Quella mattina mi ero alzata
molto presto. Dormivano tutti a casa, mentre io non riuscivo a prendere sonno.
Mi rigiravo nel letto come una dannata all'inferno per un sogno, uno stupido
sogno che mi aveva travolto e stravolto quella notte.
Ero in un locale molto ampio, nel
privé di un club, credo, o una hall di un albergo, uno di quegli alberghi dove
non penso di poter mai entrare, esclusivi, snob, da ricchi insomma, ricchi
spiantati, e soprattutto potenti. E’ una sala con luci soffuse, piccoli
lampadari bassi che ricadono leggeri sui singoli tavoli. Una musica jazz
risuona nell’aria, appena di sottofondo. Ero seduta ad uno di questi tavoli.
Indossavo un vestito nero, aderente. I capelli raccolti in uno chignon, dal
quale comunque dei piccoli ciuffi ricadevano intorno al mio viso. Una strana
pettinatura, se pensi a come di solito li porto sciolti e selvaggi. Mi vedevo
particolarmente attraente e sensuale. Contrariamente al solito, mi piacevo ed
era una bella sensazione.
Le mie mani affusolate reggevano
una flûte di champagne, che sorseggiavo in attesa di qualcuno. Non sapevo chi
stessi aspettando, ma qualcuno doveva essersi seduto al tavolo con me, perché
un'altra flûte era appoggiata sul tavolo, riempita solo fino a metá, come se
qualcuno ne avesse goduto qualche sorso e si fosse poi alzato per qualche
motivo. Io ero lì, in attesa del suo
ritorno. Un impegno in toilette, forse. O una telefonata che richiedeva
una certa privacy e un'urgenza tale da dovermi lasciare al tavolo ad aspettare.
Non mi sentivo contrariata dalla situazione, tuttavia, e mi guardavo in giro,
tranquilla, in attesa che quella persona tornasse a me.
La sensazione strana è che sapevo
di essere io quella donna in attesa, anzi, “ero” io, ma guardavo la scena come
fossi nella platea di un teatro, in prima fila, e riuscivo a percepire, tra me
e quella donna che ero sempre io, la stessa distanza vissuta da uno spettatore,
seduto in una comoda poltrona di velluto, rispetto alla prima attrice della
rappresentazione teatrale.
Non so quanto sia durata
quell'attesa. Il sogno dilata la sensazione del tempo... Per ingannare l’attesa
del mio commensale, io mi dilettavo a rubare stralci di discorsi degli ospiti
di quel privé, giocando a indovinare la loro età, la loro vita, il loro lavoro,
il rapporto con gli altri personaggi seduti agli stessi tavoli. Sì, sembravano
attori che recitano: avevo l’impressione di essere nella bellissima finzione di
quel mondo patinato e luccicante, nel quale i soldi non fanno la differenza,
come invece possono farla dei diamanti ostentati al collo delle signore o degli
orologi di marca nel taschino della giacca degli uomini.
Proprio un attimo prima di
svegliarmi, ho scoperto chi fosse il mio ospite. Era a me sconosciuto, stretto
in un elegantissimo completo nero. Era arrivato all’improvviso, come sbucato da
dietro le quinte, con un fiore in una mano, una gardenia bianca, ed un
piccolo pacchetto nell’altra. Si era seduto e mi aveva porto la scatolina, guardandomi negli occhi con uno sguardo pieno
d'amore. Solo tre parole di accompagnamento per quel gesto insolito: «Perdonami
l'attesa».
Un po' spiazzata, appoggiai la
gardenia sul tavolo e aprii lentamente il pacchetto, scartando un fiocco dorato
sistemato con eleganza su una carta avorio, che sotto le dita sembrava quasi
seta. La confezione blu sotto quella carta richiamava chiaramente ad un
gioiello, qualcosa di estremamente prezioso, il che mi imbarazzò non poco,
perchè non me lo aspettavo o forse non pensavo di meritarlo.
