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17 mag 2013

L'ombra di Cyrano




Lex era steso a terra, al buio. Gli occhi chiusi vagavano nei suoni che il suo orecchio riusciva a percepire. Mormorio del pubblico. Il pubblico in attesa, come appena prima che si apra il sipario e si presenti la scena, vuota. Il pubblico trepidante, come appena prima che il protagonista entri in scena e confermi con la sua presenza che lo spettacolo ci sarà e nemmeno un centesimo del biglietto andrà sprecato. Il pubblico sconosciuto, quello che devi conquistare con i gesti, con le parole, con il tuo sguardo mentre erra sulla scena o mentre si deposita su un viso sconosciuto, seduto in platea, che sorride o piange o trema insieme a te, per te.
Lex era steso a terra, immobile. Ma quella scena non era parte dello spettacolo.
Era un imprevisto. Nessuno aveva scritto quel copione per lui: stava recitando una parte che non si era preparato e che qualcun altro aveva deciso di portare in scena per lui. Non che la cosa lo infastidisse: era un attore che sapeva improvvisare, quando necessario. Pronto alla battuta, pronto a risollevare qualsiasi situazione disperata: una battuta dimenticata, un pezzo della scenografia che crollava, il pubblico che lo apostrofava con disprezzo o ilarità esagerata. Perché era nel suo carattere: vivere con allegria, perché la vita sa sempre offrirti qualcosa di triste e doloroso e allora tanto valeva prenderla in giro sorridendo.

Provò ad analizzare il suo corpo e le sue sensazioni, mentre il mormorio del pubblico iniziava a trasformarsi da stupito a infastidito. Riusciva a udire commenti irritati sulla durata esagerata di quella scena in cui non succedeva nulla e sul buio che non lasciava intravvedere nemmeno un briciolo del palco.
Qualcosa gli doleva profondamente. Qualche parte del corpo vicino al cuore e si prese in giro dicendosi che forse si era soltanto innamorato. Lui che nella vita aveva incontrato soltanto  donne sbagliate avrebbe dovuto essere abituato a quel dolore sottile che si incunea piano ed inaspettato come una neve a primavera. Eppure era un dolore più superficiale e si sentiva il cuore umido, anche se stavolta non sembravano lacrime, ma sangue vivo che gli inzuppava la camicia bianca che aveva cercato con cura una settimana prima del suo spettacolo.
Lo spettacolo. Non riusciva a rendersi conto se stesse andando avanti o se fosse fermo. Non vedeva luci, i rumori si stavano attutendo. Il pubblico forse stava andando via? E la sua compagnia dov’era? Perché nessuno era attorno a lui? Provò ad aprire gli occhi, ma non ci riuscì. Ci provò ancora, ma si fermò quando sentì il suo corpo fluire al di fuori del tempo e dello spazio, ed innalzarsi alto verso il cielo. Solo allora le luci si accesero, forti, e vide dall’alto il suo teatro ed il pubblico in piedi che applaudiva. Il palcoscenico era pieno di gente, il suo corpo era riverso a terra, affianco a un pugnale che lui stesso aveva avuto l’ardire di togliersi dal cuore. C’era molta gente intorno al suo corpo. Rise di una risata altezzosa e sprezzante e si udì dire: “Tutto inutile, miei cari...”, ma non era la sua voce, era solo il suo pensiero.
Gli piaceva quella sensazione di poter volare. Si sentiva un folletto dispettoso in quel momento, ben lontano dallo stato in cui, pensava, si dovrebbe sentire un morto. Sbatté le mani del suo corpo immaginario per vedere se riusciva a volare e scoprì che bastava il solo pensiero per muovere il suo... ectoplasma? Cominciò così a volteggiare in alto sul teatro, passando da un palco all’altro, guardando con soddisfazione nelle scollature profonde delle signore, scivolando affianco ai loro vestiti per sentirne il profumo, muovendo dispettosamente i farfallini dei signori in smoking, scompigliando i capelli alle bambine tutte acconciate da piccole donnine e muovendo il sipario avanti e indietro come se piccole folate di vento lo spostassero.
