La gente si chiedeva sempre chi fosse, quando lo incontrava
per strada. Non era buffo, sembrava solo un po’ folle: si fermava sotto i
lampioni, e passava ore ad ammirare l’alone della luce intorno al vetro
offuscato. Rimaneva fermo, con il naso all’insù, quasi guardasse le stelle. Ed
invece, ad un occhio attento non sfuggiva il fatto che il suo sguardo si
fermava prima, ancora sulla terra, ad ammirare il frutto del suo lavoro.
Vendeva lampioni, ma lui, da tempo, credeva solo nell’essenza
del suo mestiere. Diceva che non era il lampione in sé che vendeva, ma la luce.
E con il tempo era andato oltre quell’idea, alla radice del problema che quella
luce risolveva. E così, a chi gli chiedeva che mestiere facesse, lui rispondeva
orgoglioso: “Io illumino il buio”.
Già qualcun altro prima di lui lo aveva fatto. Ma dai tempi
del catechismo aveva abbandonato quella fede, che gli era rimasta soltanto nel
rispetto dell’asserire che non era stato il “primo” ad aver illuminato il buio.
Per il resto, gli piaceva pensare che si fossero suddivisi i compiti: uno in
cielo e l’altro in terra.
Spesso al bar, davanti ad un buon bicchiere di vino, decantava
le lodi del suo mestiere: “Cosa è la terra senza luce?”. Nel suo piccolo, sconfiggendo
il buio delle notti, lui apportava un rimedio essenziale al fallimento di quel
dio, che non era riuscito ad illuminare il mondo di luce naturale per
ventiquattr’ore al giorno. “Il buio lo amano soltanto i criminali e gli amanti.”
diceva a chi aveva voglia di ascoltarlo. “Dal buio scaturiscono soltanto il
sangue e le sporche passioni, nel buio nascono i tradimenti, nel buio crescono
le disperazioni, il pianto e la solitudine. Nel buio non ci sono i sogni. Il
buio finisce la vita.”
Lui, invece, vendeva l’intangibile, l’estensione di un
sogno. Il buio è morte. La luce è vita. Tutto ciò che vive ha bisogno di luce.
E lui sentiva di regalare attimi di vita, lì dove il buio invece chiudeva le
palpebre su ogni possibilità. Lui regalava la certezza contro l’indefinito. Più
banalmente, quando la gente gli chiedeva un esempio, lui parlava della
sicurezza nelle strade, della capacità di vedere gli occhi degli altri,
dell’opportunità di osservare, leggere, scrivere, conoscere ed imparare il
mondo. Soprattutto, sapeva di riuscire a cancellare la tristezza e regalare l’allegria.
“Non c’è notte tanto grande da non
permettere al sole di risorgere il giorno dopo” diceva Jim Morrison, e lui
credeva di essere quel sole, che con i suoi raggi spezzava la devastazione di
occhi che si aggirano ciechi in stanze apparentemente vuote di materia.
Qualcuno insinuava che lo facesse perché aveva paura del buio.
Qualcuno sosteneva che gli piacesse avere tutto sotto controllo. Qualcuno
malignava che sfruttasse le paure ancestrali della gente per guadagnare soldi.
Lui, impassibile, si lasciava scivolare addosso quelle illazioni, perché a lui
piaceva quel sogno. Gli piaceva trascendere l’aspetto economico che diventava
solo un dettaglio, una piccola firma in fondo ad una pagina, un’inezia che gli
consentiva di vivere. “Fiat lux”,
ripeteva dentro di sé ogni volta che gli firmavano i contratti, e lui gioiva
non tanto per l’accordo economico raggiunto, quanto perché in questo modo
vedeva estendersi il confine della sua luce. Un pezzo in più di buio sconfitto.
Qualcun altro lo sfidava. Gli raccontava della bellezza
della notte, della capacità che la notte aveva di mettere in luce ciò che
siamo, ma che non abbiamo il coraggio di essere di giorno. E gli decantava
l’emozione di sfiorare le anime senza vederne i corpi, lasciando andare la
fantasia oltre la realtà. Lo accusava di non pensare che senza il buio, non
puoi apprezzare la luce. “Le stelle brillano nel buio” gli dicevano. Qualcuno gli
ricordava che il buio è la condizione ideale per riposare l’anima, o per
estrarla dallo scrigno nel quale si racchiude di giorno. E lui ascoltava
tranquillo, per poi rispondere con coraggio a quelle sfide, guardando il suo interlocutore
dritto negli occhi: “La mia luce, quando vuoi, puoi spegnerla.”.
Così, giorno dopo giorno, continuava a vendere un po’ di
quella luce e, di notte, se ne andava in giro con la scusa di controllare tutti
i suoi lampioni. Sembrava quasi non dormire mai, come quell’altro dio, e
rimaneva incantato a guardare quelle minuscole particelle, quei corpuscoli che
si libravano nel buio, dal cielo alla terra, vincendo la nebbia e la pioggia,
fendendo il nero di piombo dell’anima e cancellando gli incubi di chi di notte
era sveglio. Qualcuno una volta lo aveva definito perfino il “guardiano dei
sogni”. Ma lui, i sogni, sentiva di fabbricarli.
