“Le forme della natura”, scrive Djerzinski, “son forme umane. E’ nel nostro cervello che si formano i triangoli, gli orditi e le ramature. Noi li riconosciamo, li apprezziamo; ci viviamo in mezzo. In mezzo alle nostre creazioni, creazioni umane, comunicabili all’uomo, noi ci sviluppiamo e moriamo. In mezzo allo spazio, allo spazio umano, noi creiamo misure; tramite tali misure noi creiamo lo spazio, lo spazio tra i nostri strumenti.
“L’uomo poco istruito,” prosegue Djerzinski, “ è terrorizzato dall’idea dello spazio; egli se lo figura immenso, notturno e vorace. Egli immagina gli esseri sotto la forma elementare di una sfera, isolata nello spazio, raggomitolata nello spazio, schiacciata dall’eterna presenza delle tre dimensioni. Terrorizzati dall’idea dello spazio, gli esseri umani si raggomitolano; hanno freddo, hanno paura. Nel migliore dei casi essi attraversano lo spazio, essi si salutano con tristezza in mezzo allo spazio. Eppure tale spazio è in loro stessi, non si tratta d’altro che della loro stessa creazione mentale.
“In questo spazio di cui hanno paura”, scrive ancora Djerzinski, “gli esseri umani imparano a vivere e a morire; in mezzo al loro spazio mentale si creano la separazione, la lontananza e la sofferenza. Su questo c’è ben poco da dire: l’amante sente il richiamo dell’amato, lo sente al di là di oceani e di montagne; al di là di oceani e di montagne, la madre sente il richiamo del figlio. L’amore avvince, avvince per sempre. La pratica del bene avvince, la pratica del male estrania. La separazione è l’altro nome del male; è altresì l’altro nome della menzogna. Infatti esiste solo un ordito, magnifico, immenso e reciproco.”
Il mio commento
Non sarei mai arrivata a questo autore e a questo testo, se non mi fosse stato consigliato. Ma alla fine delle trecentosedici pagine, sono stata contenta di aver seguito il consiglio di Tiziano Bellemo, fidato lettore e amico, che pubblicamente ringrazio!
Se dovessi definirlo con una sola parola, l’aggettivo che sceglierei per questo libro è stridente. Padrone del gioco di alternanza tra la vita di Michel e quella di Bruno è, di fatti, lo stridente contrasto tra i due, perpetrato non solo attraverso il racconto degli episodi della vita dei due personaggi e la presentazione delle loro riflessioni ed emozioni più intime, ma anche attraverso un sapiente uso del linguaggio.
Michel Djerzinski è “uno scienziato dedito alla biologia molecolare e vicino al Nobel. Un uomo che ha dedicato la sua esistenza agli studi scientifici che lo hanno portato all'isolamento e all'impermeabilità a qualunque emozione. Il suo sogno è riuscire a clonare gli esseri umani così da poter garantire a essi una vita perfetta.” [1] I racconti sulla vita di Michel sono “zuppi” di termini scientifici e filosofici, a volte (lo ammetto) al limite del comprensibile.
Bruno Clément “è un insegnante, attirato dal sesso in modo morboso, costretto dalla malattia a entrare e uscire dalle cliniche psichiatriche.”[1]. Il racconto della sua vita, preso in sé e fuori dal contesto, rischiava di essere buono solo come materiale pornografico.
La presenza di uno solo dei due personaggi avrebbe reso il racconto illeggibile, troppo noioso o troppo lascivo, ed è proprio dal contrasto che emerge tra i due fratelli, che il racconto trae un carattere unico nel suo genere, trasportando il lettore ben oltre la noiosità del mero testo scientifico o la lascivia del materiale puramente pornografico.
Ma il romanzo va oltre quei singoli caratteri, cercando di ricomporre quel contrasto che sembra, a prima vista, solo segnato dall’esperienza comune della madre che li ha abbandonati da piccoli nelle mani dei nonni (paterni per Michel, materni per Bruno), per rincorrere una vita drammatica ai bordi del movimento hippy e delle esperienze estreme di sesso e droga.
Quello che in realtà emerge è la loro comune, incolmabile e profonda solitudine che li porta nel tempo alla certezza dell’impossibilità di essere felici. E’ splendido scoprire che due passaggi, separati da molte pagine, rappresentanti singolarmente il pensiero di Michel e quello di Bruno, possano essere riuniti in un’unica citazione sulla sofferenza:
[Michel] Di per sé il desiderio – contrariamente al piacere – è fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. E, questo, tutti i filosofi – non solo i buddisti, non solo i cristiani, ma tutti i filosofi degni di questo nome – l’hanno capito e insegnato. La soluzione degli utopisti – da Platone a Huxley, passando per Fourier – consiste nell’annientare il desiderio, e le sofferenze connesse, organizzandone l’immediata soddisfazione. [Bruno] Si cerca sempre di minimizzare la sofferenza. Fintanto che la sofferenza della confessione sembra meno forte, si parla; poi si tace, si rinuncia, si rimane soli.
