7 febbraio 2011
Il lunedì il Grande Raccordo era
più trafficato, ma in fondo prima delle undici non potevamo entrare a trovarti.
Erano stati chiari la sera prima.
Ritrovarti alle undici è stato
bello, ma fortemente doloroso. La situazione iniziava ad essere critica. «Devo
tenere la maschera grande, quella piccola non basta più» ci hai detto «Ho
chiesto di metterla quando c’eravate voi». Eravamo la tua famiglia. Eravamo
coloro che ti potevano dare sollievo. Eravamo gli unici che potevano starti
accanto. Eravamo contenti di farlo, seppure a turno, anche se sapevamo che a te
faceva piacere che stessimo vicini tutti insieme. Vicini a te.
Fu doloroso parlare con i medici.
La situazione peggiorava. Minore scambio d’ossigeno. La situazione peggiorava
ancora. C’era un blocco renale. Dovevamo stare lì, ma potevamo alternarci
fintanto che nessun altro paziente era in terapia intensiva. Qualcuno dei
medici ci teneva ancora su la speranza. Qualcun altro ci parlava delle manovre
di emergenza, di intubazione forzata e dei problemi che si aspettavano per il
fatto che tu non avevi una normale spina dorsale.
Quando ci hanno informato che dovevamo
essere pronti a decidere se autorizzare manovre dolorose per tentare di
salvarti oppure se preferivamo che i medici agissero al meglio, senza farti
soffrire, ci siamo guardati negli occhi, indecisi tra la decisione egoistica di
tentare il tutto per tutto, sapendo che avresti sofferto, e quella di tentare
qualunque cosa potesse essere compatibile con il minore dolore possibile. Cosa
potevamo decidere, sapendo che avevi già sofferto, tremendamente, da più di
quindici anni ed eri stanca, visibilmente stanca, del tuo dolore? Autorizzare
il dolore, per cosa? Per salvarti e tenerti ferma ed immobile su un letto,
attaccata ad una macchina dell’ossigeno che ti tenesse in vita? Solo perché
avevamo ancora bisogno di te? O potevamo autorizzarti a sbarazzarti dal tuo corpo, da quel corpo che era già la
tua tomba da anni, che lentamente ti aveva inibito anche il più semplice
movimento, anche la semplice vista dei tuoi cari, lasciandoti in un mondo
bianco ovattato che tu, semplicemente, avevi scelto di non vedere, restando la
maggior parte del giorno ad occhi chiusi? Credo sia stato un bene, alla fine,
che le cose siano precipitate improvvisamente, a tal punto che i medici hanno dovuto
scelto direttamente da sé cosa fare. Per noi sarebbe stato decidere se farti
morire già da viva o se farti morire e basta.
Il pomeriggio fu un alternarsi al
tuo capezzale. Lo scambio di ossigeno insufficiente già ti portava a non essere
più te stessa. Dormivi o semplicemente gli occhi erano chiusi. Non reagivi
molto, ma ci sentivi. Sentivi la nostra presenza e ci volevi accanto. Uno alla
volta, perché di più non si poteva. Ma ci faceva piacere sapere che ci volevi
accanto a te, che ci chiamavi, che chiedevi di chi non c’era, che cercavi una
carezza o una parola. In qualche modo ci faceva sentire speciali. Sapevamo che
da un momento all’altro avresti potuto dirci cose tremende. Ce lo aspettavamo.
Ci avevano informato i medici: è così, non ve la prendete, ma è solo l’effetto
della scarsità di ossigeno.
Pensi ad un prato verde. Pensi ad
una enorme campagna all’aperto. A quanto ossigeno ci sia, a quanto il tuo naso
inspira ossigeno e a quanto butta fuori anidride carbonica. Pensi a questo
meccanismo che è assolutamente involontario e naturale. Non fai nulla, eppure
vivi. Poi ad un certo punto non fai nulla, e non ci sei più. Tutto indipendente
dalla tua volontà di piccolo uomo.
Le carezze infinite. La mano
sulla tua. Avanti e indietro, lungo la pelle scarna, ma liscia. Hai sempre
avuto delle belle mani. Ricordo da piccola quanto mi piaceva accarezzarle.
Ancora oggi quando vedo delle mani come le tue, le chiamo “le mani da mamma”.
Ti accarezzo, le mani, il viso. Voglio assaporare questo momento perché sento
che stai andando via e voglio trattenere tutto ciò che posso. Quando non sono
con te, cerco di stare affianco agli altri, che vedo soffrire come me, che vedo
spaesati come me. Un dolore comune e muto. Un dolore senza parole, perché non
servono più. Bastano gli sguardi di paura, ogni volta che un medico esce dalla
sala. Basta vedersi seduti su un divano, uno di fronte all’altro, sfatti, con
lo sguardo perso nel vuoto, per capire quanto dolore c’è dentro. E non
basterebbero le parole per esprimerlo. Si può solo provarlo, per capirlo.
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