Si fermava spesso al bordo della notte, per offrire il suo
inchino rispettoso alla luce nascente. Non si dava pace di fronte a quel
variare di colori che attraversava le sfumature della lavanda e dell’arancia, mentre
si dipingeva in cielo l’aurora, e cede poi il passo al giallo oro dell’alba,
finchè la piena luce del giorno non sconfigge le stelle. Il suo sogno pretenzioso
era quello di replicare nella sua luce quello stesso momento lento di trionfo
sulla notte. Si sarebbe sentito molto più simile a quel dio, che con il suo
dito tracciava ogni giorno la traiettoria del sole intorno alla terra.
Light On
by ahermin
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Una notte camminava ai margini di una strada. Era oramai
l’alba. Era lì da un po’, solo, guardando tutti quei lampioni accesi con lo
stesso orgoglio con il quale ciascun padre è solito osservare il proprio figlio.
I grossi pali di ghisa si stagliavano nella luce aranciata
del nuovo giorno, di fronte alla quale scompariva quella nascente dai bollenti
ovali di vetro. Sembravano tante candele nere accese, poggiate su un mantello
di velluto nero steso dalla notte, che si ripiegavano su se stesse,
sciogliendosi sotto il calore magico del nuovo giorno. Il cemento delle case si
alzava qui e là e alcune luci trapassavano i vetri mostrando che la vita, da
qualche parte, stava di nuovo ricominciando. Implacabilmente. Metà del cielo
era ancora nero. L’altra metà iniziava velocemente a muoversi dall’arancio al
verde ed al celeste. Presto, molto presto, il sole avrebbe accecato chiunque
avesse avuto l’ardire di guardarlo negli occhi.
Vide un uomo che avanzava verso di lui, la testa rivolta all’asfalto
spaccato dal freddo, le spalle curve sotto un peso sfibrante. I suoi occhi
guardavano i suoi passi, l’uno disperatamente messo in fila all’altro, con una
precisione ricercata appositamente per concentrare i suoi pensieri su qualcosa
che non provocasse la minima emozione, che non sfiorasse l’anima dolorante. Si
presentava un uomo sconfitto, senza più risorse, che camminava in quella luce
gialla, che addosso a lui sembrava quella di un tramonto.
L’uomo della luce si fermò a guardarlo, aspettandolo sotto un
lampione. Non aveva parole per lui, e forse non potevano essercene, nemmeno a
cercarle. Il suo incedere chiedeva di ascoltare il suo dolore in rispettoso
silenzio.
Fu l’uomo a fermarsi. Alzò piano lo sguardo, seguendo il
profilo di un lampione stagliato contro la metà buia del cielo, e girando
intorno alla lampada quasi a voler cercare lì la soluzione dei suoi pensieri.
Poi tornando con gli occhi verso terra, incontrò quelli dell’uomo che
illuminava il buio.
«E’ lei
vero, l’uomo che illumina il buio? L’ho cercata tutta la notte.» Poi senza
aspettare risposta, continuò. «L’ho
sentita parlare ieri sera. Ero in un bar con mio figlio. Lei ha citato una
frase che ci ha colpito molto. Diceva qualcosa del genere: “A tutti è dovuto il
mattino, ad alcuni la notte. A solo pochi eletti la luce dell’aurora”».
«Può darsi. E’ una frase di
Emily Dickinson.»
«Sì, ecco… quella frase… Lei
spiegava di essere convinto che gli uomini fossero tutti uguali, e che aveva il
sogno di sconfiggere la notte per tutti gli uomini.»
«E’ quello che ho detto.»
«Io sono qui per questo. Lei
ne è convinto?»
«Cosa l’ha spinta a venire da
me, signore?»
«Mio figlio. Lui… lui era lì con
me ieri, gliel’ho detto. Ed ha sentito anche lui il suo discorso. E quando
siamo andati a casa… beh, lui mi ha chiesto di sedermi. Ed io mi sono seduto. Mi
ha preso la mano ed ha chiuso gli occhi. E mi ha chiesto se io davvero credevo
a quello che lei aveva detto al bar, se io davvero credevo che tutti gli uomini
avessero diritto a vedere la luce.»
«E’ qualcosa con la quale
facilmente si è d’accordo. Non crede?»
«Beh, vede signore, mio
figlio è cieco. Cieco fin dalla nascita e non ha mai visto la luce. Lui… lui
non sa cosa è. Capisce? Mio figlio mi stava chiedendo perché lui non ne aveva
diritto. Ed io, beh, io non sapevo cosa rispondergli. Ed è duro, come padre,
accettare di non saper rispondere alle domande del proprio figlio. Ne va di
mezzo del proprio orgoglio, se poi non vogliamo aggiungere il fatto che avrei
preferito essere cieco io, piuttosto che sapere che lui deve rinunciare a
vedere il mondo. E allora ho pensato che, forse, lei una risposta ce l’aveva.
Ho pensato che lei mi deve una risposta, se davvero crede nella luce che vende.»