Poi si accostò al suo corpo. Una donna gli stava tamponando la ferita, mentre altri erano intorno al suo corpo. Qualcuno stava cercando di rianimarlo: riconobbe i gesti del protocollo che un tempo conosceva bene. Di sicuro aveva esaminato la zona: “nessun pericolo, oramai il coltello è affondato nel mio petto e secondo la statistica un altro omicidio sarebbe stato alquanto improbabile”. Poi aveva controllato la coscienza, scuotendolo leggermente: “sì, sono incosciente, e non mi scuotere troppo altrimenti quella non riesce a tamponarmi la ferita... procedi pure con il prossimo passo”. L’improvvisato soccorritore aveva quindi esteso il capo e controllato il respiro, guardando il movimento del torace di Lex, ascoltando il respiro o un fievole soffio di aria sulla guancia posta appena sopra il suo naso: “sì, non respiro, e ti va bene che non sono più padrone del mio corpo, altrimenti ti avrei startunito apposta in faccia”. Quindi l’uomo si era affiancato all’altezza del torace di Lex, in ginocchio, gli aveva sbottonato la camicia, aveva portato le spalle all’altezza del torace, teso le braccia ed intrecciato le mani, appoggiandole sopra lo sterno all’altezza del petto. Quindi aveva iniziato a premere sul torace, contando ad alta voce. Uno, due, tre, quattro. Cento compressioni circa al minuto. “Attento a non farmi male. Continua finché non arrivano i soccorsi. Io volo un attimo via, ti prego... salvami. Non voglio morire”.
Lasciò il suo corpo nelle mani di quell’uomo e volò appena più in là.
La vide dietro il sipario scuro, con la testa bionda che faceva capolino dalla tenda di velluto. Quanto era bella, Margot. I suoi capelli biondi e mossi le scendevano sul viso ovale, dalla pelle abbronzata. I suoi occhi verdi brillavano al buio. Si avvicinò  al suo viso, con quella che doveva essere la sua bocca di fantasma. Sfiorò appena le labbra che la donna si stava mordendo, mentre piccole gocce salate le scendevano solcando le sue guance arrossate. Stava soffrendo davvero per lui? La baciò e volò via gustandosi la scena delle mani di Margot che si portavano istintivamente sulle labbra, come se avesse percepito il suo bacio.
L’uomo lo stava ancora rianimando. Sembrava preparato, quindi non si preoccupò più di tanto e volò appena giù dal palcoscenico, verso la prima fila dove Elga era seduta, immobile. Le si sedette accanto e la guardò. Anche lei era bella, di una bellezza quasi stregata, con i suoi capelli neri, foltissimi e riccissimi, le labbra rosse e carnose e gli occhi di un blu picchiettati qui e là di streganti punti di  viola. “Sei stata tu?” le chiese Lex, come se lei potesse udirlo.  Seguì il suo sguardo, fermo e immobile sul corpo disteso a terra. Guardò le sue mani, strette tra le sue ginocchia. Guardò il suo petto generoso, che respirava quasi ansimando.  Poi tornò su in alto e si appoggiò su una trave di legno lucida e profumata. Lì stese il suo spirito e immaginò di chiudere gli occhi, cercando di tornare indietro con la memoria.
Quello spettacolo avrebbe dovuto segnare il suo trionfo. Dopo anni passati ad inseguire le compagnie come tecnico delle luci, tecnico dei suoni, comparsa, aiuto-regia, aiuto-sceneggiatore, costumista e altro, aveva deciso di costruirsi da solo lo spettacolo dei suoi sogni. Vi aveva lavorato per un anno intero: aveva letto molti testi per trarne ispirazione, aveva ascoltato musica per scegliere l’accompagnamento, aveva studiato gli attori di molte compagnie per il casting. Aveva scritto il testo, lo aveva imparato a memoria, lo aveva sceneggiato da solo, facendo tutte le parti, scegliendo i gesti che avrebbero accompagnato le parole, studiando la mimica facciale che avrebbe condito ogni emozione. Aveva girato per mercatini acquistando ogni particolare della scenografia e disegnato i costumi. Quando era stato certo che ogni particolare fosse definito al meglio, solo allora aveva iniziato a contattare alcuni attori: tutte le comparse, tranne le due protagoniste. Il suo cuore le aveva già scelte.