Nel momento stesso in cui aprii
la confezione, si mostrò a me una bellissima collana di piccoli diamanti, con
un pendente credo in oro bianco a forma di albatros. La cosa sorprendente è che
nel momento in cui le mie dita stavano per sfiorarlo, l'albatros si trasformò
in un vero uccello e volò via, e in quello stesso istante intorno a me il club
si trasformò in una cupa spelonca odorante di zolfo ed io mi ritrovai
completamente nuda vicino ad una sorgente sulfurea che, in un istante, mi
inghiottì, facendomi annegare.
Il risveglio è stato senza
respiro. Mi alzai, bevvi un caffé nero e, contrariamente al solito non mangiai
nulla, perché avevo la bocca dello stomaco completamente bloccata. Mi avvicinai
alla finestra e mi tranquillizzai solo quando scostando le persiane riuscii a
tuffarmi nei colori ancora freddi della prima alba. Pensai che in fondo avevo
solo sognato, anche se di tutto quel sogno mi era rimasto dentro il calore
trasmessomi da quell'uomo e la sensazione dell'acqua calda e solforosa che mi
soffocava i polmoni.
Mi venne in mente che quel
vestito nero lo avevo davvero e mi lasciai prendere dal fascino di indossarlo
quella mattina: mi avrebbe portato bene! Avevo un incontro importante in
ufficio nel pomeriggio, e non sarei nemmeno sembrata troppo "fuori
luogo". Mi specchiai e automaticamente mi tirai su i capelli. Decisi che
in fondo per quel giorno potevo anche cambiare la mia pettinatura, ordinando i
miei ricci ribelli, e così, agghindata come per l'appuntamento più importante
della mia vita, uscii. Dentro di me provavo quella strana elettricità che di
solito mi prende quando mi sta per succedere qualcosa, ma non ci badai, perchè
ero abituata al fatto che ultimamente quella sensazione non avesse mai portato
nulla al di fuori dalla solita routine.
Presi il metrò, come tutti i
giorni. E come tutti i giorni mi affossai con tutte le mie emozioni in quella
calca umana di sudore e preoccupazione. Tenevo stretti tra le mie mani un
piccolo libro e la matita per sottolineare i passaggi per me più significativi
ed ogni tanto appoggiavo la testa al braccio teso verso l’alto che mi sosteneva
alla barra fredda d’acciaio. Ogni tanto alzavo gli occhi da libro e li
chiudevo, per ripescare in qualche anfratto della mia mente lo sguardo ed il
calore dell’uomo che avevo visto in sogno. Nonostante provassi a identificarlo
con qualche persona a me nota, ogni tentativo falliva. Non lo conoscevo,
seppure quei lineamenti mi risultassero così familiari...
Scesi alla solita fermata. Quella
mattina era particolarmente fredda ed il vento mi tagliava il viso e mi faceva
lacrimare gli occhi. Mi proteggevo con una calda sciarpa quel poco che potevo,
camminando in fretta per raggiungere il prima possibile il tepore dell’ufficio,
stando attenta a poggiare i tacchi adeguatamente, per non scivolare: non ero
abituata a quelle “vertigini”...
Mi fermai ad un semaforo per
aspettare il verde e notai un’auto, una bella auto nera, di quelle che vedi
usare da gente importante e facoltosa. L’autista era addirittura in divisa ed
un vetro divideva i sedili anteriori da quelli posteriori, appena aperto per
consentire quattro chiacchiere tra i due. I vetri erano offuscati, scuri, ma il
finestrino posteriore era aperto. “Strano!” – pensai – “per una giornata così
fredda”. Quindi sentii l’autista che comunicava al passeggero: «Mr Swann, siamo
praticamente arrivati. Glielo avevo detto che non ci avremmo impiegato
molto...».
Quel nome mi ricordava Marcel
Proust e il suo testo “Alla ricerca del
tempo perduto”. Mi
incuriosii al punto da voler guardare in viso l’uomo distinto che leggeva il
giornale sul sedile posteriore. Mr Swann.
Dire che rimasi impietrita è
davvero nulla in confronto a come mi sentii. Proprio in quell’istante, l’uomo
decise di alzare il suo sguardo su di me, forse a sua volta spinto dalla
curiosità di guardare nel viso la donna che, al contrario di tutti gli altri
pedoni che stavano attraversando la strada, era ferma sul marciapiede a
curiosare dentro la sua macchina.
