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1 apr 2013

Il sorriso imperfetto - Capitolo 30

 
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(deviantart.com)
«Uomini. Esistono quelli “giusti”, quelli che sanno prenderti e portarti su in cielo con un dito, e, una volta lassù, sanno circondarti di attenzioni da toglierti il fiato. Li ho anche incontrati, ma li ho persi, perchè me ne sono stancata, non li ho saputi trattenere a me, avvolta dall’aspirazione verso una passione che mi poteva sconvolgere, che mi esaltava e mi annebbiava la vista, togliendomi il respiro. E abbandonata la strada giusta che mi avrebbe salvata, mi sono dannata, brancata da una specie che è tutt’altro che rara, quella parte della metà dell’umanità che ha saputo ingannarmi nel profondo. Buffi folletti che mi ronzavano intorno raccontandomi bugie, implorando di creder che loro – no! - non erano come tutti gli altri: loro erano “diversi”. Deve esistere qualcosa nel loro cervello bacato, un elemento chimico magico e unico che consente loro di riuscire a scindere l’amore dal sesso. L’amore me lo hanno negato, il sesso lo hanno cercato ed io sono stata perfino contenta di essere la loro preda. Si sono appostati ad una giusta distanza e hanno studiato le mie mosse. Nel tempo hanno imparato che era opportuno farmi credere che di me, per quanto il mio corpo li affascinasse, e non potevano negarlo, importava anche il mio cervello ed il mio cuore. E su questo hanno costruito strategie di attacco, passando il tempo a parlare con me, per testimoniarmi che non mentivano. Nella loro menzogna, qualcuno si è finto poeta, qualcuno guerriero, qualcuno pittore, qualcuno musicante. Hanno adottato l’arte come trasfigurazione del loro unico intento. Mi hanno avvisato che nella loro nobile natura si annidava un feroce predatore: lupi, leoni, falchi, giaguari. Mi hanno invitato a non sfidarli in quella loro natura crudele, pur implorandomi di non averne paura, perchè per loro io ero diversa e non volevano farmi del male. Si sono dichiarati amici, e nella loro falsità hanno persino dichiarato di volermi bene. Guerrieri a difesa della mia persona, hanno saputo con discrezione denigrare tutti coloro che non mi avevano valorizzata e capita. Ma non erano né poeti, né guerrieri, né pittori, né musicanti: la loro arte era solo la magia ed il filtro magico che hanno saputo sapientemente adottare, ha vinto le mie difese e alla fine mi hanno incantata. Mi cercavano per chiacchierare, nascondendo bene dietro le parole le loro più basse intenzioni. Si sentivano potenti, esclusi dalla cerchia di coloro che mi aveva fatto soffrire. Si sono erti a giudici della mia vita, unici scopritori del mio vero essere, per il solo bisogno di sentirsi unici nel loro genere, straordinari. E devo dare loro atto che ci hanno saputo fare, perchè alla fine mi hanno fatto sentire speciale.