Margot era entrata per caso nella sua vita. Un pomeriggio piovoso di maggio che era andato a prendere Emma all’asilo, si era imbattuto in lei e la sua vita non era stata più la stessa. Si erano scontrati vicino all’armadietto delle bimbe, imbranati con gli zaini pieni di giochi. “Scusa” “No, scusami tu...” “Non ti ho mai visto...” “Sì, di solito viene mia moglie... la mia ex moglie...” “Ah, mi spiace” “E per cosa?” “Ciao mi chiamo Lex” “Lex?” “Dura Lex, sed Lex. Mi avevano affibbiato questo soprannome quando ero all’Università. Giurisprudenza. Mi chiamo Alessandro, Alex, Lex” “Io Margot”. E si erano stretti la mano. E il suo cuore aveva recepito una lunga vibrazione.
Da allora si erano visti spesso per un caffé, sempre all’uscita di scuola, quando Lex andava a prendere Emma. Facevano giocare le bambine nel parco antistante l’asilo e poi si fermavano per un gelato. Era così che avevano scoperto la passione comune per il teatro. Lex lo faceva da sempre, dai tempi della scuola, poi all’università. Gruppi sciolti di ragazzi che adoravano stare sul palco a fingere di essere chi nella realtà non potevano. Eppure lì, sopra quelle travi di legno marcio dei teatri di oratori di provincia, potevano sognare di essere chiunque, di poter arrivare ovunque, perfino a Broadway.  Appena scendevano dal palco, tornavano ad essere i disperati di sempre, con i loro sogni chiusi a chiave nel cassetto, tarpati da genitori troppo desiderosi di un lavoro “perbene” e “sicuro”, chiuso tra quattro mura di uno studio di avvocati o commercialisti o dietro le porte di sicurezza di una banca. Lex aveva tenuto duro. Aveva accontentato i suoi, ma non aveva rinunciato a nulla dei suoi sogni. E quasi tutti i pomeriggi, ora in una compagnia, ora in un’altra, a volte due nello stesso pomeriggio, saliva su quei palchi per sognare. Margot no. Aveva dovuto rinunciare ben presto alla sua passione. Aveva studiato medicina e non aveva tempo per nulla che non fosse prima lo studio e poi la famiglia. Quattro figli, uno dopo l’altro, le occupavano tutto il tempo della sua giornata, perfino quello che la sera andrebbe occupato con i sogni ad occhi aperti.
La proposta nacque per caso. Un pomeriggio piovoso quanto il primo che li aveva fatti incontrare. Erano davanti ad una tazza di cioccolata calda e fumante, le bambine che giocavano affianco a loro, seduti a un tavolino stretto occupato da fogli e matite colorate. “Sto scrivendo uno spettacolo tutto mio. Ho bisogno di due attrici. Vuoi?”. Margot era rimasta allibita per quella proposta. Non se l’aspettava e l’istinto la portava a rifiutare quella proposta così fuori dal suo regime di vita fatto di studi medici, parchi giochi e fornelli. Ma la sua bocca aveva parlato prima ancora che il cervello le imponesse una scelta razionale. “Si, va bene”. Lui le aveva dato la parte da studiare e lei si era impegnata al massimo, studiando di notte, perché si sentiva troppo in colpa per farlo di giorno, sottraendo tempo alla famiglia e ai suoi pazienti. Sapeva che quelle sensazioni che provava quando stava con Lex erano inconfessabili, e quella storia della parte nello spettacolo era solo un modo come un altro per giustificare la sua voglia di vederlo, di stare con lui, guardarlo negli occhi. Aveva ripreso a sognare, celando dietro il sipario di uno spettacolo tutta la voglia che aveva di riprendersi la sua vita. Anche a Lex Margot piaceva molto, ma da quando si era separato aveva dedicato tutto il suo tempo libero al teatro e a Emma, preferendo evitare perfino storie occasionali di una notte, che avrebbero potuto complicarsi in un battito di ciglia, con pensieri fraintesi, gesti mal compresi, speranze costruite sulla sabbia.
