Il momento
perfetto. Quello in cui la notte riempie di silenzio le case e spegne le calde luci
dei camini. I figli riposano nei loro letti ed il respiro pesante rimanda ad un
mondo di sogni nel quale stanno correndo felici. Siedo ad un tavolo, di fronte
all’ultimo bicchiere di Baileys, una sigaretta che fuma veleno. Nel buio si
accende l’immagine di un uomo e di una donna, seduti su una panchina in un
antico chiostro, che chiacchierano amabilmente e sorridono. Ancora una volta.
Non me lo aspetti, ma all’improvviso quel breve istante di vita che volevo
ignorare mi sfiora la mente e l’idea si sviluppa intorno a quel fotogramma di
esistenza, che nelle mani in volo su una tastiera, diventa un racconto. Adoro
scrivere...
Avresti detto che Ethan fosse un gentiluomo d'altri tempi
anche se fosse stato fermo sul marciapiede, vestito di stracci.
Lo intuivi dai lineamenti regolari e gentili del suo viso,
dal modo in cui sfiorava delicatamente con lo sguardo il mondo intorno a lui,
quasi avesse paura di sciuparlo con gli occhi. Lo percepivi dal sorriso appena
accennato, dalla risata mai sguaiata, dal modo controllato che aveva di
gesticolare quando parlava, dall'eleganza con cui, quando sedeva, portava una
gamba sull'altra. Ti rassicurava la piega perfetta dei pantaloni, la nitidezza
delle scarpe, la camicia bianca senza pieghe. I tuoi sospetti si scioglievano
per quel gesto incurante con il quale si liberava la fronte dai capelli con le
sue dita lunghe ed affusolate, dalle unghie bianche e perfettamente curate.
Erano soprattutto le sue parole che te lo confermavano. Il
linguaggio forbito che usava, il filo lineare dei suoi pensieri, mai uno fuori
posto, ciascuno propriamente espresso con parole scelte, naturalmente assortite
e inusuali, quasi provenissero da libri antichi, con le pagine ingiallite dal
tempo, i bordi smangiati, che profumano di eterna bellezza.
Aveva quarant'anni e viveva nel sud della Gran Bretagna, nel
Kent, precisamente. Si aggirava nella vita con il suo stile unico che
affascinava chi aveva l'occasione di conoscerlo. La sua famiglia era stata molto
più ricca un tempo, ma aveva sbagliato qualche investimento e le fortune si
erano ridotte. Non abbastanza da farli cadere in miseria, ma sufficienti a
garantire a Ethan di vivere in una tenuta circondata da molti ettari di
terreno, e stalle con cavalli di razza. Era un amministratore competente e
saggio. Nessuno gli aveva mai contestato ciò che faceva, perchè le sue
decisioni erano sempre ben arroccate su motivazioni solide e ragionamenti
impeccabili. Gli uomini lo stimavano per questo. Le donne lo circondavano
perchè oltre ad essere ricco ed elegante, era anche maledettamente bello.
Era stato sposato un tempo. Era convolato a nozze con una
lontana cugina. Non erano innamorati: semplicemente i loro genitori avevano
combinato il loro matrimonio ed entrambi erano troppo riconoscenti per poterli
contraddire. Non era durato a lungo. Una terribile malattia si era portata via
Cécile e Ethan aveva così potuto godere delle fortune di entrambe le famiglie,
senza dover sopportare di vivere con una donna, che non avrebbe mai imparato ad
amare.
Era spesso in giro per affari. Viaggiava molto per tutta
l’Inghilterra e questo gli concedeva un po’ di respiro, esonerandolo dalla
partecipazione alle feste alle quali era inevitabilmente invitato. Era
fondamentalmente schivo. Non amava trascorrere il tempo in salotti illuminati
da luci di cristallo, nei quali risuonavano risate di gente il cui sorriso era
solo un terribile vizio di forma. Ogni tanto vi era costretto e la sua pena era
enorme. In quei casi, si aggirava sperduto tra i saloni, scappando dalle
signore che bramavano la sua presenza e dai gentiluomini che gli chiedevano
sempre consigli su chi puntare alle prossime corse dei cavalli.
