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8 feb 2012

Quattro giorni


La notte tra il 7 e l’8 febbraio

Ci chiedono di restare. La situazione è peggiorata. Polmoni e reni hanno ceduto. Il cuore batte regolarmente. «Ha un cuore forte», dicono. «Hai sentito? Hai un cuore forte».
Cerchi regolarmente di toglierti la maschera. Ti dà fastidio.

Hai le labbra secche. Ti passo la crema, sulle labbra e sul viso. L’ossigeno asciuga la tua bella pelle morbida fino a seccarla. Sono qui, mi senti? Sono qui, sono qui. Non so quante volte l’ho ripetuto, perché tu non ti sentissi sola.

«Aspettatevi un peggioramento da un momento all’altro. Può accadere in un attimo». Ero rimasta sola, perché era necessario che qualcuno andasse a casa a sistemare alcune cose, a prenderti dei vestiti, a riposarsi un po’, perché sarebbe stata una notte lunga. Io in fondo non avevo nessuno da curare a casa, ero la figlia lontana e potevo restare con te, forse volevo solo recuperare tutto il tempo che ti ero stata lontana, che ti ero stata inutile. Mi sentivo forte ed invincibile. Non mi importava né bere, né mangiare. Non ero stanca e non avevo sonno. Volevo solo starti affianco, controllare che tu respirassi, avvicinarmi a te e sentire l’aria calda dalle tue narici. Lo avevo già fatto nell’altro ospedale: la sera mi stendevo di fronte a te, gli occhi aperti. Ti controllavo il respiro, mi accostavo a te quando rimaneva sospeso e ritornavo giù con un sospiro quando riprendevi a respirare.

Quando aprivi gli occhi ti parlavo. Quando li chiudevi restavo in silenzio a guardare i monitor: il respiro, l’ossigeno, il cuore, la pressione, le flebo. I medici entravano rispettosi di quel dolore che urlava da ogni poro della mia pelle, ma rimaneva compostamente al tuo fianco. Se mi spostavo per farli lavorare meglio, mi dicevano di stare tranquilla lì che non davo fastidio. Mi veniva da dirti «Vedi, non diamo fastidio… non ti preoccupare». Mi facevo piccola sulla sedia e pensavo, cercavo di recuperare i ricordi, cercavo di metterne da parte altri, perché sapevo che da un momento all’altro avrei potuto solo ripescarli, non più immagazzinarli. Non quelli che ti riguardavano.

All’improvviso mi hanno chiamato. «Ci siamo». 
Ho chiamato gli altri, che erano appena andati a casa. «Tornate, fate con calma ma tornate». Poi sono tornata da te.

Eri in uno stato strano, non capivo se fossi in dormiveglia o se tu fossi proprio in un’altra dimensione. Hai chiamato tuo fratello, morto da qualche anno. Hai chiamato i tuoi genitori. Continuavi a dire «Mamma, portami via». Io non ho risposte. Non ce le ho se non nella fede. In questi momenti o hai fede e credi che ci sia qualcosa dopo e credi che quel qualcosa possa manifestarsi a te in fin di vita, oppure credi siano tutte allucinazioni. Io credo, e quello che dicevi era per me la conferma che stavi per andare via. Non volevo che mi lasciassi, ma sentivo che tu volevi andare via. Non ce la facevi davvero più. La sofferenza ti aveva stremato al punto che il desiderio di spezzare quel cerchio era più forte del desiderio di restarci accanto.

Mi attaccai a te ancora di più. Appoggiavo la testa sulla tua mano e ricordavo quando mi carezzavi i capelli. Ti stringevo la mano e l’accarezzavo e ricordavo le tue recenti parole «Quando eravate piccole ero io che vi curavo, vi lavavo e vi davo da mangiare ed ora siete voi che lo fate». Sono qui. Ti curo, ti lavo, di metto la crema dove hai la pelle screpolata, ti accarezzo, faccio tutto, ma tu… non andare via, ti prego, stai qui, ho bisogno ancora di te.

Ad un certo punto hai chiesto di papà. E’ questo dunque l’amore, alla fine? Il sentirti chiedere ogni cinque minuti di papà e doverti tranquillizzare regolarmente che «sta arrivando»? E’ in questo che risolve una vita passata insieme? Nel solo desiderio che ti ha amato ti stringa la mano nell’ultimo istante, per accompagnarti altrove, dove lui per ora non può venire?

Infine insieme, tutti e tre insieme al tuo capezzale. Ciascuno con il cuore che scoppia, ciascuno indifeso, con le proprie preghiere, con i propri ricordi, con il proprio dolore che vorrebbe urlare, ma si mantiene dentro una bolla di dignità che prima o poi scoppia e c’è solo da sperare che scoppi il più tardi possibile. L’uno che cercava di rispettare il silenzio dell’altro, la voglia di abbracciarsi che moriva in una piccola carezza, un abbraccio, una parola di sostegno.
Alle sei di mattina siamo fuori. Hai superato la notte, ma non sappiamo se attribuire a questo un significato positivo oppure se è una situazione ancora grave. Siamo ancora su quei divani di pelle rossa, un po’ di robaccia calda che la macchinetta chiama caffè, bollente tra le mani, acida nello stomaco. Potevamo farne a mano, ma almeno scaldava dentro. Ci chiedono di andare in una camera a riposare. Non ha senso stare lì fuori per ore. Lo facciamo. Siamo talmente stanchi che siamo come piccoli soldatini nelle loro mani. Siamo bimbi ubbidienti e saliamo su, ci appoggiamo a un letto o a un divano. Quando la luce si spegne, i nostri occhi vagano al buio, la mente rimane sveglia, il fisico crolla.

Sono le otto, oramai.

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