Margaret Mazzantini è tornata. Circa centoventi pagine intense, che
prendono il via dalla storia di Farid, un bambino che fugge dalla Libia di
Gheddafi con sua madre Jamila, che lascia la sua casa e la sua amica gazzella e
si ritrova nel mare, che non ha mai visto, oltre il quale ci sono le sue
semplici speranze: un giocattolo, una coca-cola ed una pizza.
Vito, dall’altra parte di quello stesso mare, raccoglie detriti di
naufragi in un garage siciliano, perchè qualche negro, un giorno possa
ritrovare il suo passato. Il suo, di passato, è presente negli occhi della
madre, Angelina, figlia di quegli Italiani, i “Tripolini”, che furono spinti ad
andare in Libia per la colonizzazione, poi cacciati agli inizi della Seconda
Guerra Mondiale, che di quella Libia serba un ricordo bello e struggente, al
quale vorrebbe tornare.
Due madri, Jamila e Angelina, che sono costrette a lasciare quella che considerano
la propria patria e vivono il mare come separazione da ciò che più amano. Due
figli, Farid, pieno di speranze, ancora troppo giovane per distinguere passato
e presente e Vito, che di speranze non ne ha perchè le ha viste morire negli
occhi di sua madre e si trascina indeciso durante l’estate senza un sogno per
il quale vivere.
Torna con Margaret Mazzantini il linguaggio che ti buca il cuore, ricco
di passioni, di sentimenti, di dolore. Circa centoventi pagine che ti raccontano
una realtà fin troppo nota dai giornali, quella dei barconi di immigrati
clandestini che affondano con le loro speranze di ricominciare, quella degli
emigranti che portano nel loro cuore il ricordo delle loro origini e ad esse
restano avvinghiati per la loro intera vita.
Farid
Farid non ha mai visto il mare, non c’è mai entrato dentro. Lo ha
immaginato tante volte. Punteggiato di stelle come il mantello di un pascià.
Azzurro come il muro azzurro della città morta. Ha cercato le conchiglie
fossili sepolte milioni di anni fa, quando il mare entrava nel deserto. Ha
rincorso i pesci lucertola che nuotano sotto la sabbia. Ha visto il lago salato
e quello amaro e i dromedari color argento avanzare come logore navi di pirati.
Abita in una delle ultime oasi del Sahara.
I suoi antenati appartenevano a
una tribù di beduini nomadi. [...] Il deserto era la loro casa, aperta,
illimitata, il loro mare di sabbia. Macchiato dalle dune come il manto di un
giaguaro. Non possedevano nulla. Solo impronte di passi che la sabbia
ricopriva. Il sole muoveva le ombre. Erano abituati a resistere alla sete, ad
essiccarsi come datteri, senza morire. [...] Il deserto è come una bella donna,
non si rivela mai, appare e scompare. Ha un volto che cambia forma e colore,
vulcanico o bianco di sale. Un orizzonte invisibile, he danza e si sposta come
le sue dune.
[...] Loro andranno verso il
mare. [...] Chilometri di silenzio, solo il rauco motore. E’ una scena di
guerra, di ogni guerra. Umanità deportata come bestiame. [...] Dalla sabbia
affiorano stracci colorati. Una camicia, un paio di blue-jeans che sembrano
vuoti, come panni stecchiti stesi per terra. Più avanti una scarpa. Poi le
teste mangiate dal caldo, affossate nella sabbia. I capelli e le mandibole. Le
mani come carrube essiccate. [...] Tutti sanno di cosa si tratta, sono i
profughi del Mali, del Ghana, del Niger, abbandonati nel deserto dei
carovanieri dopo gli accordi europei del rasi per bloccare i flussi migratori
dei disperati.
[...] Jamila non è triste.
Affonda, prende fiato davanti a un nuovo banco di sabbia. Farid adesso è alle
sue spalle, avvolto in un grembo di tela, come quando era piccolo. Jamila è
giovane, ha poco più di vent’anni. E’ una giovane vedova con il suo bambino. Il
deserto è la loro conchiglia.
[...] I pretoriani lealisti hanno
l’ordine di lasciar partire i barconi. Adesso il rais vuole che il Mediterraneo
si riempia di miserabili per far tremare l’Europa. E’ l’arma migliore che ha.