Lex conosceva Elga da molto tempo. Avevano frequentato, per periodi più o meno lunghi, le stesse compagnie, ritrovandosi ogni tanto l’uno di fronte all’altra, sul palcoscenico, per interpretare ruoli tra i più diversi: amici, fratelli, amanti, mariti e mogli, genitori e figli. Avevano giocato con le loro identità al punto che oramai tra loro non c’erano più segreti: ciascuno sapeva cosa avrebbe potuto aspettarsi dall’altro nei momenti di gioia e di dolore, di rabbia e di tranquillità. Conoscevano l’uno dell’altro ogni smorfia che il viso poteva assumere, ogni gesto umano e ogni vibrazione della voce. Nella realtà si frequentavano poco, eccettuato le serate insieme al ristorante dopo gli spettacoli o i pomeriggi di prove, quando, presi dalla stanchezza, si tuffavano sulle poltrone della platea con un bicchiere di birra fresco, sfuggendo ai riflettori, e si confidavano le loro incertezze e paure sullo spettacolo o si commentavano i rispettivi personaggi. I loro racconti erano sempre al limite delle loro vite private, solo perché Lex voleva così: mai mischiare “lavoro” e vita privata. Era rigido su questa regola e il teatro per lui aveva la dignità di un “lavoro”: non retribuito, ma da svolgere con la serietà e la professionalità che gli erano dovuti. Elga sarebbe andata oltre. Lex lo aveva intuito più di una volta: in un bacio che trasmetteva più di quanto aveva previsto il copione, nel trattenersi di una mano  nell’altra, con le dita che afferravano la sua mano più di quanto sarebbe stato necessario, negli sguardi fuori scena, che si soffermavano su di lui anche quando l’attenzione avrebbe dovuto concentrarsi al centro del palcoscenico.
Non che Elga non gli piacesse. Era una bella donna. Dolce e sensuale. Sapeva di lei che era sposata ed aveva un figlio. Sapeva che le cose in famiglia non andavano troppo bene e Elga era stata molto vicina alla separazione più di una volta. Eppure con lei non era scattato nulla. Per lui era solo una bella amicizia, da portare avanti nei limiti esclusivi di quello che consentiva loro di avere un buon feeling sul palcoscenico, nelle loro rispettive parti. Pur sapendo che rischiava parecchio a portare Elga nel suo spettacolo, per il tempo che avrebbero passato insieme fuori dal palco, Lex l’aveva voluta. Non poteva fare a meno della sua arte, del suo modo di rappresentare i sentimenti in modo così vivo e coinvolgente da lasciare il pubblico esterrefatto, incerto se stesse recitando o parlando per sé. La sua recitazione era una magìa rara, un’arte naturale che le muoveva dal cuore e per il suo spettacolo voleva solo il meglio. L’unica problema che aveva con Elga era che lei si era innamorata di lui. Aveva giocato un po’ a nascondino con lei, fingendosi ignaro di quei sentimenti, finché lei aveva parlato chiaro con lui. Era la serata dopo una prima importante e avevano deciso con la compagnia di andare a bere qualcosa dopo lo spettacolo. Erano rimasti nel locale quando tutti oramai erano andati via e lei aveva bevuto parecchio. Non si aspettava che si dichiarasse. Non si aspettava facesse nulla di inconsueto perché era comunque una serata come tante, e lei era solita bere parecchio dopo gli spettacoli. Quella sera, tuttavia, forse per l’atmosfera un po’ calda che c’era nel locale, forse per quei bicchieri in più rispetto al solito, forse per il caldo che faceva luccicare di sudore la sua pelle, rendendola più sensuale che mai, lui la stava guardando con un occhio un po’ diverso e lei, sensibile come pelle viva di una ferita, lo aveva percepito. Gli si era accostata e all’improvviso, mentre erano seduti uno affianco all’altro, a parlare delle loro prime esperienze amorose, lei si era voltata e lo aveva baciato. Le sue morbide labbra lo avevano avvolto e la sua lingua gli era penetrata in bocca di prepotenza, mentre la pelle lo sfiorava facendogli provare un brivido inatteso per quel caldo umido che aveva addosso. Non si erano detti nulla. Si erano alzati ed erano usciti dal locale. Erano entrati in macchina e lui aveva guidato fino a casa. Erano saliti nel suo appartamento e appena chiusa la porta di casa, lei gli aveva avvolto le braccia al collo, bloccandolo contro il muro ed appoggiandosi al suo corpo. Lo aveva baciato, con una foga che gli era sembrata troppo per un’esplosione improvvisa di ormoni. Gli aveva sbottonato la camicia, quasi facendone saltare i bottoni. Gli aveva slacciato la cintura e gli aveva tolto i pantaloni, le calze e le scarpe. Poi si era sfilata il vestitino sottile di seta e si era tolta l’intimo. Quindi aveva sfilato ciò che rimaneva del suo abbigliamento e lo aveva rispinto contro il muro, cercando il suo corpo con le mani, con i seni e con il suo ventre. Si era trovato senza volerlo dentro di lei, con lei che si muoveva con foga, sempre in silenzio, riempiendogli di baci il viso, le orecchie, il collo e le spalle. Aveva goduto prima di lui e aveva continuato a muoversi fino a che anche lui ebbe raggiunto l’orgasmo, un orgasmo violento e pieno, dopo il quale, esausto, si sedette sul pavimento. Lei aveva continuato a baciarlo insaziabile, lo aveva ripreso dentro di sé e si era posta a cavalcioni su di lui. Voleva dirle che non era innamorato, che non voleva che pensasse che quello fosse l’inizio di una storia, ma non gli sembrava mai il momento di fermarla, tanto era vogliosa di lui. Dopo che ebbero goduto una seconda volta, lui le aveva detto: “Ti riaccompagno a casa” e lei gli aveva detto che quella sera non aveva problemi. Avevano dormito insieme.
