Archivio Blog

Cerca nel blog

14 gen 2025

“Il ladro di anime” di Sebastian Fitzek




“Si dice che gli uomini manifestino la loro vera natura nelle situazioni estreme. Quando le circostanze non permettono piú di agire secondo i valori inculcati da anni di condizionamento esterno. Cosí una crisi diventa come un coltello affilato: toglie la buccia e lascia uscire il nocciolo, la condizione primigenia, non ancora formata e di solito dominata dall’istinto, in cui lo spirito di sopravvivenza prevale sulla morale.”


 “L’autore trapianta i propri pensieri nella testa dei lettori, li fa vedere, sentire, vivere e spesso li trasporta a migliaia di chilometri di distanza, in luoghi dove non hanno mai messo piede.” [Stephen King]


In un ospedale vicino Berlino un medico, alcuni pazienti e infermieri si ritrovano blindati in un manicomio al cui interno si è nascosto un serial killer capace di indurre in uno stato comatoso le proprie vittime, senza torcere loro nemmeno un capello. Quattro ore di lettura mozzafiato con un finale shockante, da consigliare a chi è appassionato di thriller psicologici. Sarà il lettore a dover risolvere l’indovinello finale, con l’aiuto di un piccolo indizio (ma questa è la parte piu semplice): “Buttami via quando hai bisogno di me, riprendimi quando non ti servo piú.

From Blogger iPhone client

11 gen 2025

Le bambine non esistono di Ukmina Manoori


Ukmina […] è una “bacha posh”, letteralmente una “bambina vestita da maschio”. Se esiste un nome per questa pratica, in Afghanistan, è perché è estesa. Un’antica tradizione afgana autorizza infatti le famiglie senza figli maschi a travestire una delle loro figlie per salvare l’onore dei genitori. In quella società dominata dai valori maschili, la mancanza di figli maschi è malvista, e soprattutto non è pratica: una femmina non può lavorare, non può uscire da sola per fare la spesa, non può aiutare nei lavori all’aperto. Una femmina è un fardello. È sufficiente tagliarle i capelli, e potrà assolvere i compiti riservati agli uomini. Secondo una superstizione afgana, una bacha posh potrebbe persino contribuire a scongiurare la malasorte e favorire la nascita di un maschio nella famiglia. Lo decidono i genitori alla nascita: basta la loro volontà e la figlia cambia aspetto, nome, identità. Diventa agli occhi di tutti il figlio maschio della famiglia.

[.…] Con la pubertà non si tratta più di un gioco, il problema si fa serio e va risolto in maniera molto semplice: ritorno al punto di partenza. Le ragazze devono dimenticare la shalwar kameez, indossare il niqab, chiudersi in casa, imparare i lavori domestici, prepararsi al matrimonio e alla maternità, accettare il ruolo attribuito alle donne. I mullah perseguono le recalcitranti che vorrebbero vivere nel peccato, quello della menzogna sulla loro identità. A dodici anni, quando le persone che le circondano cominciano a dire che dovranno portare un vestito da donna e un velo, loro soffocano già solo a immaginarsi abbigliate così. Sono cresciute come dei ragazzi, giocano con i maschi, vanno in giro per lavorare, andare a scuola, fare la spesa, sono libere come loro. E poi, un giorno, i genitori, i parenti, le autorità religiose, tutti dicono loro: adesso basta. Basta con gli allenamenti di tennis anche se sei campionessa dell’Afghanistan, basta con la scuola anche se avevi progettato di continuare a studiare, basta con gli amici anche se li conosci da quando eri piccola, basta con i capelli corti, basta con la vita senza limitazioni, diventerai una donna. Per molte di queste ragazzine è già troppo tardi. Sono state educate come dei maschi, sono cresciute con quel modello, e dall’oggi al domani viene detto loro di vestirsi, di muoversi, di comportarsi, di pensare, di agire come una femmina. Per alcune è semplicemente impossibile. Si rifiutano di diventare donne, semplicemente perché hanno assaporato la libertà degli uomini e sembra loro inimmaginabile rinunciarvi, abbandonare i propri sogni. Si immaginavano avvocate, politiche, dottoresse, pensavano di cambiare il mondo e di cambiare la vita delle loro sorelle. Sarebbe per loro come murarsi vive, gettarsi in prigione. Perciò si aggrappano alla menzogna in cui vivono fin dalla nascita. Escono sole, senza velo, lavorano a loro piacimento, vanno a scuola, fanno sport… Imbrigliano il loro corpo che si trasforma, nascondono il seno e lo imprigionano. Essere una bacha posh diventa così un modo per sopravvivere in una società profondamente conservatrice, dove le donne sono considerate cittadini di second’ordine e come tali subiscono privazione della libertà, violenze, leggi ingiuste.

