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17 mag 2013

Che tu sia per me il coltello (Yair) - David Grossman


16 agosto
Sappi solo che io sono il miglior padre del mondo, davvero. Ancora oggi mi occupo di lui con devozione materna: lo nutro, lo vesto, lo pulisco, e persino in questo momento mi vengono le lacrime agli occhi pensando a quanto bene gli voglio, a quanto sia bello e a come io lo distruggo in continuazione.
Una volta potevo indovinare quasi ogni suo pensiero e avevamo il nostro lessico privato. Naturalmente usavamo le loro parole, ma erano nostre, perché le avevo scelte per lui dentro di me. Quasi tutte le parole che ha imparato fino a tre anni gliele ho insegnate io. Gli dicevo: “Ecco un uccello. Ripeti: uccello”. E lui mi guardava affascinato, dicendo: “uccello”. Solo dopo averla ripetuta la parola diventava sua. Come se io l’avessi masticata e gliela avessi messa in bocca. Mi sentivo come se gli stessi porgendo i primi mattoncini Lego per costruire il suo mondo, e così facendo penetravo ulteriormente in lui, gli lasciavo un’impronta, esistevo in lui come, forse, non esisto in nessun altro luogo della terra. Capisci? Improvvisamente avevo affondato le radici.
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Cosa non ho fatto per esistere dentro di lui! Stavo chino sul suo letto quando dormiva, gli passavo una mano sul viso e gli disegnavo i sogni con le dita. Gli sussurravo parole allegre nell’orecchio perché giungessero fino alla fabbrica dei sogni e, all’occorrenza, li rendessero più dorati. Avrei fatto qualunque cosa per divertirlo. E lui rideva con me...



Ma ecco, è finita. Ora il mondo intero riversa in lui parole e nomi. Ha pensieri che non conosco ma non me ne cruccio: così vanno le cose e dovrei essere contento che tutto proceda secondo la norma. La mia mano, però, non si trattiene più sul suo viso la notte, e io sono di nuovo solo con me stesso. Lotta contro di me per ogni cosa. Mi viene quasi da pensare che sia questa guerra a dare gusto alla sua vita. E per cosa combatte? Per vestirsi al mattino e per cosa mangiare a mezzogiorno, per stabilire a che ora andare a dormire e che programma televisivo guardare. Qualsiasi cosa io proponga, lui vuole il contrario, e non hai idea di quanto sia ostinato (pensare che, fino a circa sei anni fa, non esisteva ancora, suddiviso fra me e sua madre).
E più lui si intestardisce, più io divento irremovibile. Mi fa diventar matto il fatto che un bambino così piccolo stabilisca improvvisamente di sapere già tutto meglio dei suoi genitori e allora mi scateno, grido, offendo. Terribile, vero? Poi spiego a me stesso, con una logica di ferro, che dopotutto, con questo atto di sopraffazione/umiliazione, lo educo a riconoscere il principio fondamentale della vita bla bla, rendendolo consapevole dell’essenza dell’educazione: che alla fine devi arrenderti davanti alla forza, alla stupidità, all’arbitrio. Perché così va il mondo ed è importante che lui lo capisca fin dalla più tenera età, per evitare che questo mondo lo distrugga quando la cosa potrebbe fargli più male.
Io vorrei insegnargli il contrario, istruirlo a volare alto, a spiegare le ali sopra di me, a infischiarsene delle ansie e della vergogna, a essere se stesso, a fare esattamente quello che il cuore gli comanda. Ma ho sempre una mano armata che mi punta alla gola, e mi trattiene: la mano di mia madre, il pugno di mio padre, il braccio armato della mia famiglia. Io stesso non credo a quello che dico in quei momenti. Cose che, da bambino, ho giurato di non ripetere. Ma non sono capace di trattenermi e recito, con tono gelido, quei copioni familiari. Potrei spaccarmi la faccia in quei momenti... Perché lotto contro mio figlio? Senti, perché non lasciare che un bambino, erede di questa spregevole dinastia, cresca così com’è, così come ero io, come ero quasi riuscito a essere: fragile, delicato, sonatore, senza pelle, poliedrico?
Forse è meglio che continui domani.
No, domani cadrà la pioggia e cancellerà tutto.

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