«Non sono un medico, signore. Mi spiace. Quello che io posso
vendere non è quello di cui ha bisogno di suo figlio in questo momento. Non
credo di poterla aiutare.»
L’uomo che illuminava il buio si staccò dal padre e riprese
la sua strada. Si sentiva sconfitto. Un misero
bambino era riuscito all’improvviso e in un solo istante a fare crollare
tutto ciò in cui per anni lui aveva creduto. La sua impotenza si trasformò in
rabbia e fece ciò che prima di quel momento non avrebbe mai osato fare:
raccolse una pietra da terra e la scagliò contro una lampada, imponendo il buio.
Per molti giorni l’uomo che illuminava il buio restò chiuso
in casa. Sedeva sulla sua poltrona vicino alla finestra, lasciando che il
giorno si alternasse alla notte, senza aver minimamente voglia di alterare
quell’equilibrio che l’altro dio aveva imposto al mondo. Non accendeva nemmeno
una candela. Chiudeva gli occhi quando il buio soffiava via le luci e restava
seduto, solo con i suoi pensieri, concentrati su quell’unica sensazione di
impotenza che aveva provato, arrovellandosi il cervello sull’idea che doveva
esserci un modo per rispondere a quella domanda. Perché era convinto che un
modo ci dovesse essere.
Dopo alcuni giorni, la sua stessa luce lo illuminò. E capì
che per trovare una risposta a quella domanda, non doveva fare altro che
camminare allo stesso passo di quel bambino. Così si bendò gli occhi e iniziò a
vivere senza la luce esteriore, attraversando i confini delle sole percezioni
visive, cercando la luce con gli altri sensi: le parole per descriverla, le
sensazioni per toccarla, i suoni per udirla e il gusto per assaggiarla. Passò
giorni interi a provare il buio nel quale era immerso quel bambino, per capire
come illuminarlo. Immagazzinò parole, suoni, sensazioni tattili e sapori.
Finché una sera non fu certo di poterlo fare.
Quella notte non dormì. Camminó tutto il tempo su quella stessa
strada dove aveva incontrato il padre del bambino, guardando ogni lampione e
pensando che stavolta aveva un'occasione unica in tasca: quella di superare i
limiti del dio che aveva creato la luce, tralasciando di accenderla negli occhi
di un bambino.
Quando l'alba colorò d'arancio la notte, vide l'uomo che
camminava con addosso la sua disperazione. Aveva le spalle più curve e il volto
con molte righe in più. L'uomo che illuminava il buio pensó che fossero state
scavate dal pianto. Quando furono l'uno di fronte all'altro, il padre alzò lo
sguardo e gli penetrò gli occhi. Poi parlò.
«Non c'è
notte da quando ti ho incontrato, che io non sia venuto qui a cercarti ancora.
Io non ho ancora una risposta, ma ogni sera, prima di addormentarsi, mio figlio
mi pone la stessa domanda. Io non so cosa dirgli. Mia moglie prega, ha fede
lei. Io non riesco a pregare un dio che ha tolto a mio figlio una delle libertà
più belle.»
«Portami da
tuo figlio.» Rispose l'uomo che illuminava il buio.
L'altro lo guardò e nei suoi occhi
le lacrime brillarono di gioia.
Il bambino era seduto nella sua camera. Al buio, ma questo
lui non poteva saperlo. Il padre accese la luce, ma l'uomo che illuminava il
buio gli chiese di spegnerla, perché non ne aveva bisogno nemmeno lui.
E si sedette di fronte a quel piccolo essere che aspettava
solo una risposta ad una domanda, una piccola domanda, che nascondeva una
ingiustizia profonda. E lui, che credeva alla giustizia della luce, gli prese
le mani e le strinse fra le sue. E inizió a raccontargli come era fatta la
luce, con una favola.
E gli regalò una corposità che lui potesse toccare,
e gusto che potesse sciogliersi nella sua bocca,
e suoni affinchè potesse ascoltarla
e parole perché potesse capirla.
E alla fine, solo alla fine, abbandonò le sue mani, si
staccó da lui e accese la luce. Vide quei piccoli occhi che si muovevano
intorno come se vedesse, la sua bocca che ingiottiva la luce, le mani che
toccavano l'impalpabile, e si muovevano al ritmo dell'inascoltabile.
L'uomo che
illuminava il buio gli chiese:
«Adesso vedi
la luce?»
Ed il bambino
rispose:
«Sono cieco.
Non la posso vedere. Ma ora io so cos'è e grazie a te riesco ad immaginarla.»
L'uomo che illuminava il buio rimase deluso. Non aveva mai
creduto di poter fallire. Era convinto di essere riuscito a trovare il modo di
illuminarlo quel buio. Così non disse nulla. Spense la luce, richiuse piano la
porta e se ne andò.
Si
apprestava a scendere le scale per andar via, quando una vocina lo raggiunse:
«Per favore,
torna. Perchè hai spento la luce. Ho paura di rimanere al buio.»
Tornó indietro. Aprì la porta e
riaccese la luce.
E vide i suoi occhi, gli occhi di quel bambino, nel quale
brillava l'unica luce che aveva davvero vinto il buio.
Walk in the
light
by Floriandra
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