(Prefazione di Stéphanie Lebrun)






Magnifico e tremendo stava l’amore di Maria Grazia Calandrone


“Domenico, lo sappiamo, ha tradito Luciana molte volte, anche gravemente. Eppure, se immagina lei fra le braccia di un altro, è trascinato in un’oscurità senza rimedio. Domenico è solo davanti al suo terrore e, per lui, tutto il mondo è remoto. Non vede piú quanto Luciana gli sia vicina. E cosí, l’allontana, senza rimedio. Per sempre. Anche quando i fatti sembreranno piú volte dire il contrario, dentro tutto è cambiato. Sfilacciata, proprio a un filo dal rompersi, la grammatura della fibra che legherebbe con naturalezza amato e amante. Quando lui torna alla realtà, anzi, al presente, niente è piú lo stesso, non c’è piú niente d’intatto. La violenza ha portato via con sé l’intero mondo che la precedeva. Luciana riesce a sfuggire a Domenico, si chiude a chiave in una stanza e chiama la polizia. Quello che prima era quasi normale o, quanto meno, sotteso al muto patto sociale di mantenimento economico, cioè quello che Domenico aveva visto fare al padre quando inseguiva la madre brandendo pezzi d’arredamento, durante il tempo della vita di entrambi è diventato intollerabile, è reato. O meglio, commettere violenza è considerato reato dal 1930. La novità è che adesso le donne la denunciano. Siamo però ancora in un momento di passaggio tra accettazione e intollerabilità della violenza sulle donne. La cultura profonda, cioè quella reale, la capillare vita dei cittadini, ciascuno inquadrato nel segreto della propria abitazione, non ha ancora assorbito l’assioma che una donna non vada picchiata, o addirittura uccisa. Solo nove anni prima, con la legge n. 442 del 5 agosto 1981, l’Italia era riuscita ad abrogare la rilevanza penale della causa d’onore nell’uccisione della moglie (il “delitto d’onore”, col quale al marito veniva parzialmente concessa per legge la vendetta sulla moglie fedifraga, perché l’uccisione della stessa era ritenuta non già un ammazzamento in sé, ma un modo umanamente comprensibile, da parte del tradito, di ripristinare la propria piena onorabilità: assassino sí, cornuto mai!) e solo nel 1993 la Dichiarazione delle Nazioni Unite sull’eliminazione della violenza contro le donne offrirà la prima definizione ufficiale di “violenza fondata sul genere”. In quell’ancora incerto 1990 arriva dunque una pattuglia, e un agente s’intrattiene sulla soglia di casa con Domenico, il quale ovviamente minimizza l’accaduto, riassumendolo come una normale discussione coniugale. Due chiacchiere fra uomini, una pacca sulle spalle, un ditino alzato ad ammonire per il futuro e l’agente va via, senza accertarsi delle condizioni della moglie e dei due bambini, di tre e un anno, i cui volti lampeggiano bianchi in fondo al corridoio.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)


“La luce interiore cambia la sostanza delle cose visibili.” 

(da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”).


“L’amore non vissuto: nei piú spietati con sé stessi, si trasforma in arte. Nei temperamenti piú dolci, in una forma ecumenica di compassione. Tutti gli altri ospitano un sepolto vivo, che approfitta di ogni distrazione. Occorre un continuo stato di veglia, una traccia di rabbia persistente, per non farsi incrinare dal suo lamento, che è il proprio lamento – la prima voce dentro la propria voce.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)


 “Tu con la faccia dura e senza sogni sulla mia pelle sai lasciare i segni, sulle ferite poi ci metti il sale io non capisco questo strano amore, Ma dovrei fare esattamente come fa un cane buono con il suo padrone, contro di te che sai tenere banco, coprire con gli stracci un cuore stanco Piú di cosí non so piú cosa dare piú di cosí che cosa fa piú male, perderti adesso e non vederti piú, ricominciare come lo vuoi tu. Piú di cosí mi chiedi e mi pretendi, piú di cosí mi stringi e poi mi stendi, e a denti stretti io ti dico sí perché ti amo.” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”).


