6 febbraio 2011
Erano giornate tiepide d’inverno.
Ma per quanto tiepide fossero, faceva freddo la mattina presto. O forse il
freddo era dentro di noi, ne pervadeva le fibre. O forse era la stanchezza
soltanto, la paura.
Quella mattina era una domenica.
Il Grande Raccordo Anulare era deserto e percorremmo facilmente i quaranta
chilometri che ci dividevano da te. Niente caffè, niente colazione. Lo stomaco
non c’era più. Era stato risucchiato dalla tensione. Volevamo vederti, volevamo
dirti «siamo qui fuori». Era importante per noi che tu sapessi che eravamo
vicini, anche se non potevamo restarti accanto. Sapevamo che era importante
anche per te.
Passammo molto tempo in sala
d’attesa, un salottino con due divani di pelle, appena fuori dalla terapia
intensiva. Una macchinetta dell’acqua, per spezzare la gola riarsa dall’aria
secca. Una macchinetta vicina, per qualcosa di caldo, quando proprio non ce la
facevamo più a tenere gli occhi aperti e ci sentivamo fortemente in colpa a
chiuderli seppure per un attimo. Camici verdi in giro. Avanti, indietro.
Vociare dietro la porta. Cercavamo di capire le parole, ma sentivamo solo il
sottofondo delle voci, nulla che ci potesse aiutare a sapere quello che volevamo:
«come sta?»
Infine la porta si apre, si
parla, si discute. Non è critica la situazione. E’ grave, ma non critica. Ce la
possiamo fare? Mi senti? I medici dicono che ce la possiamo fare.
Entro. Possiamo entrare uno per
volta, di più non si può.
Sei piccola in un letto enorme.
Sei nuda, sotto le lenzuola.
Questo ti dà fastidio, sei sempre
stata molto riservata e ti dà fastidio che anche un solo lembo della tua pelle
sia alla vista di chiunque, medici e infermieri, ai quali però lo sai, non
interessa altro che farti stare meglio. Mi lavo le mani con l’amuchina. Sei
delicata. Sei a rischio di infezioni. Non voglio portartele io. Sono anche io
con camice verde, sovrascarpe azzurre. Non
voglio portarti nulla se non il mio cuore dolente. Mi guardi, non sembri tu,
con la maschera dell’ossigeno, l’ago per le flebo direttamente nel collo,
perché le tue vene si sono ristrette ad un filo e si rifiutano di portarti
medicine e cibo, tanti piccoli tubi che ti girano intorno e in alto. A destra,
la scansione del tempo ritmata dal battito del tuo cuore, bum bum bum.
Mi siedo accanto a te e ti prendo
la mano. Mi dici che sei trattata bene e sei contenta. Sono contenta anche io,
perché so che per te è importante il rispetto, perché so che ora che ti senti
indifesa qualunque cosa ti potrebbe impaurire. Ti prendo la mano, sto attenta a
sfiorarti perché ho paura di quei tubi. Guardo il monitor, cerco di capire come
funziona. L’occhio si abitua alla linea che va su e giù. L’orecchio si assuefa
al tuo cuore, bum bum bum. Ti assopisci, sei stanca. Stanca di lottare. Nella
tua vita hai sofferto al punto che adesso sembra che tu ti sia arresa. Sai di
dover restare lì, buona, mentre cercano di curare il tuo respiro, di fare in
modo che l’anidride carbonica si scambi correttamente con l’ossigeno. Puntuale
l’emodinamica. Puntuale il cambio delle flebo. Molti specialistici si
susseguono. E’ domenica, apprezziamo che ci sia gente che rinuncia a qualcosa
per visitarti.
Scaduto il tempo. Vado fuori. «Ci
vediamo più tardi».
Torno nel salottino e lascio il
posto agli altri. Anche loro vogliono starti accanto. Abbiamo tutti diritto, ma
nelle comunità la libertà degli uni termina dove inizia la libertà degli altri.
Anche qui vige la regola: esco io, entri tu. Prima o poi rientrerò anche io.
Prima di andare via, ci fanno
entrare. Ti lamenti di un medico per una battutaccia che ha fatto «Ero a casa a
vedere la partita ed ora sono qui». Ci dici che volevi rispondere «Poteva
starsene a casa», ma non lo hai fatto, chissà se perché non ne avevi più
voglia, se perché per te non era più importante, o solo perché non ne avevi più
la forza.
Siamo andati a casa. Non potevamo
restare, era inutile restare lì a dormire sui divani.
Abbiamo cenato in silenzio,
ascoltando il rumore dei nostri denti che trituravano l’aria, perché non
avevamo voglia di nulla, se non che arrivasse presto il giorno dopo per venire
da te. Ci siamo annullati in te. Non contava più nulla quello che eravamo o avevamo
fatto. Vivevamo per te e per il sollievo che potevamo darti. Noi non eravamo
più niente. Niente sensazioni, niente emozioni. Finché tu non fossi uscita di
lì, noi saremmo stati niente.
Posso capire il tuo stato d'animo. Sii forte e sorridile sempre....Con affetto.
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