Mr Swann era il misterioso uomo
del mio sogno.
L’auto ripartì svoltando a
sinistra, senza darmi il tempo nemmeno di sostenere quello sguardo. Ma era
stato sufficiente un attimo, per sconvolgermi. Sentii il bisogno di accendermi
una sigaretta e inspirare a fondo, come mi capita spesso dopo intense emozioni.
Buttavo fuori fumo e respiro che si condensavano in una nuvoletta, appena a
contatto con l’aria gelata. Bastarono tre boccate per scuotermi abbastanza da
rispingermi a camminare verso l’ufficio, mentre gli occhi cercavano da lontano
l’auto di Mr Swann nella coda del traffico mattutino.
Vidi l’auto ferma davanti
all’albergo a cinque stelle situato affianco al mio ufficio e istintivamente
accelerai il passo. Quando fui nei pressi dell’ingresso, un omino in divisa
pieno di valigie mi tagliò la strada di prepotenza ed inciampai, cadendo. Una
mano mi sostenne e mi impedì di crollare del tutto a terra. Mi sentii
un’idiota. “Maledetti tacchi!” pensai, e mi scappò ad alta voce qualcosa sulle
calze che si erano smagliate impigliandosi in una valigia. Alzai lo sguardo dal
marciapiede, seguendo la mano che ancora mi reggeva, lungo il braccio, verso il
petto, il collo e la bocca carnosa.
E mi incatenai agli occhi di Mr
Swann.
«Mi spiace, signora. Posso fare
qualcosa?»
Ero muta e stavo facendo la
figura dell’imbranata, ma, non so come spiegarlo, ero davvero cascata dentro
quegli occhi, tra il sogno e la realtà. Riuscii a balbettare solo un: «Che
disastro! Guardi, le mie calze... ho un incontro importante questo pomeriggio,
non posso proprio presentarmi così...», ma non intendevo essere nè scortese, nè
pretendere che ripagasse quel futile danno per una stupidissima caduta, che
comunque ringraziavo il cielo fosse capitata, per il solo fatto di avermi
consentito di parlare con lui.
«Mi permetta di presentarmi. Sono
Charles Swann, sono appena arrivato da Boston a Milano. Le sarei grato se
accettasse un caffé e il mio impegno a fornirle dei collant nuovi. Il prima
possibile. La prego...» mi guardò senza nemmeno darmi il tempo di rispondere qualcosa
«... non mi dica di no!».
Accettai. Qualcosa dentro di me
mi diceva di non farlo, ma ero catturata ed imprigionata dai suoi occhi e
riuscii solo a sorridergli e dirgli che potevo accettare un caffé, ma per i
collant ci avrei pensato da sola, non era davvero il caso che lui perdesse
tempo per una simile stupidaggine.
Entrammo nella hall dell’albergo
e lì incassai il secondo colpo. Appena sulla sinistra, lontano dalle vetrine
dell’albergo che ero solita sbirciare con curiosità, ogni mattina mentre andavo
in ufficio, si allargava una sala uguale in tutto e per tutto a quella del mio
sogno. Le mie gambe traballarono e mi mancò il fiato. Svenni. Che imbranata,
penserai! Già, deve essere probabilmente la stessa cosa che pensò lui...
Comunque quando aprii gli occhi, incrociai i suoi. Cercai di rialzarmi e lui mi
aiutò. Dopo di che chiamò il direttore dell’albergo e lo pregò, nonostante le
mie proteste e la mia pretesa di stare bene, di sistemarmi nella sua camera
d’albergo. Lui ci avrebbe raggiunti dopo un momento.
Non so quanto fu lungo un
momento. Il mio imbarazzo cresceva, la situazione diventava un po’
sconveniente... Comunque almeno ero sola in quella stanza, mentre lo aspettavo,
e mi ero alzata dal letto dove il direttore mi aveva fatto sistemare per riprendermi.
Mi avevano portato dell’acqua con un po’ di zucchero e qualche caramella di
liquirizia. Poi mi avevano consigliato di riposare, in attesa che Mr Swann
arrivasse.