“La violenza domestica è un precipizio argilloso dentro il quale si scivola, in caduta verticale. Si rompe un argine. Nei primi tempi, a fatica, si risale la china, ancora fradici di dolore, perché l’idea della salute è ancora attiva, in entrambi. L’aggredito reagisce spontaneamente e l’aggressore, sinceramente, si pente. Sconvolto dalle lacrime, Domenico chiede perdono a Luciana. S’inginocchia. E le ripete tutto l’amore pazzo che ha per lei. Purtroppo, restando accanto all’aggressore, l’aggredito gli concede un permesso, muto e concreto, a ogni episodio piú grande. L’aggredito scivola di un altro passo, poggia quasi di schiena sulla china fangosa. E scivola l’aggressore, avvinghiato com’è. Non si può piú fermare. Cosí, è un crescendo. Qualunque gesto troppo ripetuto crea dolore, anche l’amore. “Riconosco l’amore dal dolore lungo tutto il corpo”, scrive Marina Cvetaeva. Figuriamoci pugni e schiaffoni. Questo buio improvviso nei tuoi occhi viene da lontano. Non vedi piú il presente, non mi vedi piú. Io non sono piú io, sono il fantasma di una madre amata fino all’odio, sono il tuo amore di bambino deluso, sono la solitudine dei pomeriggi con le tende chiuse e le voci degli altri fuori, nel sole. Le punizioni, quel tuo non essere abbracciato mai. La progressione della furia domestica di Domenico è sempre quella, il crescendo alieno che ha preso possesso del suo corpo la prima volta che ha alzato le mani contro la moglie: comincia dalle urla, onde sonore gonfie di vertigine, prorompe sugli oggetti fino a farsi male. Infine, si accanisce sul corpo di Luciana. Prima schiaffi, spintoni, capelli e braccia strattonate. L’atto terminale è mettere le mani alla gola di Luciana, stringere. L’andamento di un’organizzazione compulsiva. Spesso i bambini assistono. I bambini, spesso, vedono tutto. Questo padre che cambia colore. Lo sfacelo sul viso e le macerie, attorno. Il silenzio vibrante che piomba sulla casa dopo la tempesta, mamma che coglie cocci dal pavimento come i fiori dal prato nei giorni felici, mette in piedi le sedie ancora intere. Non ci sono ghirlande, c’è silenzio. Il silenzio di lui che si è sfogato. Il silenzio di loro cinque, che hanno avuto paura. È quella che oggi chiameremmo “violenza assistita”, definizione apparsa per la prima volta nel maggio 2000 su Il Raccordo, bollettino della commissione scientifica del Cismai (Coordinamento italiano servizi contro maltrattamento e abuso all’infanzia), costituitasi l’anno precedente. La “violenza assistita” è considerata una seria aggravante del reato di maltrattamenti in famiglia e viene punita con un aumento di metà della pena a carico dell’autore del reato. Il bambino interiore di Domenico in aperto conflitto coi suoi Bambini Veri. Che sono lí, presenti, e hanno tutti i diritti del presente. In quale punto di questa montatura Domenico potrebbe fermarsi, estirparsi dal petto, con lo spolverio nero di zolla e radici, la pianta maligna che lo avvelena? La differenza tra violenza e follia è il dominio che si può esercitare sull’impulso, l’attimo prima d’essere invasi dall’irrefrenabile, dal maremoto della solitudine. Perché nessuno ti chiede se c’è un punto dove ti puoi fermare?” (da “Magnifico e tremendo stava l'amore” di “Maria Grazia Calandrone”)

From Blogger iPhone client

15 ago 2022

Zucchero bruciato di Avni Doshi

 




Scritto molto bene, il libro è ricco di immagini insolite, originali, e le quattrocento pagine circa scorrono leggere, attraversando il dolore di una vita e la sensazione di impotenza e rabbia che l’Alzheimer lascia come ricordo principale bei caregiver. 