Ciascuno di noi ha un indefinito bisogno di sentirsi speciale. Quando ero concentrata solo su me stessa, era normale sentirmi straordinaria: ero fiera delle particolarità che mi rendevano unica ai miei stessi occhi. Quando ho volto il mio sguardo al di fuori di me e ho iniziato a vedere gli altri, solo allora ho capito che non ero straordinaria, che ero solo una tra tanti e questo mi ha stravolto e mi ha fatto sentire banale. E’ allora che il mio istinto mi ha portato naturalmente verso coloro che mi guardavano con occhi appena diversi dagli altri, perchè non mi basta più sentirmi speciale per me stessa. Sentivo il bisogno di essere speciale per qualcuno, e di dimostrargli che avevo dentro un tesoro immenso da regalargli, un carico di emozioni che poteva fare scoppiare l’universo, contraccambiando così il desiderio che lui stesso aveva di sentirsi speciale. Due malati di onnipotenza, uno davanti all’altro. Si riconoscono, vedono l’uno nell’altro la possibilità di rispondere ai bisogno elementari. Io mio desiderio elementare era quello di sentirmi viva, credendo di amare. Loro lo hanno annusato come fiere questo, e lo hanno saputo sfruttare, mentendo a volte perfino a se stessi, pur di raggiungere il loro scopo. Hanno sempre negato che io potessi essere per loro solo un passatempo interessante, in attesa che nella loro vita arrivasse (o tornasse) qualcun altro. Altri, più subdoli, lo hanno semplicemente ammesso, dicendomi apertamente di non aver bisogno di me, sbandierando la loro sincerità: era solo una delle loro strategie, quelle da adottare quando la preda non ha la capacità di scindere tra amore e sesso, e non arriva nemmeno a concepire che sia possibile. Hanno saputo travestirsi adottando il vestito della incoerenza, finchè razionalmente sono arrivata a negare che potesse essere possibile non provare qualcosa per qualcuno che cerchi, e ho costruito lo stesso il mio castello sulla sabbia, ritenendoli uguali a me. E su quella incoerenza hanno sapientemente giocato, fiutando sempre quando stavo per andare via, e ricomparendo magicamente: perdere la bambolina con la quale avevano giocato, senza averne un’altra a disposizione, sarebbe stato il loro fallimento. E così ho continuato a credere che in fondo tutto quel tempo che spendevano con me aveva senso solo se per loro non fossi stata solo sesso, corpo o carne da macello. Non me ne rendevo conto, e loro hanno continuato a giocare, ingannandomi con le parole, dicendo che mi volevano bene e non potevano perdermi – anche se non mi amavano –, che ero una persona per loro speciale – anche se non potevano darti di più-. E’ deludente. E’ banale. E’ perverso. E’ nauseante. E’ egoistico. E’ bastardo.
Quando ho cominciato a farmi domande, è stato sempre troppo tardi: avevo oramai già da un pezzo preso la zappa e iniziato a scavare la mia fossa, a volte ero già dentro, per metà, invischiata in un amore nel quale mi ero imposta di non entrare. Devo dare atto che sono sempre stati bravi, che hanno mantenuto con freddezza e lucidità il percorso per raggiungere il loro vile scopo: hanno saputo aspettare, attendendo per mesi che abbassassi le difese, e decidessi di aprire la porta che avevo tenuto chiusa con il mio corpo, quello stesso che alla fine avevo deciso di offrire loro insieme a tutto il resto che già avevo dato loro: l’anima ed il cuore.
Come ogni gioco, alla fine si sono stancati e si sono rivolti ad altre prede. Un’altra bambolina da rincorrere, più interessante finchè anch’essa non cede. L’attimo in cui si sono stancati è sempre coinciso con il momento in cui ho rotto quel confine nello spazio che loro non volevano oltrepassassi, quello del richiedere loro un impegno più serio e ho iniziato a tempestarli delle mie emozioni, delle mie parole, di sentimenti che loro non intendevano accettare, perchè non era nel loro piano: loro hanno sempre voluto il mio corpo e se non lo avevo compreso e mi ero illusa, era soltanto un problema mio. Non potevo nemmeno imputare loro qualche colpa, perchè spesso erano stati sinceri, mi avevano avvisato. Non sono uomini capaci di prendersi le proprie responsabilità. Si svestono delle pellicce di lupi e leoni e si tolgono le ali di falco. E nella loro nudità, si mostrano quali sono, “quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre...”[1] Li ho sorpresi a rincorrere la prima oca che passava, e mi sono asciugata la fronte dal sudore, ringraziando il cielo di averla scampata.
Tutto il dolore di questo mondo mi è servito solo a credere che io non sono disposta ad accettare nei miei confronti lo stesso ardore che questi uomini mostrano verso il loro cane, che non sono disposta a scondinzolare per rafforzare il loro orgoglio di sentirsi uomini. Hanno sempre negato di avermi trattato come una puttana, perchè ritengono di avere accompagnato quell’aggrovigliarsi dei corpi con qualche sentimento di affetto, ma la banalità di quelle scuse ha solo aggravato quella sensazione di aver venduto la mia anima ed il mio cuore insieme al mio corpo, e mi ha fatto sentire ogni volta più stupida, per non essere riuscita a comprendere in tempo di quale razza di animale fosse la persona che avevo di fronte. Non mi hanno mai mentito in una cosa: non erano uomini, erano bestie, predatori della peggior specie, incapaci di elevare il loro stato animale al rango di “uomini”, che si sanno negare il piacere del sesso, quando non è accompagnato da un sentimento più elevato.
Così alla fine non ci credo più. Rido davanti a chi per l’ennesima volta si spaccia diverso dagli altri, rido davanti a chi mi parla volendo farmi sentire speciale. Non ci credo più, non voglio crederci più. Mi sono rinchiusa per l’ultima volta dentro la settima porta del cuore, rantolando ancora, oramai senza nemmeno più la speranza che qualcuno mi raccolga sul sentiero. Chi poteva salvarmi è già passato: ho avuto la mia occasione, perduta nello stesso istante in cui il mio matrimonio è fallito, per quella mia assurda pretesa di voler cercare l’amore assoluto.
Forse mi sono sbagliata, forse l’amore non è quello che dura lo spazio di una passione. Ma se anche fosse così, io non sono mai stata pronta per quel salto rappresentato dall’amore infinito, al quale so di aspirare, quello che fa morire quando l’altro non c’è, quello che vive dei gesti di ogni giorno, che si alimenta al quotidiano guardarsi e scambiarsi la vita, che si innaffia dei sorrisi e delle piccole dolcezze. A quell’amore basta poco per crescere, e invece io ho ancora bisogno assurdamente di superare ogni giorno il limite stesso delle mie emozioni, di credere di poter così raggiungere l’infinito ogni istante. Non sono ancora pronta, devo ancora crescere, devo riuscire ad amare me stessa almeno un po’ per superare quello che credo amore, ma è solo passione. Ed è giusto che ora io soffra, perchè questa sofferenza e questo dolore mi aiuteranno. In qualche modo mi aiuteranno: perchè o mi faranno crescere per diventare degna di quel mondo superiore di uomini che davvero sanno cosa vuol dire amare, o impazzirò e, nella mia pazzia, forse un giorno riuscirò a vedere la verità.»






[1] Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta.

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