“Domenico, lo sappiamo, ha tradito Luciana molte volte, anche gravemente. Eppure, se immagina lei fra le braccia di un altro, è trascinato in un’oscurità senza rimedio. Domenico è solo davanti al suo terrore e, per lui, tutto il mondo è remoto. Non vede piú quanto Luciana gli sia vicina. E cosí, l’allontana, senza rimedio. Per sempre. Anche quando i fatti sembreranno piú volte dire il contrario, dentro tutto è cambiato. Sfilacciata, proprio a un filo dal rompersi, la grammatura della fibra che legherebbe con naturalezza amato e amante. Quando lui torna alla realtà, anzi, al presente, niente è piú lo stesso, non c’è piú niente d’intatto. La violenza ha portato via con sé l’intero mondo che la precedeva. Luciana riesce a sfuggire a Domenico, si chiude a chiave in una stanza e chiama la polizia. Quello che prima era quasi normale o, quanto meno, sotteso al muto patto sociale di mantenimento economico, cioè quello che Domenico aveva visto fare al padre quando inseguiva la madre brandendo pezzi d’arredamento, durante il tempo della vita di entrambi è diventato intollerabile, è reato. O meglio, commettere violenza è considerato reato dal 1930. La novità è che adesso le donne la denunciano. Siamo però ancora in un momento di passaggio tra accettazione e intollerabilità della violenza sulle donne. La cultura profonda, cioè quella reale, la capillare vita dei cittadini, ciascuno inquadrato nel segreto della propria abitazione, non ha ancora assorbito l’assioma che una donna non vada picchiata, o addirittura uccisa. Solo nove anni prima, con la legge n. 442 del 5 agosto 1981, l’Italia era riuscita ad abrogare la rilevanza penale della causa d’onore nell’uccisione della moglie (il “delitto d’onore”, col quale al marito veniva parzialmente concessa per legge la vendetta sulla moglie fedifraga, perché l’uccisione della stessa era ritenuta non già un ammazzamento in sé, ma un modo umanamente comprensibile, da parte del tradito, di ripristinare la propria piena onorabilità: assassino sí, cornuto mai!) e solo nel 1993 la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne offrirà la prima definizione ufficiale di “violenza fondata sul genere”. In quell’ancora incerto 1990 arriva dunque una pattuglia, e un agente s’intrattiene sulla soglia di casa con Domenico, il quale ovviamente minimizza l’accaduto, riassumendolo come una normale discussione coniugale. Due chiacchiere fra uomini, una pacca sulle spalle, un ditino alzato ad ammonire per il futuro e l’agente va via, senza accertarsi delle condizioni della moglie e dei due bambini, di tre e un anno, i cui volti lampeggiano bianchi in fondo al corridoio.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)
“La luce interiore cambia la sostanza delle cose visibili.”
(da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”).
“L’amore non vissuto: nei piú spietati con sé stessi, si trasforma in arte. Nei temperamenti piú dolci, in una forma ecumenica di compassione. Tutti gli altri ospitano un sepolto vivo, che approfitta di ogni distrazione. Occorre un continuo stato di veglia, una traccia di rabbia persistente, per non farsi incrinare dal suo lamento, che è il proprio lamento – la prima voce dentro la propria voce.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)
“Tu con la faccia dura e senza sogni sulla mia pelle sai lasciare i segni, sulle ferite poi ci metti il sale io non capisco questo strano amore, Ma dovrei fare esattamente come fa un cane buono con il suo padrone, contro di te che sai tenere banco, coprire con gli stracci un cuore stanco Piú di cosí non so piú cosa dare piú di cosí che cosa fa piú male, perderti adesso e non vederti piú, ricominciare come lo vuoi tu. Piú di cosí mi chiedi e mi pretendi, piú di cosí mi stringi e poi mi stendi, e a denti stretti io ti dico sí perché ti amo.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”).
“La violenza domestica è un precipizio argilloso dentro il quale si scivola, in caduta verticale. Si rompe un argine. Nei primi tempi, a fatica, si risale la china, ancora fradici di dolore, perché l’idea della salute è ancora attiva, in entrambi. L’aggredito reagisce spontaneamente e l’aggressore, sinceramente, si pente. Sconvolto dalle lacrime, Domenico chiede perdono a Luciana. S’inginocchia. E le ripete tutto l’amore pazzo che ha per lei. Purtroppo, restando accanto all’aggressore, l’aggredito gli concede un permesso, muto e concreto, a ogni episodio piú grande. L’aggredito scivola di un altro passo, poggia quasi di schiena sulla china fangosa. E scivola l’aggressore, avvinghiato com’è. Non si può piú fermare. Cosí, è un crescendo. Qualunque gesto troppo ripetuto crea dolore, anche l’amore. “Riconosco l’amore dal dolore lungo tutto il corpo”, scrive Marina Cvetaeva. Figuriamoci pugni e schiaffoni. Questo buio improvviso nei tuoi occhi viene da lontano. Non vedi piú il presente, non mi vedi piú. Io non sono piú io, sono il fantasma di una madre amata fino all’odio, sono il tuo amore di bambino deluso, sono la solitudine dei pomeriggi con le tende chiuse e le voci degli altri fuori, nel sole. Le punizioni, quel tuo non essere abbracciato mai. La progressione della furia domestica di Domenico è sempre quella, il crescendo alieno che ha preso possesso del suo corpo la prima volta che ha alzato le mani contro la moglie: comincia dalle urla, onde sonore gonfie di vertigine, prorompe sugli oggetti fino a farsi male. Infine, si accanisce sul corpo di Luciana. Prima schiaffi, spintoni, capelli e braccia strattonate. L’atto terminale è mettere le mani alla gola di Luciana, stringere. L’andamento di un’organizzazione compulsiva. Spesso i bambini assistono. I bambini, spesso, vedono tutto. Questo padre che cambia colore. Lo sfacelo sul viso e le macerie, attorno. Il silenzio vibrante che piomba sulla casa dopo la tempesta, mamma che coglie cocci dal pavimento come i fiori dal prato nei giorni felici, mette in piedi le sedie ancora intere. Non ci sono ghirlande, c’è silenzio. Il silenzio di lui che si è sfogato. Il silenzio di loro cinque, che hanno avuto paura. È quella che oggi chiameremmo “violenza assistita”, definizione apparsa per la prima volta nel maggio 2000 su Il Raccordo, bollettino della commissione scientifica del Cismai (Coordinamento italiano servizi contro maltrattamento e abuso all’infanzia), costituitasi l’anno precedente. La “violenza assistita” è considerata una seria aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia e viene punita con un aumento di metà della pena a carico dell’autore del reato. Il bambino interiore di Domenico in aperto conflitto coi suoi Bambini Veri. Che sono lí, presenti, e hanno tutti i diritti del presente. In quale punto di questa montatura Domenico potrebbe fermarsi, estirparsi dal petto, con lo spolverio nero di zolla e radici, la pianta maligna che lo avvelena? La differenza tra violenza e follia è il dominio che si può esercitare sull’impulso, l’attimo prima d’essere invasi dall’irrefrenabile, dal maremoto della solitudine. Perché nessuno ti chiede se c’è un punto dove ti puoi fermare?” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)
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