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1 giu 2013

Zorro (prefazione) - Margaret Mazzantini

 

Non ho scelto uno che guarda in terra. Ho scelto uno che avesse ancora voglia di guardare in faccia la gente. Un anatraccio curioso che risale il fiume e scruta i regolari, i “Cormorani”, quelli che stanno nel recinto della società organizzata. Straparla, dice la sua, buon senso e bestialità, ride di gusto e poi s’accascia. Ha un vecchio trauma stretto nel cuore come un trofeo, e un guinzaglio al posto della cravatta: è roba del suo cane, del suo lutto. E’ il cazzotto, la sciancata. E’ il piano della vita che s’inclina, si mette di traverso. Una notte è uscito, s’è messo a quattro zampe, è andato. E’ lurido, come tutti i barboni. Indossa un vestito color birra d’un tessuto che luccica, preso a un centro di raccolta e che magari è il vestito di un morto. Due mollette da panni stringono i pantaloni al polpaccio. Scarpe con le suole lisce come dorsi di canoa, scarpe che scivolano sui marciapiedi, sulla melma del lungofiume, sulle verdure rimaste in terra dei mercati che smontano. La maglietta produce fiammelle, è acrilica, azzurro nazionale, con un bello scudetto dell’Italia. E’ l’allegria che copre il petto, il ghigno che lo gonfia, che sfotte il cielo. Si chiama Zorro questo ragazzo di mezza età. Zorro come lo spadaccino nero, Zorro come un cane color piscio. E’ incazzato, naturalmente è  molto incazzato, oppure ci fa. Non ha più le tessere di accesso, è come quei guidatori spericolati a cui hanno ritirato la patente. Beve, chi sta in strada beve. Dorme in stazione, accanto allo sfiato caldo della metropolitana, sniffa gli odori, gurada le scarpe che passano, guarda le donne. Gliene piace una alla portata, una con il culo basso come il marciapiede.
Così queste persone che se ne vanno per i fatti propri borbottando, imprecando, con un vespaio di strani pensieri in testa, mi sembrano il sale della terra, un buon motivo per restare, per festeggiare la vita. Ti guardano da una lontananza mai troppo benigna, minacciosi a volte, esigono il rispetto di chi si è appartato. Stanno sul margine del grande fiume, intenti come pescatori in attesa. Pescano nel nostro vortice quello che rimane, quello che schizza via, che gli appartiene per diritto. Hanno quegli odori concentrati, essenza d’uomo, come mosto, come seccume marino, roba sfinita dal sole o macerata dall’umido, roba che fa il suo corso.
Zorro mi ha aiutato a stanare un timore che da qualche parte appartiene a tutti. Perché dentro ognuno di noi, inconfessata, incappucciata, c’è questa estrema possibilità: perdere improvvisamente i fili, le zavorre che ci tengono ancorati al mondo regolare.
Chi di noi in una notte di strozzatura d’anima, bavero alzato sotto un portico, non ha sentito verso quel corpo, quel sacco di fagotti con un uomo dentro, una possibilità di se stesso? I barboni sono randagi scappati dalle nostre case, odorano dei nostri armadi, puzzano di ciò che non hanno, ma anche di tutto ciò che ci manca. Perché forse ci manca quell’andare silenzioso totalmente libero, quel deambulare perplesso, magari losco, eppure così naturale, così necessario, quel fottersene del tempo meteorologico e di quello irreversibile dell’orologio. Chi di noi non ha sentito il desiderio di accasciarsi per strada, come marionetta, gambe larghe sull’asflato, testa reclinata sul guanciale di un muro? E lasciare al fiume il suo grande, impegnativo corso. Venirne fuori, venirne in pace. Tacito brandello di cane umana sul selciato dell’umanità.
Perché i barboni sono come certi cani, ti guardano e vedi la tua faccia che ti sta guardando, non quella che hai addotto, magari quella che avevi da bambino, quella che hai certe volte che sei scemo e triste. Quella faccia affamata e sparuta che avresto potuto avere se il tuo spicchio di mondo non ti avesse accolto. Perché in ogni vita ce n’è almeno un’altra.

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