Quando poteva, giocava a polo. Anche questo era nel suo
stile. Impettito sul suo cavallo nero come la pece, stretto in una divisa da
fantino impeccabile, adorava correre sui prati verdi inglesi, soprattutto
quando la pioggia li aveva coperti di minuscole gocce ed il suo profumo acre e
pungente si spandeva nell’aria e penetrava le narici.
Ethan era così, di giorno. Tranquillo. Perfino scontato nei
pensieri e nei modi. Sempre perfetto. Un mare al quale mancavano perfino le
piccole increspature d’onda che la brezza trascina sempre dietro di sé.
In realtà Ethan si sentiva perfetto al pari di un’anima
dannata. Quando la notte era così buia che nemmeno le stelle riuscivano a
brillare, gli capitava di svegliarsi in preda ad un incubo.
Era una donna. Sempre la stessa, che lo ossessionava. Il suo
viso gli appariva d’improvviso e lo
svegliava. E in quel mare perfetto della sua vita, onde gigantesche si
profilavano all’orizzonte, sollevate da potenti soffi di vento, per poi
schiantarsi e sommergerlo nella loro schiuma. Quegli occhi di un giallo intenso
come il sole, bordati del verde del mare, lo guardavano nel buio e la bocca
rossa e carnosa si stagliava nella notte, suscitando in lui il desiderio di
baciarla e possederla.
Allora si alzava e si rinchiudeva nel suo studio. Era capace
di restare per ore immobile, devastato, davanti a una tela grezza, alla ricerca
di quel particolare che non aveva mai trovato e che gli impediva di regalare
un’anima a quel viso. Gli era capitato spesso, in passato, di dipingere visi di
sconosciuti che aveva incrociato di giorno, anche solo per un attimo: di solito
non smetteva di lavorare finchè non riusciva a riportare le loro anime sulla
tela, ed era sempre stato facile per lui, quasi un gioco.
Con lei questo non capitava. Sapeva che il segreto era nei
suoi occhi, ma non riusciva a catturarlo. Ogni volta gli sembrava di essere
vicino, ma quando credeva di averlo incastrato davanti a lui, quando era certo
di averlo inchiodato lì sulla tela, e si allontanava per guardarla da lontano,
solo allora si rendeva conto di aver solo mescolato del fango e pasticciato con
i colori. E la squartava, con tagli netti di rabbia. Per poi rifugiarsi nella
bottiglia di whisky fino a svenire.
Ogni notte era così. Quella strana sensazione di essere
guardato mentre dormiva. Quella presenza che gli respirava fiato nelle
orecchie. Quelle labbra rosse e carnose che sembravano essere vicinissime alle
sue, ma mai lo sfioravano. E quando apriva gli occhi, quei fanali luminosi
apparivano piano nel buio, come una lampadina che si accende piano, con luce
soffusa e poi arriva ad accecarti al punto che devi distogliere lo sguardo. Era
così quel viso. Incorniciato da lunghi capelli neri. Gli occhi contornati da
folte sopracciglia e dipinti dalle lunghe ciglia. Due iridi contornati di verde
e, al centro, un carico di tristezza che lo inquietava. Silenziosa rimaneva lì
di fronte a lui, con le labbra che tremavano, ma non accennavano mai a parlare.
Perchè comunque le sue parole non passavano dalla gola, ma attraverso il suo
sguardo.
Se solo gli avesse dato un indizio, lui l’avrebbe cercata.
Se solo gli avesse parlato e gli avesse detto cosa voleva da lui, lui l’avrebbe
accontentata. Rimaneva immobile, e lui come una statua davanti a lei. Fino a
che la luce non le rubava i colori e lei diventava qualcosa di evanescente, che
per un po’ rimaneva nell’aria come se fosse un profumo, ma un profumo non era.
