Il Gattopardo è un romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, pubblicato postumo nel 1958. L'autore trasse ispirazione da vicende della sua antica
famiglia e in particolare dalla vita del suo bisnonno, il Principe Giulio
Fabrizio Tomasi di Lampedusa, vissuto negli anni cruciali del Risorgimento e
noto anche per le sue ricerche astronomiche e per l'osservatorio astronomico da
lui realizzato. Per il tema trattato è spesso considerato un romanzo storico, benché
non ne soddisfi tutti i canoni.
Il racconto inizia con la recita del rosario in una stanza
della casa del Principe di Salina, la casa gentilizia del Principe Fabrizio
Salina, dove abitava con i sette figli e la moglie Maria Stella. Don Fabrizio
era un personaggio particolare perché la sua vita era caratterizzata da
continui pensieri d'amore e di morte, erano solite le sue scappatelle con le
amanti alle quali la moglie reagiva con delle crisi isteriche. Egli è testimone
del lento decadere in quel periodo del ceto dell'aristocrazia di cui è
rappresentante. Infatti, con lo sbarco in Sicilia di Garibaldi e del suo
esercito, si afferma una nuova classe, quella dei borghesi, che il principe
come tutti gli aristocratici disprezza. Il nipote di don Fabrizio, Tancredi,
pur combattendo nelle file garibaldine cerca di rassicurare lo zio sul fatto
che alla fine le cose andranno a loro vantaggio. Tancredi inoltre aveva sempre
mostrato interesse verso la figlia del principe, Concetta, che ricambiava i
suoi sentimenti. Il principe e la sua famiglia trascorrono un po' di tempo
nella loro residenza estiva a Donnafugata; lì il nuovo sindaco è Calogero
Sedara, un uomo di modeste origini, un borghese. Non appena Tancredi vede
Angelica, la figlia del sindaco, si innamora perdutamente di lei. La ragazza è
però una borghese, e non ha perciò i modi degli aristocratici, per questo
Concetta trova quasi ripugnante il suo comportamento. Angelica però ammalia
tutti con la sua bellezza, tanto che Tancredi finirà per sposarla, attratto oltre
che dalla bellezza anche dal suo denaro. Arriva il momento di votare per un
importante plebiscito il cui esito decreterà o no l'annessione della Sicilia al
regno italico, a quanti chiedano al principe un parere su cosa votare, il
principe affranto dice di essere favorevole a questa entrata. I voti del
plebiscito alla fine vengono comunque truccati dal sindaco Sedara, si arriva
perciò all'annessione. Dopo questo un funzionario piemontese, il cavaliere
Chevalley offre a don Fabrizio la carica di senatore del Regno d'Italia ma il
principe rifiuta l'incarico in quanto egli si sente un vero e proprio
aristocratico e non vuole sottomettersi alla caduta del suo tempo. Il principe
ora conduce una vita desolata fino a quando muore in una stanza d'albergo, dimenticato
da tutti, mentre torna da Napoli dove si era recato per delle visite mediche.
Rimarranno solo le figlie del principe, ormai rassegnate ad una vita
sfavorevole.
Parte Settima
Don Fabrizio quella sensazione la conosceva da sempre. Erano
decenni che sentiva come il fluido vitale, la facoltà di esistere, la vita,
insomma, e forse anche la volontà di continuare a vivere andassero uscendo da
lui lentamente ma continuamente come i granellini che si affollano e sfilano ad
uno ad uno, senza fretta e senza soste, dinanzi allo stretto orifizio di un
orologio a sabbia. In alcuni momenti d’intensa attività, di grande attenzione,
questo sentimento di continuo abbandono scompariva per ripresentarsi
impassibile alla più breve occasione di silenzio o d’introspezione, come un
ronzio continuo all’orecchio, come il battito di una pendola s’impongono quando
tutto il resto tace; e ci rendono sicuri, allora, che essi sono sempre stati lì
vigili anche quando non li udivamo.