Assolutamente splendida la ricostruzione dell’epoca relativa agli anni 1960-’70, e di una generazione che voleva rivoluzionare il mondo. Pagine intere sono dedicate al pensiero sul matrimonio (dal “matrimonio di convenienza” al “matrimonio d’amore”), al flirt adolescenziale, al modo piuttosto disinibito delle ragazze di vivere l’amore (“In un primo tempo la ragazza stava con numerosi ragazzi. In un secondo tempo la ragazza sentiva il bisogno di una storia seria”), ed in generale al comportamento sessuale, alla contraccezione, alla speranza del grande amore (“non era impossibile: non bisognava illudersi, non succedeva quasi mai; eppure, in certi casi, estremamente rari – quasi miracolosi – ma pur sempre indiscutibilmente comprovati – poteva succedere. Ed era la cosa più bella che potesse mai capitare al mondo.”), alla libertà, al rapporto padre-figlio.
La fine del romanzo è sorprendente, fuori da ogni logica, e per questo non ne parlo qui e la lascerò da scoprire a chi ha voglia di leggere pagine che sono davvero fuori dall’ordinario.
Michel
Michel trovò la chimica molto più appassionante della meccanica o dell’elettricità; più misteriosa e più varia. Le sostanze riposavano nei rispettivi contenitori, diverse per colore, forma e consistenza, come essenze impenetrabili. Eppure bastava avvicinarle l’una all’altra ed eccole reagire con violenza, dando vita in un baleno a composti radicalmente nuovi.
[...] Si sentiva separato dal mondo da qualche centimetro di vuoto che formava intorno a lui un guscio o un’armatura.
[...] Di per sé il desiderio – contrariamente al piacere – è fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. E, questo, tutti i filosofi – non solo i buddisti, non solo i cristiani, ma tutti i filosofi degni di questo nome – l’hanno capito e insegnato. La soluzione degli utopisti – da Platone a Huxley, passando per Fourier – consiste nell’annientare il desiderio, e le sofferenze connesse, organizzandone l’immediata soddisfazione.
[...] Lui provava compassione per lei, per le immense riserve d’amore che sentiva fremere in lei, e che la vita aveva dissipato; provava compassione – e forse era l’unico sentimento umano che ancora riuscisse a toccarlo. Per il resto, una riserva glaciale aveva invaso il suo corpo; davvero, non poteva più amare.
Bruno
Bruno è appoggiato al lavandino. Si è tolto la giacca del pigiama. I rotoli della sua pancetta biancastra gravano sulla porcellana del lavandino. Ha undici anni. Vorrebbe lavarsi i denti come ogni sera; spera che le sue abluzioni si svolgeranno senza incidenti. Invece ecco avvicinarsi Wilmart, dapprima solo, e spingerlo alle spalle. Bruno si volta e indietreggia, tremando di paura; intuisce ciò che lo attende. “Lasciami...” dice piano.
[...] La brutalità e la dominazione, comuni nelle società animali, già presso gli scimpanzé (Pan troglodytes) si accompagnano ad atti di crudeltà gratuita compiuti contro l’animale più debole. Questa tendenza raggiunge il proprio culmine nelle società umane primitive e nelle società create tra i bambini e i preadolescenti. Più tardi appare la pietà, o l’identificazione della sofferenza altrui; essa viene rapidamente codificata in forma di legge morale.
[...] Aveva capito subito che quell’universo rallentato, segnato dalla vergogna, dove gli esseri si incrociano in un vuoto siderale senza che mai sembri possibile tra loro alcun rapporto, corrispondeva esattamente al suo universo mentale. L’universo era lento e freddo. C’era tuttavia una cosa calda, che le donne avevano tra le gambe; ma quella cosa gli era inaccessibile.
[...] Si cerca sempre di minimizzare la sofferenza. Fintanto che la sofferenza della confessione sembra meno forte, si parla; poi si tace, si rinuncia, si rimane soli.
Sussistono, in una certa misura, famiglie
(scintille di fede in mezzo agli atei,
scintille di amore in fondo alla nausea),
non si sa come
queste scintille brillano.
Schiavi nel lavoro di organizzazioni incomprensibili,
la nostra unica possibilità di realizzarci e vivere è il sesso
(ma si tratta soltanto di coloro cui il sesso è permesso,
di coloro per cui il sesso è possibile.)
Il matrimonio e la fedeltà oggi ci precludono ogni possibilità di esistere,
non è in un ufficio o in un’aula di scuola, che ritroveremo in noi quella forza che esige gioco, luce e danze;
così cerchiamo di raggiungere il nostro destino tramite amori sempre più ardui
cerchiamo utenti per un corpo sempre più sfinito, riottoso, ostile
e scompariamo
nell’ombra di tristezza
fino al disperare vero,
discendiamo lungo il sentiero solitario sino al luogo dove tutto è nero,
senza figli nè mogli,
entriamo nel lago
quand’è notte piena
(e l’acqua, sul nostro vecchio corpo, è freddissima)
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