Il mattino dopo, al risveglio, aveva guardato a lungo il suo bellissimo corpo nudo steso affianco a lui. Gli sembrava un’estranea. Non l’amava. Non sarebbe mai riuscito ad amarla. Nonostante fosse bellissima, non aveva mai provato per lei ciò che era scattato in un secondo per Margot, all’asilo. Non le disse niente. Ma di quella serata non avevano parlato più, anche perché lui aveva fatto in modo che non restassero più da soli, nonostante i goffi tentativi di Elga di appartarsi o attardarsi più degli altri.
Lo spettacolo che Lex aveva deciso di mettere in scena era una versione riveduta e corretta del Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand. Convinto sostenitore dell’amicizia tra uomo e donna, in realtà aveva giocato con le parti. Margot avrebbe interpretato Rossana. Lui Cyrano e Elga una versione femminile di Cristiano. Elga avrebbe amato Rossana, un amore lesbico, in questo la novità della sua interpretazione.
Dopo aver conosciuto Margot, aveva deciso che le avrebbe dichiarato il suo amore sotto quel balcone. Sbagliando una parola, una sola parola rispetto al copione, che lei avrebbe intuito.
Il pubblico era silenzioso. Le luci concentrate su loro tre, fermi sul palco. Margot, bellissima e irraggiungibile, era ferma sul balcone. Lui era nascosto alla sua vista, dietro il sipario, nella parte del proscenio, visibile al pubblico. Elga era tra di loro, più spostata verso Lex, come era necessario secondo il copione, per attingere le parole d’amore del femminile Cristiano, dalle labbra di Cyrano.
Era stata una delle sue interpretazioni più belle. Lo aveva sentito nel silenzio immobile e assoluto che il pubblico aveva creato ascoltandolo. In quel momento per lui non esisteva che lei, come una madonna, una dea, ferma in un olimpo irraggiungibile, con il suo desiderio inestinguibile di salir su e possederne il cuore.

Cyrano: «Ma quante, quante, quante
me ne verranno al labbro; senza disporle in mazzo,
giterrovele in fascio. Ecco: io v'amo, son pazzo,
t'amo, soffoco, è troppo, non reggo più; siccome
dentro un sonaglio, sta nel mio cuore il tuo nome,
e poi che senza posa l'anima mia vacilla,
senza posa il sonaglio s'agita e il nome squilla.
Tutto io di te ricordo, ho di te tutto amato:
io so che un giorno, il diciassette maggio[1], l'anno passato,
tu mutasti la foggia dei capelli. E talmente
ho preso per mio sole la tua chioma lucente,
che, come quando al sole troppo si è fisso il ciglio,
si vede poi dovunque un gran disco vermiglio,
quand'io gli occhi distolgo dal sol di cui mi inondi,
dovunque m'abbacinano gli occhi barbagli biondi!»

Rossana (con voce turbata) «Codesto è bene amore...»

Cyrano « Oh, questo sentimento
che m'invade terribile, geloso, violento,
è certo amor: ne ha tutto, tutto il triste furore:
è amor, ma l'egoismo non ha, no dell'amore.
Per vederti felice io vorrei dare in vòto
la mia felicità, foss'anche il dono ignoto!
pur di udire talvolta squillar da lungi il fausto
riso del gaudio nato dal mio bell'olocausto!
Ogni tuo sguardo suscita una nuova virtù
in me, qualche valore nuovo. Cominci tu
finalmente a capire? Senti la derelitta
anima che sale nella tenebra fitta?