In tutti gli altri momenti gli bastava sempre un minimo di
attenzione per avvertire il fruscio dei granelli di sabbia che sgusciavano via
lievi, degli attimi di tempo che evadevano dalla sua vita e lo lasciavano per
sempre; la sensazione del resto non era, prima, legata ad alcun malessere, anzi
questa impercettibile perdita di vitalità era la prova, la condizione per così
dire, della sensazione di vita; e per lui, avvezzo a scrutare spazi esteriori
illimitati, a indagare vastissimi abissi interiori essa non era per nulla
sgradevole: era quella di un continuo, minutissimo sgretolamento della
personalità congiunto però al presagio vago del riedificarsi altrove di una
individualità (grazie a Dio) meno cosciente ma più larga: quei granellini di
sabbia non andavano perduti, scomparivano sì, ma si accumulavano chissà dove
per cementare una mole più duratura. Mole però, aveva riflettuto, non era la
parola esatta, pesante com’era; e granelli di sabbia, d’altronde neppure: erano
più come delle particelle di vapor d’acqueo che esalassero da uno stagno
costretto, per andare su in cielo a formare le grandi nubi leggere e libere.
Talvolta si sorprendeva che il serbatoio vitale potesse ancora contenere
qualcosa dopo tanti anni di perdite.
[...] Don Fabrizio si guardò nello specchio dell’armadio:
riconobbe più il proprio vestito che sé stesso: altissimo, allampanato, con le
guance infossate, la barba lunga di tre giorni; sembrava uno di quegli inglesi
maniaci che deambulano nelle vignette dei libri di Verne che per Natale
regalava a Fabrizio, un Gattopardo in pessima forma. Perchè mai Dio voleva che
nessuno morisse con la propria faccia? Perchè a tutti succede così: si muore
con una maschera sul volto; anche i giovani; anche quel soldato col viso
imbrattato; anche Paolo quando lo avevano rialzato dal marciapiede con la
faccia contratta e spiegazzata mentre la gente rincorreva nella polvere il
cavallo che lo aveva sbattuto giù. E se in lui, vecchio, il fragore della vita
in fuga era tanto potente, quale mai doveva essere stato il tumulto di quei
serbatoi ancora colmi che si svuotavano in un attimo da quei poveri corpi
giovani?
[...] “Dì a tutti di lasciarmi in pace, mi sento meglio;
voglio dormire.” Aveva sonno davvero; ma trovò che cedere adesso al sopore era
altrettanto assurdo quanto mangiare una fetta di torta subito prima di un
desiderato banchetto. Sorrise: “Sono sempre stato un goloso saggio.”
[...] Nell’ombra che saliva si provò a contare per quanto
tempo avesse in realtà vissuto: il suo cervello non dipanava più il semplice
calcolo: tre mesi, venti giorni, un totale di sei mesi, sei per otto
ottantaquattro... quarantottomila...√840.000... Su riprese. “Ho settantatré
anni, all’ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto, un totale di due... tre
al massimo”. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a
contare; tutto il resto: settant’anni.
[...] Non era più un fiume che erompeva da lui, ma
un’oceano, tempestoso, irto di spume e cavalloni sfrenati.
[...] Fra il gruppetto ad un tratto si fece largo una
giovane signora: snella, con un vestito marrone da viaggio ad ampia tournure,
con un cappellino di paglia ornato da un velo a pallottoline che non riusciva a
nascondere la maliziosa avvenenza del volto. Insinuava una manina inguantata di
camoscio fra un gomito ed un altro dei piangenti, si scusava, si avvicinava.
Era lei, la creatura bramata da sempre che veniva a prenderlo: strano che così
giovane com’era si fosse arresa a lui; l’ora della partenza del treno doveva
essere vicina. Giunta faccia a faccia con lui sollevò il velo e così, pudica ma
pronta ad essere posseduta, gli apparve più bella di come mai l’avesse
intravista negli spazi stellari.
Il fragore del mare si placò del tutto.
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