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1 apr 2013

Il sorriso imperfetto - Capitolo 31

«Garrett era identico a me sotto un certo punto di vista. Amava annusare la vita e quando si stancava di un odore, ne cercava altri di cui soddisfarsi. Si era semplicemente stancato di me, del mio odore, tutto qui. Non gliene faccio una colpa. Gli rimprovero soltanto di non avermi parlato delle sue sensazioni quando sono nate, perché quelle sensazioni le senti chiare, non hai dubbi. E lui non ne ha avuto il coraggio. Ho dovuto scoprirlo io. Non poteva ferirmi lui, non se lo sarebbe perdonato: ha lasciato che facessi da sola, ha lasciato da un lato che io continuassi a credere che lui potesse ritornare a me, e dall’altro che intuissi e gli chiedessi conto del suo comportamento incoerente, fino al punto in cui non ha più potuto negare il suo sporco gioco. È questa distonia che ci ha allontanato, il suo assumere comportamenti innaturali rispetto a quello che io credevo, il suo discostarsi lentamente da me. Io riuscivo a percepirla, lui l’ha sempre negata, fino a un certo punto.
Lui amava le donne e non ne aveva una sola. Ne aveva avute sempre molte. Aveva la ex moglie, che curava la sua normalità, il suo bisogno di avere una famiglia intorno. Aveva il suo antico amore, al quale dedicava le poesie, le parole scelte, l'illusione del sogno. Aveva molte amiche online, e io non gli ho mai perdonato, questo sì, di avere con loro la stessa intimità che aveva con me all'inizio. Io lo percepivo e ne ero gelosa. Non pensavo mi tradisse, ma mi addolorava profondamente vedere quello scambio di messaggi, talvolta superficiale, talvolta profondo. Con me aveva smesso di essere profondo. A me rimaneva solo il sesso. Soddisfacevo il suo bisogno di sentirsi accettato anche fisicamente, di entrare in me e sentirmi sua, possedermi e sapere che io ero lì, quando mi chiamava. Io gli davo un assaggio dello stesso sentimento che il suo antico amore poteva dargli, senza chiedergli di pagarlo ad alto prezzo; e dall’altra parte gli passavo sesso che per lui sarebbe stato troppo umiliante cercare altrove, servito sul piatto d’argento della donna innamorata e talmente stupida da mettere da parte il proprio orgoglio per lui.


Per me questo ruolo è diventato umiliante, non appena è stato spogliato del poco sentimento che almeno all’inizio c’era, non appena è stato privato di quella intimitá unica che si crea tra due persone. Diceva di volermi bene, ma mi chiedevo che razza di bene fosse questo. Mi parlava della sua famiglia, del suo lavoro, ma non dei suoi pensieri. Quelli erano riservati alle gallinelle del suo pollaio che sentiva in chat di notte, nel chiuso della sua stanza. Io non ero oramai che un corpo da scopare. E quando capitava che parlasse d’amore con me, il soggetto era sempre un’altra, mai io.
Trovarmi davanti quella donna, la sera che ero andata da lui per dirglielo, sperando che mi prendesse tra le braccia e mi dicesse che mi sbagliavo, è stato umiliante. Non so se fosse lì per far sesso, e adesso non mi interessa più. E’ un’oca come tante e per quanto le tiri il collo, un’oca non diventerà mai cigno... Quello che mi ha ferito era tutto il contorno: era vedere che lì con lui c'era un'altra al posto che io volevo occupare, era vedere l'imbarazzo che tradisce la scoperta di qualcosa che voleva tenermi nascosto, forse perché sapeva come la pensassi e sapeva mi avrebbe fatto male. Era il vederlo in gabbia, lui, animale e predatore abituato ad essere libero. Era scoprire la sua vigliaccheria nel nascondere fino alla fine le sue bugie. Mi ha sconvolto. Mi ha messo di fronte all'evidenza della meschinità alla quale io stessa ero arrivata, al punto di accettare di diventare la sua geisha. Voleva che restassi, che accettassi la sua storia con un’altra e rimanessimo amici, forse per fargli da appiglio se fosse fallita, forse perchè se me ne fossi andata si sarebbe sentito vigliacco e colpevole. Sapevo benissimo che non rischiava di sentirsi così, lui che si è sempre cullato delle balle che si raccontava, per convincersi di avere la coscienza pulita e sentirsi un eroe.
Tesoro mio, è stata una profonda ferita al mio orgoglio.
Il resto, lo sai: ho chiuso tutto. Sono partita. Sono andata via, non per scappare da lui, ma per schivare l'ordinarietà e riuscire a sentirmi ancora una volta straordinaria, per me. C’è ancora qualcosa che non ricordo... L’ultima immagine che ho è il suo viso arrabbiato, con dietro il riflesso nello specchio del ghigno patetico sullo sguardo di lei, una donna sfatta dalla vita, sola, superficiale e gretta, oca tra tante. E’ per lei che mi stava lasciando? Che se la tenesse pure quel rottame umano travestito da signora per bene...
Scesi le scale di corsa, arrancando per il respiro rotto fra le lacrime, giurando a me stessa che non sarei più stata umiliata così nella mia vita. Aprii il portone. Pioveva a dirotto. Sembrava la scena di un film. L’acqua scrosciava e non tentai neppure di ripararmi andando verso la macchina. Aprii lo sportello con le mani che tremavano, girai la chiave e accesi il motore. Ero bagnata fradicia, le gocce che scendevano dai capelli si mischiavano alle lacrime. I tergicristalli riuscivano a stento a pulirmi il vetro dall’acqua di fuori, ma quella che appannava i miei occhi continuava ad annebbiarmi la vista. Staccai la frizione e partii. Dopo di che il mio ricordo successivo è quello di un fantasma di me stessa, seduta su un marciapiede, ubriaca fradicia, sotto la pioggia, con i fari delle macchine che illuminavano il mio viso perso nel dolore. Credo sia quello il momento in cui ho deciso di partire.»
 «Mamma, cosa è il “sorriso imperfetto”?»

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