
riflette il suo viso.
Poi un giorno Elsa non entrò più. Quel giorno l’attesi con ansia, pensai si
potesse essere ammalata e così ritardai a preoccuparmi di una settimana. Poi il
mio cuore mi suggerì l’intima certezza che non l’avrei più rivista e dovetti
farmi forza per nascondere quel dolore profondo che sentivo, misto al rimorso incessante
per non averle nemmeno parlato, per non averle chiesto mai neanche il suo nome.
Per poter almeno farla echeggiare ancor nella mia mente, la nominai Elsa, nome
ebraico che deriva da El, Dio, e sheba,
sette, simbolo della perfezione. La perfezione della sua maestà.
Da qualche mese ho cambiato lavoro. Non sopportavo più di entrare in quel
bar e di aggirarmi in quei luoghi dove avevo vissuto quell’intenso amore puro con
lei. Elsa era diventata la mia ossessione, avevo iniziato a desiderarla al
punto che la mia vita stava uscendo totalmente dalla quotidianità ed io non
potevo permettermi di distruggere quello che in tanti anni avevo costruito. Mi
si spezzava il cuore, e tentai in ogni modo di dimenticarla, senza riuscirci.
Oggi l’ho rivista. Il tormento che sembrava soffocato è tornato, prepotente.
Sono qui che mi chiedo come possa il destino essere così beffardo e farmela ritrovare
dopo che sono scappato da lei due volte, per preservare la mia ordinaria vita.
I nostri occhi si sono incrociati per strada, si sono persi in un attimo di
felicità. So che anche lei è stata felice per quel solo istante. Ora so che quello che io ho provato è
condiviso da lei. So che anche per lei deve essere stato difficile resistere
alla tentazione di avvicinarsi, di accostarsi alla mia anima. So che sarebbe
stato devastante, perchè quando incontri un’anima così, uno spirito che ti
infiamma appena incroci la sua vita, nulla, davvero nulla, resta più come prima.
Prima o poi, in questa vita o altrove, saremo liberi di vivere l’immensità
che ci siamo scambiati negli occhi con un solo sguardo. Non mi resta che
sperare che allora, solo allora, il destino mi conceda di incontrarla ancora.
El Sheba.
:)
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