Ah, ma stasera è troppo dolce! Pure una volta
io le parlo d'amore: io le parlo, ella ascolta!
Troppo! Nella speranza anche meno modesta
io non aveva mai tanto sperato! non mi resta
che di morire adesso. I miei detti la fanno
tremar tra questi verdi rami: sì - non m'inganno! -
Perchè sì, voi tremate, tra le foglie qual foglia!
perchè tu tremi! ed io sento, che tu lo voglia
o no, della tua mano il tremito divino
lungo i rami discendere di questo gelsomino!»
(bacia follemente l'estremità di un ramo pendulo.)

Aveva visto gli occhi di Elga improvvisamente grandi e la bocca aprirsi in una smorfia di stupore. Subito dopo vide il suo volto trasformato dalla gelosia, e lo conosceva perché in altre occasioni quella parte l’aveva interpretata di fronte a lui con lo stesso smuoversi delle sopracciglia, incattivirsi degli occhi e stringersi delle mascelle. Aveva capito anche Elga ciò che lui provava per Margot, di questo Lex era certo, così come gli occhi improvvisamente più dolci ed il tremore più accentuato nella voce di Rossana gli avevano fatto comprendere che il suo errore voluto era stato catturato da Margot e le aveva smosso dentro un’emozione indicibile.
Lex aveva percepito la tensione nell’aria nei momenti successivi dello spettacolo. Aveva cercato di metter da parte le sue emozioni, convincendosi che avrebbe avuto dopo tutto il tempo di godersele. Margot si era sciolta nella sua parte di innamorata, mentre Elga si era irrigidita nella sua, nel tentativo di placare, con la sua grande professionalità ed esperienza, il tormento iniziato appena prima.
Aveva forse sperato qualcosa di più? Lex non pensava di aver mai detto nulla che potesse in qualche modo farle credere di poter rappresentare per lui più di quello che era stata: una notte di passione, spentasi con la luce del giorno dopo. Il suo cuore era per Margot, sebbene egli sapesse che non aveva nessuna opportunità, sebbene non avesse intenzione di chiederle di sconvolgere la sua vita per lui. L’amava? Quanto era difficile per lui rispondere. Nonostante le belle parole che Cyrano poteva suggerirgli, egli non avrebbe mai scimmiottato i suoi sentimenti con parole prese in prestito e le sue parole, quelle che si ripeteva costantemente nella sua testa quando Margot era vicino a lui, sapeva che non sarebbero mai state pronunciate.
Era stato al momento dell’imboscata a Cyrano che Elga lo aveva colpito.  Aveva sentito il suo corpo non semplicemente colpito da un puntello di plastica, ma la carne lacerarsi e il dolore interno fargli scoppiare il cervello. Tutte le parole erano cessate d’un sol colpo. Era scivolato verso il pavimento con l’ultimo barlume di ragione e padronanza del suo corpo che poteva ancora sprigionare e si era accasciato, nello stupore dei suoi commedianti e di quel pubblico che ben conosceva la storia e si aspettava che lui fuggisse da Rossana a manifestarle finalmente il suo amore.  Resasi conto di quanto era successo, la regia aveva fatto spegnere le luci in sala. Lex era rimasto al buio e in quel buio si era innalzato verso l’alto, dopo le prime sensazioni di essersi sperduto nella sua stessa mente.
Quando riaprì gli occhi, Lex era in un letto di ospedale. Non riusciva a muoversi, con i tubi che si intrecciavano dietro e sopra di lui, il rumore costante del suo cuore e del suo respiro che gli scandivano il tempo che passava, colori offuscati dietro la maschera dell’ossigeno che gli occupava in modo preponderante il campo visivo.
Dunque era sopravvissuto.
Si stava chiedendo dove fosse Margot, in quel momento, quando sentì qualcuno sfiorargli una mano. Capì che era lei. Ne era talmente certo che non ebbe nemmeno la necessità di provare a indovinare il suo profilo da dietro la maschera.
Quando la sua voce coprì quella del suo cuore nel monitor, Lex rimase immobile. Mentre Margot parlava, Lex cercava di muovere le mani, per intrecciare le sue dita a quelle morbide che si appoggiavano sulla sua pelle. Ci riuscì, con molto sforzo, facendole percepire che aveva sentito le sue parole. La bocca impastata si rifiutava di aprirsi. I muscoli del suo viso sembravano come anestetizzati. Fece forza su di sé per vincere quella resistenza. Voleva dirle qualcosa di più. Voleva farle sapere qualcosa di più, ma prima che riuscisse anche solo ad aprire uno spiraglio tra le labbra, Margot fu invitata ad uscire dalla terapia intensiva.