La carne marcia dei poveri. E’ dinamite. Fa scoppiare i centri d’accoglienza,
le ipocrisie dei governanti.
[...] Farid guarda il mare. La
prima volta in vita sua. Lo tocca con i piedi, lo raccoglie con le mani. Lo
beve e lo sputa. Pensa che è grande, ma non come il deserto. Finisce dove
comincia il cielo, dopo quella striscia azzurra, orizzontale. Credeva di
poterci camminare sopra come le navi dei pirati. Invece è bagnato e succhia da
sotto. Le onde vanno avanti e indietro, come i panni stesi di sua madre, se lui
scappa gli vengono appresso. [...] Farid guarda indietro, trova una fessura attraverso
i corpi. La costa non c’è più. Solo mare che sale e scende. [...] Non gli
importa di lasciare il passato. E’ un bambino, troppo piccolo per avere il
senso reale del tempo. E’ tutto insieme, nella stessa mano, ciò che conosce e
ciò che lo aspetta. [...] In faccia gli arriva il fumo nero del gasolio. Sua
madre lo tiene stretto. Lui cerca quel contatto, quell’odore. Ma Jamila ormai è
impregnata di gasolio. E’ quello l’odore del viggio, deella speranza.
[...] Si soffoca, il sole fa le
croste sulla bocca. Sua madre raziona l’acqua. Gli dà sorsi sempre più piccoli
che non bastano nemmeno a pulire la lingua. Fanno i loro bisogni in un secchio
comune che poi viene svuotato in mare. Le bestie? Qualcosa oltre. Le bestie non
hanno così paura di morire. [...] Di notte fa freddo, la temperatura scende con
l’acqua, il mare diventa carta nera. Esala un fumo che resta e bagna addosso.
Farid trema. La madre lo ha avvolto nel suo velo umido, scivoloso come una
buccia. Farid ha freddo lì sotto. Il vento è cattivo e frusta. Farid si stringe
alle ossa di sua madre, cerca il caldo del seno. Anche lei trema, sembra uno di
quei cesti con i serpenti dentro che si agitano. Da un pezzo non lo faceva più
avvicinare al suo seno, sei grande ormai.
Adesso lo spinge lì, dove un po’ di caldo del giorno è rimasto come nelle
pietre.
[...] E’ tutto buio e la luna se
n’è andata. [...] Le braccia della madre sono meno forti, sprofondano insieme
alla barca, cedono come ruote nel deserto. Farid aspetta l’alba. Aspetta l’Italia.
Lì le donne camminano con il capo scoperto e la televisione ha infiniti canali.
Scenderanno nelle luci, qualcuno li fotograferà. Gli daranno dei giocattoli,
gli daranno la coca-cola e la pizza.
[...] Jamila è un insetto che si
spegne. [...] Quando ha visto il mare le è sembrato grande e bagnato, ma niente
di più. Una terra facile, senza armi. Una benedizione. Non sapeva che fosse
senza fine, che gridasse da tutte le parti. Sono giorni e notti che la sua
faccia nera e muta sale e scende con le onde. Le mani sono raggrinzite come
radici allo scoperto. Stringe il figlio, il piccolo dattero. [...] Ha superato
la vita ed è ancora lì. Sa che tutto sommato è stato meglio così, che il suo
cuore abbia retto. Il terrore ormai era solo quello, morire prima del bambino,
lasciarselo cadere dalle braccia. Fargli sentire la grande solitudine del mare.
Il cuore nero.
Vito
Vito guarda il mare. Sua madre un
giorno gli ha detto devi trovare un luogo
dentro di te, intorno a te. Un luogo che ti corrisponda. Che ti somigli almeno
in parte. Sua madre somiglia al mare, lo stesso sguardo liquido, la stessa
calma e dentro la tempesta. [...] Sua madre per undici anni è stata araba.
Guarda il mare come gli arabi, come si guarda una lama. Sanguinando già.
[...] Angelina sa cosa vuol dire
ricominciare. Voltarsi e non vedere più niente, solo mare. Le tue radici
inghiottite dal mare, senza alcuna ragione accettabile.[...] Pensava soltanto a
quello. Riportare la sua vita a quel punto. Nel punto dove si era interrotta.
Si trattava di unire due lembi di terra, due lembi di tempo. In mezzo c’era il
mare.
