8 febbraio 2011
Ore 11:00. Mi sveglio, di soprassalto. Un solo pensiero, te. Sento l’istinto di correre giù da te, ma so che non sarà possibile entrare e starti accanti. In fondo tra mezz’ora ci fanno entrare. Posso stare tranquilla ancora un po’ e cercare di recuperare le forze che mi serviranno dopo. A stare in piedi. A stare tranquilla, per poter tranquillizzare te.
Ore 11:10. L’infermiera entra in camera. Ci chiamano dalla Terapia Intensiva. Abbiamo paura di guardarci negli occhi e leggerci la reciproca la paura. Lo sguardo basso, il sorriso forzato da una parte all’altra quando salutiamo l’infermiera, il viaggio in ascensore. «Aspettate qui». «Voglio entrare, perché ci fate aspettare qui?» Vorrei urlare. Ma se c’è una cosa che mi hai insegnato è la dignità e la classe. Non si urla. Non si fanno scenate. Allora sto composta, vicino al muro. Vorrei crollare ma non posso, spinta tra la speranza e la paura. Infine lo so, o meglio me lo dicono, perché io non potevo saperlo, nonostante io inizi a collegare il risveglio di soprassalto alla tua morte. Non ce l’hai fatta. Il cuore non ha retto. Hanno tentato tutto ed io, quando me lo dicono, penso alla tua sofferenza. Anche questa hai dovuto sopportare. Ci lasciano in disparte. «La prepariamo e poi vi facciamo entrare».
Solo allora il dolore è esondato. Come un fiume in piena si è riversato dappertutto, ha allagato ogni anfratto del nostro corpo e della nostra anima, ci ha sommerso completamente mentre abbracciati cercavamo di sostenerci a vicenda per non crollare. L’uno con l’altro, l’uno per l’altro, ora che tu non c’eri più. Più. La parola che avevamo temuto era arrivata. Più. Non avremmo potuto più parlarti, non avremmo potuto più accarezzarti, non avremmo potuto più ascoltarti, non avremmo potuto più vederti, non avresti passato con noi le feste, non avresti più gioito e sofferto con noi. Tutti i sensi erano morti, con te. Tu dov’eri ora? Ci eri accanto, ci eri sopra? Non c’eri più, era la sola cosa che riuscivamo a ripeterci, chiusi in un abbraccio che ci separava dal resto del mondo.
Quando siamo entrati a vedere il tuo corpo è stato straziante. La pelle liscia e gialla, la bocca aperta, in una smorfia di dolore terribile. Eri il volto della morte dolorosa, che non scorderò più. Ho chiesto «Cosa ti hanno fatto?», ma tu non mi hai risposto. Forse eri lì e non potevi rispondermi. Ho cercato su di te i segni del dolore, volevo capire quanto avevi sofferto, volevo sperare che tu te ne fossi andata almeno con il minore dolore possibile. «Quando arriva a mancare l’ossigeno la percezione della realtà è falsata, non si prova nemmeno dolore». Potevo credere a tutto in quel momento, pur di tranquillizzarmi la coscienza. Iniziavo a chiedermi se avessi fatto il possibile. Iniziai a incolparmi di schiocche cose che avrei potuto fare. Se avessi ragionato lucidamente, forse mi sarei resa conto che non avrebbero fatto la differenza. Ciò che fa la differenza è che invece non ci sei più. Non potrò più chiamarti, venirti a trovare. Sento già la tua mancanza. Sento che il dolore mi soffoca. Mi siedo, mi accascio affianco a te, appoggio la teste al tuo corpo inerte, crollo esausta, perché tanto nulla di me potrà più darmi sollievo. Una carezza mi scuote, ma è solo un medico. Mi porge qualcosa da bere. Sento il sapore aspro in bocca. Non mi chiedo nemmeno cos’è. Deglutisco e torno dov’ero. Sul tuo corpo. L’ho apprezzato, davvero, ma questo non ha scalfito nemmeno un po’ la roccia che ora era intorno a me. Fuori tutti, voglio stare sola con lei. Lasciatemi stare qui, per sempre.
Mia sorella e mio padre vengono a prendermi. Devono prepararla. Adesso nonostante io fossi completamente assente e avessi voglia di rimanere sola con il mi dolore, capivo che dovevo andare avanti. Ci sono molte cose alle quali pensare. I parenti da avvisare. I funerali da organizzare. Scegliere la bara, i fiori, sentire il prete. Non volevo. Volevo solo stare accanto a quel corpo, ma non potevo. Sentivo una voce che ronzava nella testa dicendomi la vita va sempre avanti e anche io avrei dovuto andare avanti. Divenni un robot. Facemmo l’elenco delle cose, tra le lacrime e i singhiozzi ci dovevamo staccare da lei. «Ci vediamo dopo», ma oramai sapevo di dirlo ad un corpo vuoto, che non poteva né ascoltarmi né aspettarmi per davvero.
Ti hanno trasformata. Sei tornata tu. La smorfia d’orrore è stata mutata in un composto sorriso. Le mani sul petto stringono una croce. Tu l’hai portata quella croce, con dignità e compostezza, ma durante la vita. Senza lamentarti troppo. Non riesco a staccarmi da te. Non riesco ad allontanarmi. Ti guardo e ti accarezzo ancora. Non sei ancora troppo fredda. Ti bacio, sono gli ultimi che posso darti. Arrivano i parenti ed ogni volta è doloroso. Vedevo il mio dolore specchiarsi in quello degli altri. Intuivo che nel loro cuore c’era lo stesso mattone che opprimeva il nostro. Cercavo di sorridere. Ma non ci riuscivo, o semplicemente non volevo farlo. I messaggi e le telefonate mi riempivano il tempo. Non mi interessavano cosa dicessero. A volte in queste occasioni non si sa cosa dire. Ma sentivo la forza dell’affetto che mi portavano. Gesti e parole non sono che strumenti per trasmetteei tutto il calore di cui hai bisogno. E lo apprezzavo. Mi stringevo intorno alle persone che amo e quello bastava. Mi rendevo conto che loro sono l’unica cosa che conta davvero e che poteva sollevarmi dal pensiero che all’improvviso tu non c’eri più.
Nemmeno l’unica cosa che ci avevi lasciato poteva rimanere con noi. Il tuo corpo è stato avvolto tra rose e foglie di ciliegio.
Addio mamma. O forse arrivederci.
Dopo l’8 febbraio 2011
All’inizio non riuscivo a non piangere quando ti pensavo, eppure so che avresti voluto solo sorrisi. Così, per non dare fastidio. Però con il tempo il pianto ha lascia spazio ai sorrisi. Non del tutto però. A volte mi coglie inaspettato, quando sto cucinando e penso di chiamarti per un consiglio. Quando vedo la tua fotografia. Quando è stato il tuo compleanno. Quando ricordo, come oggi, che un anno fa festeggiavamo il cinquantesimo anno di matrimonio ed abbiamo fatto una bella festa. Nasce un pensiero e poi esplode nel dolore che il tempo non mitiga. Giorno dopo giorno continuo ad andare avanti, sbircio una foto, perché non ho più altro. Cerco il sorriso che c’era e non c’è più e cerco di sorridere io anche per te, perché è questo che vorresti, non il mio pianto. Allora mi sforzo, soffio il naso e cerco di sorriderti.
Guardo il cielo e sorrido, so che da qualche parte tu sei.
Se non altrove, sei almeno dentro di me.
Dedicato a mia madre
Per aspera sic itur ad astra (L.A.Seneca)
Nessun commento:
Posta un commento