La notte tra il 7 e l’8 febbraio
Ci chiedono di restare. La
situazione è peggiorata. Polmoni e reni hanno ceduto. Il cuore batte
regolarmente. «Ha un cuore forte», dicono. «Hai sentito? Hai un cuore forte».
Cerchi regolarmente di toglierti
la maschera. Ti dà fastidio.
Hai le labbra secche. Ti passo la
crema, sulle labbra e sul viso. L’ossigeno asciuga la tua bella pelle morbida
fino a seccarla. Sono qui, mi senti? Sono qui, sono qui. Non so quante volte
l’ho ripetuto, perché tu non ti sentissi sola.
«Aspettatevi un peggioramento da
un momento all’altro. Può accadere in un attimo». Ero rimasta sola, perché era
necessario che qualcuno andasse a casa a sistemare alcune cose, a prenderti dei
vestiti, a riposarsi un po’, perché sarebbe stata una notte lunga. Io in fondo
non avevo nessuno da curare a casa, ero la figlia lontana e potevo restare con
te, forse volevo solo recuperare tutto il tempo che ti ero stata lontana, che
ti ero stata inutile. Mi sentivo forte ed invincibile. Non mi importava né
bere, né mangiare. Non ero stanca e non avevo sonno. Volevo solo starti
affianco, controllare che tu respirassi, avvicinarmi a te e sentire l’aria
calda dalle tue narici. Lo avevo già fatto nell’altro ospedale: la sera mi
stendevo di fronte a te, gli occhi aperti. Ti controllavo il respiro, mi
accostavo a te quando rimaneva sospeso e ritornavo giù con un sospiro quando
riprendevi a respirare.
Quando aprivi gli occhi ti
parlavo. Quando li chiudevi restavo in silenzio a guardare i monitor: il
respiro, l’ossigeno, il cuore, la pressione, le flebo. I medici entravano
rispettosi di quel dolore che urlava da ogni poro della mia pelle, ma rimaneva
compostamente al tuo fianco. Se mi spostavo per farli lavorare meglio, mi
dicevano di stare tranquilla lì che non davo fastidio. Mi veniva da dirti
«Vedi, non diamo fastidio… non ti preoccupare». Mi facevo piccola sulla sedia e
pensavo, cercavo di recuperare i ricordi, cercavo di metterne da parte altri,
perché sapevo che da un momento all’altro avrei potuto solo ripescarli, non più
immagazzinarli. Non quelli che ti riguardavano.
All’improvviso mi hanno chiamato.
«Ci siamo».
Eri in uno stato strano, non
capivo se fossi in dormiveglia o se tu fossi proprio in un’altra dimensione.
Hai chiamato tuo fratello, morto da qualche anno. Hai chiamato i tuoi genitori.
Continuavi a dire «Mamma, portami via». Io non ho risposte. Non ce le ho se non
nella fede. In questi momenti o hai fede e credi che ci sia qualcosa dopo e
credi che quel qualcosa possa manifestarsi a te in fin di vita, oppure credi
siano tutte allucinazioni. Io credo, e quello che dicevi era per me la conferma
che stavi per andare via. Non volevo che mi lasciassi, ma sentivo che tu volevi
andare via. Non ce la facevi davvero più. La sofferenza ti aveva stremato al
punto che il desiderio di spezzare quel cerchio era più forte del desiderio di restarci
accanto.
Mi attaccai a te ancora di più.
Appoggiavo la testa sulla tua mano e ricordavo quando mi carezzavi i capelli.
Ti stringevo la mano e l’accarezzavo e ricordavo le tue recenti parole «Quando
eravate piccole ero io che vi curavo, vi lavavo e vi davo da mangiare ed ora
siete voi che lo fate». Sono qui. Ti curo, ti lavo, di metto la crema dove hai
la pelle screpolata, ti accarezzo, faccio tutto, ma tu… non andare via, ti
prego, stai qui, ho bisogno ancora di te.
Ad un certo punto hai chiesto di
papà. E’ questo dunque l’amore, alla fine? Il sentirti chiedere ogni cinque
minuti di papà e doverti tranquillizzare regolarmente che «sta arrivando»? E’
in questo che risolve una vita passata insieme? Nel solo desiderio che ti ha
amato ti stringa la mano nell’ultimo istante, per accompagnarti altrove, dove
lui per ora non può venire?
Infine insieme, tutti e tre
insieme al tuo capezzale. Ciascuno con il cuore che scoppia, ciascuno indifeso,
con le proprie preghiere, con i propri ricordi, con il proprio dolore che
vorrebbe urlare, ma si mantiene dentro una bolla di dignità che prima o poi scoppia
e c’è solo da sperare che scoppi il più tardi possibile. L’uno che cercava di
rispettare il silenzio dell’altro, la voglia di abbracciarsi che moriva in una
piccola carezza, un abbraccio, una parola di sostegno.
Alle sei di mattina siamo fuori.
Hai superato la notte, ma non sappiamo se attribuire a questo un significato
positivo oppure se è una situazione ancora grave. Siamo ancora su quei divani
di pelle rossa, un po’ di robaccia calda che la macchinetta chiama caffè,
bollente tra le mani, acida nello stomaco. Potevamo farne a mano, ma almeno
scaldava dentro. Ci chiedono di andare in una camera a riposare. Non ha senso
stare lì fuori per ore. Lo facciamo. Siamo talmente stanchi che siamo come piccoli
soldatini nelle loro mani. Siamo bimbi ubbidienti e saliamo su, ci appoggiamo a
un letto o a un divano. Quando la luce si spegne, i nostri occhi vagano al
buio, la mente rimane sveglia, il fisico crolla.
Sono le otto, oramai.
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