In realtà io mi sentivo bene, e
imputavo quel piccolo svenimento alla combinazione di pressione bassa, digiuno
della mattina e emozioni un po’ forti. Mi ero completamente ripresa e poichè
inoltre trovavo fuori luogo aspettare Mr Swann a letto, mi ero alzata, senza
calze (le avevo sfilate, erano rotte!) e con il solo vestito nero indosso. Ero
dietro la finestra, con le dita ferme sul muro che scostavano la tenda, per
consentirmi di guardare il passeggio in quella strada centrale di Milano.
Non udii la porta che si apriva.
Probabilmente il direttore dell’albergo l’aveva lasciata socchiusa. L’unica
cosa che percepii furono le sue mani sulle mie spalle nude e la sua voce:
«Spero si senta meglio... signora... non ci siamo presentati, o meglio, ci
siamo presentati a metà. Qual è il suo nome?» «Mi chiamo Giulia.», gli risposi,
senza aggiungere altro, mentre mi voltavo.
I nostri visi erano vicinissimi.
Guardavo i suoi capelli neri, un po’ lunghi e mossi, con il ciuffo che scendeva
soffice lungo la fronte. I suoi occhi verdissimi splendevano contro la luce del
sole che trapassava le finestre. La sua bocca un po’ carnosa era irresistibile
come la nutella nella quale ogni bambino cerca di affondare le mani.
Non lo so chi fu, se lui, se io,
ma le nostre labbra si incontrarono, appoggiandosi appena le une alle altre,
assaporando la dolcezza di un primo bacio. Tutto il dolore che il mio cuore
aveva sofferto fino alla sera prima sembrava scomparso, e ripensavo alle mie
promesse di non lasciarmi più andare a nessuna storia d’amore, di non
rincorrere più nessun fuoco fatuo. Non poteva essere amore, non sicuramente
verso un uomo conosciuto quella stessa notte, per quanto ti abbia regalato
diamanti da sogno.
L’albatros che volava via doveva
essere il presagio. Non dovevo cascarci. Dovevo prendere il mio soprabito,
infilare le mie scarpe e uscire di corsa da quell’antro in cui lui mi teneva
prigioniera, con l’unica catena del suo sguardo. Eppure restavo lì, impietrita,
mentre lui si fece coraggio e mi abbracciò, stringendomi a sé, afferrandomi con
decisione lungo la vita, così che il mio corpo poteva aderire completamente al
suo, lasciandomi sentire che mi desiderava almeno quanto io iniziavo a
desiderare lui, nel profondo di me stessa, in quel punto della pancia dove
tutto ha inizio, il piacere fisico e lo stravolgimento del cuore.
Le sue mani iniziarono a cercare
il mio corpo, con tocchi a volte prepotenti, che mi eccitavano, a volte dolci
che soffocavano il mio desiderio d’amore. La mia mente correva in soccorso
implorandomi di andare via, di non lasciarmi travolgere dall’ennesima storia
senza senso e con lei venni a patti, giurando che qualunque cosa fosse successa
in quella stanza, sarebbe rimasta lì, non ne avrebbe oltrepassato i confini.
Non parlavamo, se non tramite gli
occhi, eppure mi sembrava di conoscerlo da una vita, un filo inesistente mi
legava a lui, mi avvolgeva più volte di immagini che non capivo da dove
provenissero, se da un passato lontano o da un sogno. Io quell’uomo sentivo di
averlo amato, anche se razionalmente non poteva essere così, perchè lo avevo
conosciuto davvero solo una mezz’ora prima.
Decisi che non m’importava. Non
mi importava di essere in ritardo al lavoro, non mi importava di essere in una
camera di albergo con uno sconosciuto, non mi importava di essere sposata e di
avere dei figli. Nulla aveva senso e così chiusi gli occhi e mi abbandonai a
quelle mani che piano scendevano sul mio corpo, che sfilavano i bottoni del
vestito sulla schiena, che rimboccavano il vestito verso terra, che mi
sfilavano il mio intimo lasciandomi completamente nuda di fronte a lui. Nè mi importava
del fatto che le mie mani gli stavano già sbottonando la giacca, gli sfilavano
la cravatta, bottone dopo bottone aprivano la camicia profumata di sapone di
marsiglia, slacciavano la cintura del pantalone, e spingevano
in un gesto elegante e repentino il pantalone giù per terra.