[... Vito] carca un punto fisso
all’orizzonte. Qualcosa che lo aiuterà a superare quell’angoscia che ora sale,
dal nulla, la mattina, appena apre gli occhi e il primo pensiero è: che scendo
a fare dal letto?
[... Vito] li ha visti quei barconi carichi e puzzolenti come
barattoli di sgombro. I ragazzi del Nord Africa, i reduci dalle guerre, dai
campi profughi e gli imbucati. Ha visto gli occhi allucinati, il passaggio dei
bambini sopravvissuti, le crisi di ipotermia. Le coperte d’argento. Ha vito la
paura del mare e la paura della terra.
Ha visto la forza di quei disperati, io voglio lavorare, voglio
lavorare. Voglia andare in Francia, in Europa del nord a lavorare.
Ha visto la determinazione e la purezza. La bellezza degli occhi, il
candore dei denti.
Ha visto il degrado, il porcile.
Le schiene dei ragazzi contro un muro, i militari che gli toglievano i
lacci delle scarpe e le cinture.
Ha visto la gara degli aiiuti, i panni trovati per i bambini, le
collette dei poveri davvero incazzati, perchè Gesù Cristo chiede sempre a loro.
Ha visto la saturazione, la paura delle epidemie. La gente protestare,
bloccare i moli, gli approdi. E poi ricominciare, buttarsi nel mare in piena
notte per tirare su quei disperati che nemmeno sanno nuotare.
E non sai davvero chi salvi, magari un avanzo di galera. Uno che ti
ruberà il cellulare, che guiderà contromano ubriaco, che stuprerà una ragazza,
un’infermiera che torna a casa dal turno di notte.
Ne ha sentiti di discorsi così Vito, affastellati, rozzi. La rabbia
dei poveri contro gli altri poveri. Salvare il tuo assassino, forse è questa la
carità. Ma qui nessuno è un santo. E il mondo non dovrebbe avere bisogno di
martiri, solo di una ripartizione migliore.
[... Vito] a casa
più tardi inchioda gli avanzi su un telaio. La pagina di un diario scritto in
arabo, la manica di una camicia, il braccio di una bambola. E’ lavro senza un
significato tangibile. Dettato da quella disperazione senza credito che lo
affligge. [...] Vito trascina, incolla. Pezzi di quelle fughe interrotte. Non
sa perchè lo fa. Cerca un luogo. Vuole fermare qualcosa. Vite mai arrivate a
destinazione. [...] «Ho fermato un naufragio». Vito ha raccolto la memoria. Di una
tanica blu, di una scarpa. Qualcuno ne
avrà bisogno un giorno. Un giorno, un negro italiano avrà voglia di guardare il
mare dei suoi antenati e di trovare qualcosa. La traccia del passaggio. Come un
ponte sospeso. [...] Tocca quelle povere cose incrostate, reliquie marine.
Lavate dal sale. Quel naufragio scolpito nel suo capanno degli attrezzi. Fa
impressione, è come un sito archeologico intatto. Un mondo salvato.
La storia
Nonna Santa
sbarcò in Libia con l’onda migratorio del ’38. Era la settima di nove figli.
[...] Nonno Antonio arrivò con l’ultima nave, quella che salpò dalla Sicilia,
con i sacchi di sementi, i tralci di vite, i cespi di peperoncino.
[...] Fecero
amicizia con gli arabi. Gli insegnarono i loro trucchi agricoli. Erano poveri
con altri poveri. Aveva le stesse rughe di terra e fatica sulla fronte.
Mangiavano il pane senza lievito cotto sulla pietra, mettevano a salare le
olive. Scavarono pozzi, costruirono muri per difendere i campi coltivati dal
vento del deserto. Santa e Antonio si ritrovarono vicini di podere. [...] Si
diedero il primo bacio a Bengasi, durante uno spettacolo equestre di cavalieri
berberi in onore del duce. Poi scoppiò la guerra. [...] I coloni italiani furono ricacciati indietro.