Nei giorni seguenti, Lex continuava a ripetersi quelle parole, scandendole una dopo l’altra, assaporandole come se avesse Margot davanti a sé e potesse vederle uscire direttamente dalle sue labbra: «Ognuno di noi ha la sua ferita: io ho la mia. Qui, sempre viva, quest'antica è qui, sotto la lettera ingiallita macchiata di pianto e di sangue. Lex, mio marito mi ha lasciato molti anni fa. Non te l’ho mai detto, scusami. Quante cose sono morte stasera... e quante ne sono nate! Ma perché, perché hai taciuto e perché spezzare proprio stasera questo sublime silenzio? Io sono stata la tua rovina, io! Io ti amo. Vivi! Vivi, Lex, vivi...»
Fu circa un mese dopo, che Lex fu finalmente spogliato dei tubi che lo avvolgevano e della maschera che gli nascondeva il mondo. Era assopito nel fresco della nuova camera dove lo avevano portato da qualche giorno, quando sentì la porta schiudersi e vide  un’ombra avvicinarsi al suo letto. La luce brillò sui suoi capelli e intravide il profilo francese di Margot. La vide sedersi, muta, al suo fianco, che aspettava il suo risveglio.
In quei minuti la mente di Lex ripercorse tutto il copione del Cyrano. Doveva trovare un modo per risponderle, che fosse in tono con ciò che lei gli aveva detto l’ultima volta e che le facesse capire che l’amava davvero. Fu quando lei si alzò per andarsene, senza disturbare oltre il suo sonno, che ad occhi chiusi Lex le parlò:
«Mi sta guardando... Mi pare proprio che mi guardi, che si permetta di fissarmi il naso - lei che sul teschio camuso non ha naso... Che dite? Che è inutile resisterle?... Lo so. Ma non si combatte solo per vincere. No, è assai più bello quando è inutile!... Vi vedo. Quanti siete? Mille? Vi riconosco, ci siete tutti... tutti i miei vecchi nemici! La Menzogna? Tieni! Prendi! Ah ah! Il Compromesso, il Pregiudizio, la Viltà... Volete che venga a patti? Mai!... Ah, eccoti anche te, la Stupidità!... Lo so che alla fine l'avrete vinta voi, ma non m'importa: io mi batto! mi batto! mi batto! Sì, m'avete preso tutto: l'alloro e la rosa. Prendete! Prendete!... Ma c'è qualcosa che porto con me, nonostante voi, qualcosa con cui stasera saluterò l'azzurra soglia del cielo nel presentarmi a Dio, qualcosa che non ha piega né macchia... qualcosa che...»
Margot, che stupita si era voltata verso di lui alle sue prime parole, si accostò allora al letto e si chinò a baciarlo sulle labbra. «Che cosa, mio Cyrano?»
«Io tocco i miei nemici col naso e con la spada,
ma in questa vita oggi non trovo più la strada.
Non voglio rassegnarmi ad essere cattivo,
tu sola puoi salvarmi, tu sola e te lo scrivo:
dev' esserci, lo sento, in terra o in cielo un posto
dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Non ridere, ti prego, di queste mie parole,
io sono solo un' ombra e tu, (...), il sole,
ma tu, lo so, non ridi, dolcissima signora
ed io non mi nascondo sotto la tua dimora
perchè oramai lo sento, non ho sofferto invano,
se mi ami come sono,
per sempre tuo, per sempre tuo, per sempre tuo...
Cirano!»

A volte l’amore esplode nella vita quando meno te lo aspetti. Non lo hai cercato, non lo hai voluto, forse hai anche cercato di evitarlo. Ma prima o poi arriva, nella più dolce delle forme o nel più crudele degli aspetti. Sei immobile, inerte di fronte a lui. Non puoi né ribellarti, né sfidarlo a duello. Non puoi farlo soccombere dimenticandolo o chiudendolo da qualche parte nel cuore. Lascia ferite, lascia ricordi, lascia dolci speranze, ma non ti lascia più fino a quando i tuoi occhi non si chiudono per sempre. E forse, quando è vero amore, nemmeno allora.



[1] Nell’originale  è “dodici maggio”


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