Facemmo l’amore dolcemente, come
se ci conoscessimo da sempre, incontrandoci nei desideri, senza parole, come
non mi era mai successo, continuando a baciarci e guardarci negli occhi.
Sentivo solo un rimbombare di emozioni dentro di me, il rumore di onde che si
infrangevano da qualche parte, i tuoni di un temporale in arrivo e l’esplosione
che provai ad un certo punto fu totale. Quando lo stritolai nella mia morsa,
lui urlò il mio nome e si accasciò affianco a me, muto come lo era stato
durante quei momenti indimenticabili. Mi addormentai tra le sue braccia,
nell’eco dei suoi leggeri baci sul mio collo: il sonno e le emozioni prepotenti
mi vinsero.
Quando mi svegliai, ero nel
letto. Era mezzogiorno. Nella stanza una leggera musica jazz suonava. Nessun
altro rumore, nessuna voce. Nessun profumo, nessun odore. Niente occhi verdi e
labbra carnose intorno. Nulla. Ero da sola. Mi alzai e il mio sguardo fu
colpito dal tavolino vicino la finestra, dove erano appoggiate una gardenia
bianca ed un piccolo pacco di carta in colore avorio e setosa, abbellita da un
nastro dorato. Girai intorno al tavolino più volte, me ne allontanai per
rivestirmi. Sotto il vestito, notai una confezione di collant nuovi. Era una
marca molto costosa. Sorrisi. Li infilai, indossai le scarpe ed il paletot.
Poi presi in mano il pacchetto ed
assaporai la sensazione della seta. Mi ricordava le sue labbra. Lo aprii
lentamente e ne scoprii la custodia blu che già conoscevo. La aprii, ma non
trovai una collana di diamanti. Non ne rimasi delusa: sarebbe stato troppo.
C’era però un piccolo ciondolo d’oro bianco con un albatros. Richiusi la
confezione, la riappoggiai sul tavolino, presi la gardenia e uscii dalla
stanza.
Non mi fermò nessuno in albergo.
Non incontrai nessuno, se non il receptionist che mi salutò con un classico e
freddo sorriso. L’auto di Mr Swann non c’era più.
Andai al lavoro. Avevo la mia
riunione e nessuna voglia di parteciparvi.
Quando uscii dall’ufficio, mi
recai nell’albergo, con la precisa intenzione di rivedere Mr Swann e salutarlo.
Solo salutarlo, mi dicevo. Nessun impegno. Nulla. Solo un saluto, visto che era
scappato mentre io dormivo... Chiesi di lui in reception e rimasi sbalordita
quando la gentile hostess mi rispose che non c’era nessun Mr Swann in albergo,
né c’era stato, né era previsto che arrivasse. Chiesi chi avesse prenotato la
camera numero 15 e mi disse che quella stanza era prenotata da una settimana da
una giovane coppia di cinesi in viaggio di nozze.
Ero tramortita, ma pensai che in
fondo era meglio così.
Misi la mano nella borsa e toccai
la mia gardenia bianca. Almeno quella mi rassicurava del fatto che non avessi
sognato.
Poi mi recai verso il metro.
Io non so cosa sia successo.
Quanto sia sogno e quanto sia realtà. Eppure io ho fatto l’amore con
quell’uomo. Credimi, Sissi, non me lo sono sognato. Ma mi chiedo come sia
possibile e mi rispondo solo che forse Mr Swann è talmente potente da potersi
fare negare in modo così convincente. Deve essere così...
Penso ancora a lui, nonostante
siano passati giorni. Quello che sento è uno strano vuoto. Chi era? Un angelo?
Qual era il suo compito? Distrarmi dal mio dolore? Ma soprattutto, perchè credo
di averlo conosciuto quando con tutte le mie forze io non riesco a ricordare di
averlo mai incontrato?
La gardenia bianca che mi ha
regalato mi sbircia ogni tanto dal suo vaso, posto in cima alla credenza della
mia cucina. Lei lo sa, lei conosce quel segreto.
Io,
davvero,
non sono più
sicura di volerlo conoscere.
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