6 marzo 1956, martedì pomeriggio. Sfondare le barriere; soffro moltissimo e un ulteriore guscio della ben circoscritta comprensione è infranto. A monte tutti i programmi chiari e definiti, e questo pomeriggio ho ricevuto una lettera dal mio Richard che ha mandato tutto all’aria tranne il mio improvviso guardarmi dentro e scoprire quel che temevo e lottavo per evitare di scoprire: amo quel maledetto ragazzo con tutto quel che c’è in me e non è poco. Peggio ancora, non posso smettere. […] Lo amo, l’ho amato e lo amerò fino all’inferno o in paradiso e ritorno. […] Così, via da questa ferita e dalla nausea, da questo folle desiderio di spendere tutto quel che ho per andare a Parigi e affrontarlo con calma, con tranquillità, convinta che la mia volontà e il mio amore possano sciogliere le porte: via da tutto questo, ribatto la lettera che avevo scritto in risposta alla sua, che magari non leggerà mai e alla quale probabilmente non risponderà, perché ha l’aria di volere una rottura netta e scrupolosa come il taglio di una ghigliottina.
Testo della lettera:
«Stammi solo a sentire un’ultima volta. Perché sarà l’ultima e mi sta nascendo una forza terribile che è figlia tua quanto mia e allora il tuo stare a sentire la deve battezzare.
Il sole inonda la stanza mentre scrivo e ho passato il pomeriggio a comprare arance e formaggio e miele e a sentirmi molto felice dopo due settimane di forte malessere, perché ogni tanto riesco a vedere come dobbiamo vivere in questo mondo anche se la nostra vera anima non è tutta con noi. […]
Ho sperato in una notte di terrore che un amore tanto irrevocabile non mi legasse a te per sempre. Ho lottato a lungo per liberarmi come dal peso di un nome che poteva essere un bambino o un tumore maligno; non lo sapevo. Lo temevo soltanto. Ma anche se ho girato piangendo (dio, se l’ho fatto) e sbattendo la testa contro i chiodi, pensando disperatamente che se fossi stata in fin di vita e avessi chiamato, tu saresti corso, ho scoperto quel che più temevo nella mia debolezza. Ho scoperto che neanche tu hai il potere di liberarmi o restituirmi l’anima; potresti possedere decine di amanti, di lingue e di paesi e io potrei continuare a scalciare; ancora non sarei libera. […]
Il sole inonda la stanza mentre scrivo e ho passato il pomeriggio a comprare arance e formaggio e miele e a sentirmi molto felice dopo due settimane di forte malessere, perché ogni tanto riesco a vedere come dobbiamo vivere in questo mondo anche se la nostra vera anima non è tutta con noi. […]
Ho sperato in una notte di terrore che un amore tanto irrevocabile non mi legasse a te per sempre. Ho lottato a lungo per liberarmi come dal peso di un nome che poteva essere un bambino o un tumore maligno; non lo sapevo. Lo temevo soltanto. Ma anche se ho girato piangendo (dio, se l’ho fatto) e sbattendo la testa contro i chiodi, pensando disperatamente che se fossi stata in fin di vita e avessi chiamato, tu saresti corso, ho scoperto quel che più temevo nella mia debolezza. Ho scoperto che neanche tu hai il potere di liberarmi o restituirmi l’anima; potresti possedere decine di amanti, di lingue e di paesi e io potrei continuare a scalciare; ancora non sarei libera. […]

Ti amo con tutto il cuore, l’anima e il corpo; nella tua debolezza e nella tua forza; e non mi era mai successo prima di amare un uomo anche nella sua debolezza. E se riuscirai ad accettare la debolezza che è in me, quella che mi ha fatto scrivere l’ultima lettera servile da cane accattone, e a riconoscere che quella lettera è opera della stessa donna che aveva scritto la prima, forte e fiduciosa, e ad amare quella donna nella sua interezza, capirai quanto ti amo. […]
Ora che ho raggiunto l’improvvisa consapevolezza della mia condizione terribile ed eterna, devo essere certa che tu capisca sia questo sia perché allora come ora ho dovuto scriverti: se proprio non mi vuoi rispondere, mandami una cartolina in bianco, senza firma, qualcosa, qualunque cosa per farmi capire che non hai fatto a pezzi e dato fuoco alle mie parole prima di sapere che io sono migliore e peggiore di quel che pensavi. […]
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