5 febbraio 2011
La notte era stata un inferno per
te. Ma del resto ci eri abituata. Non è facile trascorrere sedici anni della
tua vita, scivolando lentamente verso il basso. Ci tenevi alla tua
indipendenza. Da che mi ricordo di te, lo hai sempre fatto. Hai sempre combattuto
perché tu potessi fare le cose che volevi, da sola, con l’aiuto minimo
indispensabile da parte degli altri, soprattutto coloro che non erano parte
della tua famiglia più ristretta. Non volevi «dare fastidio». Era la cosa che
odiavi di più. E per la legge del contrappasso sei finita a dipendere dagli
altri, anche per le esigenze più intime, tenendo in te quella che consideravi
una vergogna, alternando le richieste che ti uscivano forzate dalla bocca con
uno «scusa» ed un «grazie» che ti pesavano, e non perché non volevi dirle, ma
perché avresti preferito che la tua vita si fosse svolta senza essere costretta
a chiedere aiuto agli altri, pesando su di loro. Molte volte ti ho detto che
non era un peso, e tu fingevi di crederci con il sorriso sornione di chi la sa
lunga, ma ti accontenta.
Quella notte era passata tra i
lamenti, tu china sulla tua poltrona, perché oramai a letto non riuscivi più a
starci, piegata in avanti, con il volto verso il pavimento, bloccata da un
divano, perché avevamo paura che scivolassi piano in avanti e cadessi. Piccole
cure. Piccole attenzioni, di fronte ad una situazione che era più grande di noi.
Di nessuno di noi. Avevamo studiato altro nella vita. Ed eravamo stati
fortunati, perché fino ad allora nessuno di noi aveva avuto bisogno di
assistenza in modo così spinto. Non sapevamo né cosa fare, né quando farlo. Pur
avendone la voglia.
Eravamo lì con te, ad alternarci,
muovendoci al ritmo dei tuoi lamenti. Ci sentivamo impotenti, perché nulla di
ciò che avessimo potuto fare avrebbe potuto darti sollievo nelle condizioni in
cui eri. Ferma, sulla tua poltrona. Immobile, perché ogni movimento causava un
dolore profondo. Avremmo scoperto solo quella sera che il dolore era nelle
piaghe, non nelle ossa che ti avevano massacrato da anni di fitte, incurvandoti
sotto il peso della malattia, incurabile.
La luce del giorno che trafiggeva
le persiane illuminava debolmente la stanza e portava la speranza che il sonno
vincesse temporaneamente il dolore. Non fu così, ma a quell’ora della mattina
ci speravamo ancora, mentre il caffè fumante spargeva il suo aroma intorno.
-
Hai fame?
- - No
- - Devi mangiare qualcosa…
Lo stomaco era chiuso, e non solo
il tuo, anche il nostro.
Arrivò l’infermiere per le
analisi. Un sorriso a volte riscalda, anche quando il freddo è gelido, nelle
ossa e nel cuore. E tu sorridevi a tutti, tu avevi una parola buona per tutti.
Non ti eri mai lamentata di nulla, avevi sempre sofferto in silenzio, piangendo
in un angolo, quando la rabbia, più che il dolore, era più forte.
Era l’inizio dei gironi più
profondi dell’inferno, fu una lenta discesa scalino per scalino. Il dolore
forte alla gamba, non ne potevi più. Le fitte alla schiena, non le sopportavi.
Quel senso schiacciante di impotenza ci portava a starti accanto, muti, con
lacrime che scendevano all’interno degli occhi, perché anche se tu oramai non
vedevi più, avevi sviluppato una sensibilità speciale al tono della voce, al
tremolio della mano, al respiro irregolare. Te ne saresti accorta e avresti
sofferto, perché pur se non colpevole, ti sentivi la causa della nostra
sofferenza. Non parlavamo, perché non c’erano parole. Ruotavamo intorno a te,
alternandoci quando eravamo stanchi e sentivamo il bisogno di una pausa. E ci
sentivamo in colpa per quella pausa, perché tu, alla fine, dal tuo dolore non
avevi nessuna pausa.
Cercavamo una soluzione, ma non
ne vedevamo. Non eravamo in grado di assisterti e questa era la pena più
grande. A te, che sempre ci avevi curato, noi non eravamo in grado di offrire
nulla più di una presenza, forse fastidiosa per te che non avresti voluto
dipendere da nessuno.
I sensi di colpa, quando colpe
non ne hai in realtà, affiancati al senso di impotenza, quando ti rendi conto
che non puoi fare nulla, ti rodono dentro. Sono come acido che corrode tutto
dentro di te, si spinge nell’intestino e ti lacera le budella. Cercavamo di
spingere il cervello a pensare oltre l’impossibile per cercare un’alternativa a
quell’inferno. Non ci importava di quanto stessimo soffrendo, non sentivamo né
il sonno, né la fame, né la stanchezza. Ci importava solo alleviare la tua
sofferenza e ci rendevamo conto di essere inutili. Assolutamente inutili.
Il telefono bruciava
nell’orecchio quando dall’altra parte ci sussurravano «Mi dispiace. Non abbiamo
le strutture adeguate per dare assistenza come si dovrebbe ad una paziente in
queste condizioni». Volevamo urlare «Chi lo fa, se non lo fate voi che avete
studiato per questo?», ma ci adeguavamo e rimanevamo attaccati al computer a
cercare una soluzione. «A qualcosa servirà questa rete globale».
E infine riuscimmo. Dopo mille
telefonate abbiamo ricevuto un «Sì» e ci siamo convinti che fosse meglio, che ti
avrebbero trattato meglio di come potevamo farlo noi.
Non fu difficile preparare di
nuovo le tue cose, perché in fondo eri appena tornata da un altro ospedale ed
era ancora tutto ordinato e pulito nelle tue valigie. C’era solo da dividere le
cose strettamente necessarie, da portare insieme con te in ambulanza, dalle
cose utili, da tenere in macchina.
L’attesa fu delirante. Tu
soffrivi sempre di più e starti accanto era impossibile senza piangere, senza
sentirsi perfettamente inutili se non per quelle continue carezze. Avrei
continuato a carezzarti per sempre se questo avesse potuto essere per te un
sollievo. Ma forse era un sollievo più per me, che per te. Tra la rabbia
dell’impotenza e la convinzione di stare facendo tutto ciò che pensavamo fosse
meglio, passavano i minuti, goccia a goccia. L’ambulanza infine, il tuo volto
un po’ più sollevato e la speranza di qualcuno che ti potesse davvero aiutare,
come noi non eravamo in grado di fare da soli.
Quando arrivammo in ospedale eri
già in terapia intensiva. I medici non si spiegavano come mai ti avessero
dimessa, dall’altro ospedale. Fummo presi dall’angoscia di non avere fatto
abbastanza per te, ma ci chiedevamo da cosa noi avremmo potuto capire
l’opportunità di tenerti in ospedale rispetto al tornare a casa, cosa che
desideravi più di tutte.
Cominciò l’attesa. La lunga
attesa di sapere come stavi.
Cominciò la fiducia. La cieca
fiducia che ti potessero far stare bene, o almeno ti lenissero il dolore.
Entrammo nella stanza solo per
poco. La situazione era grave, ci sarebbe voluto del tempo per recuperare. Ma
la speranza c’era. Così ci dissero, prima di chiederci di uscire. Non potevamo
stare lì la notte, non ce n’era bisogno. Potevamo tornare la mattina dopo, non
prima delle undici.
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