[...] Ma a guerra
finita molti tornarono su barche di fortuna, pescherecci marci e troppo
carichi, arche di Noé come i barconi dei disperati di oggi. [...] I tripolitani
accolsero i sopravvissuti al mare come fratelli ritrovati. Avevano in antipatia
gli inglesi. Gli italiani erano neri di sole, parlavano un po’ d’arabo,
bevevano tè alla menta sui tappeti al tramonto. Si erano stretti nelle stesse
sciare. Erano superstiti come loro, erano ingegno e fame. Poi negli anni
cinquanta fecero fortuna e figli, aprirono ristoranti, aziende artigianali,
imprese edili. Coltivarono chilometri di sabbia.
[...] E Angelina
si presentò con i piedi. In Italia sarebbe nata con un parto cesareo. A Tripoli
nacque in casa con una levatrice tinta di henné fino ai gomiti che infilò una
mano e fece la manovra. Andò all’asilo Suore Bianche, poi alla scuola
elementare Roma.
[...] Poi venne
quel giorno di settembre. Il coprifuoco. La città avvolta nella coltre del
sotterfugio, sospesa nel silenzio. [...] Cominciarono dagli ebrei. Gli stessi
ebrei che a Tripoli avevano vissuto liberi anche sotto il fascismo, fatto
commerci coloniali, bevuto tè protetti dai gazebo di tulle, danzato nei circoli
privati, nonostante le leggi razziali promulgate a Roma. [...] Angelina non
sapeva che il giovane Gheddafi avrebbe scacciato pure i morti del cimitero di
Hammangi. Che l’Italia si sarebbe riportata indietro le spoglie di migliaia e
migliaia di soldati morti in Libia. Che suo padre e sua madre, i loro amici del
villaggio di Oliveti, quelli di Sciara Derna e Sciara Puccini, di Case Operaie,
quelli che avevano costruito le strade, i palazzi, i pozzetti fognari, reso una
fruttiera il deserto, tutti loro avrebbero pagato le malefatte del colonialismo
cruento e velleitario dell’Italia liberale di Giolitti e della quarta sponda
fascista.
[...] Tripolini.
Generazioni di stracci buttati indietro. Senza più nulla, smistati nei campi
profughi in Campania, in Puglia e al nord. Le file davanti ai cessi con la
carta igienica. Pantofole nel fango. Pasta nelle vaschette di plastica. Un
televisore su una sedia pieghevole. Un campeggio di finti turisti. La zona di
transito dove la vita si arresta. Per gli anziani era stato impossibile pensare
di ricominciare. [...] Erano gli anni settanta, trovarono un mondo distratto. A
nessuno interessava la loro diaspora. Erano la coda sporca di una storia
coloniale che nessuno aveva voglia di dissotterrare. [...] Cosa siete tornati a fare? A rubare il lavoro agli altri italiani,
quelli veri, nati e cresciuti qui? A saltare avanti nelle graduatorie di
disoccupazione? [...] Gheddafi s’era ripreso il suo. L’Italia era
colpevole. E loro erano l’avanzo di quella colpa. Un branco minore di
diseredati.
[...] La nonna
disse chi ti risarcisce di quello che ti
hanno rubato? Avevamo ulibeti e amici. Avevamo una storia.
[...] Angelina
sta aspettando che la guerra finisca. Che l’attore dai mille volti venga
catturato e processato.
Ha visto i bombardamenti della Nato. Il solito non colpiremo obiettivi
civili. Hanno tirato giù anche la fabbrica che riforniva le bombole d’ossigeno
all’ospedale.
Ha visto gli inganni, la piazza Verde piena di ribelli, finta,
ricostruita dalle tv come un set.
Ha visto i guerriglieri con le bandane, i bambini con il mitra.
Ha allungato un braccio verso il televisore come per fermarli.
La loro città distrutta, i muri crivellati, i buchi delle esplosioni.
Le palme canute di detriti.
Sua madre Santa ha detto ci
stanno sparando addosso.
Noi siamo tripolini, non siamo
né qui né lì, siamo fermi in mare come quei ragazzi senza approdo.
[...] «Hai saputo ma’? L’hanno ammazzato» [...] «Gheddafi, hanno
ammazzato Gheddafi»
[... Angelina ] conosce la fine dei dittatori. Quando la carne diventa
gomma da trascinare. L’insensatezza della rabbia postuma. Nessuna gioia, solo
un macabro trofeo che sporca i vivi. La memoria è calce sui marciapiedi del
sangue.
Siamo liberi. Evviva evviva.
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