La mattina, gli occhi impastati di sonno e il cuore che rintoccava
rabbia in ciascun battito, indossava ancora con i vestiti la sua impassibilità
e ritornava al mondo, ogni volta più sconfitto di prima. E questo la gente non
lo capiva. Dicevano che era solo un gentiluomo. Se avessero saputo che i suoi
modi derivavano dalla stanchezza di quelle notti e dal riposo dalla sua rabbia,
nessuno lo avrebbe più né cercato né rimpianto. Ne avrebbero solo avuto pietà e
compassione.
Una notte, una notte sola fu diverso.
Quando Ethan aprì gli occhi, lei non c’era. Non c’erano i
suoi occhi, né le sue labbra palpitanti, né la sua tristezza. C’erano solo il
vuoto ed il silenzio. Anche nel cuore di Ethan taceva la rabbia, soffocata
dalla paura, quando cominciò a chiedersi dove fosse lei. Strappò le lenzuola
che lo avvolgevano e si aggirò al buio in casa, muovendosi seguendo solo i
raggi di luna che trapassavano il legno delle persiane, disegnando in terra il
sentiero del suo cammino. Stanza dopo stanza cercava la sua presenza, finchè
non capì che l’unico posto dove poteva essere era lì, nel suo studio, e corse
ad aprire la porta. La trovò in piedi, vicino alla finestra, con gli stessi
occhi stanchi ed il sorriso smorzato dalla malinconia. Le disse solo «Resta
lì.» e lei non si mosse, per tutta la notte.
Lui non la guardava, ma spruzzava i colori sulla tela. Era
la sua presenza di fronte a lui che lo ispirava. Non aveva bisogno di fissare
il suo sguardo su di lei per ricordarne i lineamenti. Erano scolpiti nella sua
mente come la sua stessa vita. Quello che era differente rispetto a tutte le
altre volte consisteva nel fatto che adesso lei era lì. E non era questione di
averla a portata di mano, perchè sapeva che se avesse provato a sfiorarla, lei
si sarebbe dissolta. Non si può toccare un desiderio. E il fatto che lei fosse
lì, voleva dire che era disposta a concedere a lui quello che gli era mancato
tutte le altre volte: lui poteva prendere ciò che c’era dietro quegli occhi e
quello sguardo. E non intendeva perderlo. Ad ogni costo. Pur sapendo che quel
momento non ci sarebbe più stato in seguito. Pur nella coscienza che, dopo di
allora, lei sarebbe andata via. Per sempre.
Mischiava i colori con la sapienza di chi li ha creati, e ne
conosce le sfumature e li tratteggia, li affina, li ripassa, uno sull’altro,
fino a intingere in essi ogni goccia di sentimento che aveva dentro, fino a
renderli specchio di quel mistero di fronte al quale si trovava.
Era come se qualcosa fluisse da lei, entrando in lui per
possederlo e stravolgerlo, come melma nera, attraverso i suoi occhi, prendendo
poi colore sulla tela attraverso le sue mani. In quel mentre, sentiva le tempie
pulsare, il volto contorcersi dal dolore ed una sensazione di angoscia che lo
devastava.
Quando ebbe finito, e si allontanò dalla tela con l’incertezza
di aver fallito ancora una volta, i suoi occhi si illuminarono, e continuarono
a viaggiare a lungo tra la tela e lei, sempre ferma vicino alla finestra. Era
riuscito a strapparle quell’emozione che le trafiggeva lo sguardo. E lei
finalmente sorrideva.
Il maggiordomo lo trovò morto la mattina dopo, quando varcò
la soglia dello studio per aprire le finestre e fare entrare l'aria fresca in
quella stanza che, di solito, odorava della disperazione di notti infruttuose.
Quella mattina, quella stanza odorava di morte.
Ethan era riverso di fronte ad un ritratto. Il ritratto di
una misteriosa donna.
Bellissima e terribilmente viva.
Lui aveva uno strano sorriso sul volto, raccontò il
maggiordomo. Il sorriso di uomo che ha appena incastrato l'ultimo pezzo nel puzzle
della vita di un altro.
Proprio così disse.
E forse, era stato proprio così.
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