Contrariamente ad altri libri che raccontano l’involuzione dei malati di Alzheimer, qui la malattia fa solo da sfondo alla relazione tra Tara, la madre, e Antara, sua figlia, un rapporto complesso la cui definizione è già nella scelta dei nomi: Antara è la negazione di Tara.


Proprio nella età in cui Antara potrebbe finalmente ragionare con sua madre e farle scontare il dolore da lei provato nel seguirla ovunque nelle sue ribellioni, perfino nell’allontanamento dal padre, Antara si trova di fronte una madre che non ricorda più nulla. O forse ricorda solo qualcosa, quel volto che sua figlia incessantemente ogni giorno copia da una vecchia fotografia, e che potrebbe unirle o lacerare il loro rapporto per sempre.


“Sono in macchina da sola, viaggio verso l’appartamento di Ma per prendere le sue cose e mi sento inceppata come il nastro di una cassetta, indecisa su come prepararla a dire addio e al miglior modo per farlo. Perché anche noi dobbiamo metabolizzare questa inappellabile fine, tanto quanto lei, anche se sarà difficile, dato che lei sarà sempre lì, giorno dopo giorno, con lo stesso aspetto e lo stesso modo di comportarsi. Questa è una perdita lunga ed estenuante, in cui si sparisce un pezzettino alla volta. Forse, allora non c’è altro da fare se non aspettare, aspettare finché lei non sarà più lo nel suo guscio, e allora potrà iniziare il lutto, un lutto pieno di rimorsi perché non ci saremo mai chiarite.


Credevo che crescere significasse che con l’età tutte le mie domande avrebbero trovato risposta, che in futuro i miei desideri sarebbero stati esauditi ma, mente gli anni passano e io mi ritrovo a rimpiangere la mia giovinezza, si è consolidata l’abitudine ad attendere. È radicata in profondità, una cosa di cui sembra non riesca a liberarmi. Mi chiedo se, quando sarò vecchia e fragile e vedrò la fine prendere forma davanti a me, sarò ancora lì ad aspettare l’arrivo del futuro.


La perderò un poco alla volta. Alla fine sarà come una casa da cui mi sono trasferita, dove non c’è più niente che mi sia familiare.”


Avni Doshi, Zucchero bruciato

27 apr 2020


David Grossman
Applausi a scena vuota

“Un ragazzino di cinquantasette anni che si riflette in un vecchio di quattordici.”

Sul palcoscenico, pura improvvisazione di un attore, che trova il modo di purificare la sua anima nel ricordo della terribile giornata nella quale, quattordicenne, deve affrontare un viaggio di rientro a casa dal campeggio in cui si trova, per il funerale di un genitore, all’oscuro della risposta inconfessabile a una domanda di tre parole “chi è morto?”.
In platea un suo vecchio amico, ora giudice, chiamato da lui per vedere lo spettacolo e rispondere a una difficile domanda, ciò che un uomo trasmette inconsapevolmente e forse è l’unico al mondo a possedere.

Un Grossman che sfiora delicatamente sentimenti come l’amicizia, l’amore, i rapporti familiari e sociali, la crudeltà, il rimpianto, l’amara presa di coscienza da adulti di ciò che si è vissuto da ragazzini, con la bellezza di una scrittura che non può non coinvolgere.

“Sento che mi sussurra all’orecchio una frase del nostro amato Ferdinando Pessoa: Basta esistere per essere perfetti”.


E per David Grossman, basta scrivere per essere perfetto, come sempre.


Audace nella struttura l’ultimo romanzo di David Grossman. Servendosi dei mezzi espressivi tipici del cabaret, l’autore mette al centro della scena un singolare personaggio, Dova’le, che con la sua arguzia si rivolge direttamente al pubblico, a poca distanza da lui. Il monologo del protagonista si alterna, nel corso della narrazione, alle osservazioni e ai ricordi del giudice Avishai Lazar, suo amico d’infanzia, che ha accettato con molte perplessità di assistere allo spettacolo. Ciò che appare immediatamente evidente è la volontà dell’attore di porre il suo pubblico di fronte alla realtà spogliata di ogni falsa apparenza. Prima di addentrarsi nel racconto della sua vita egli si rivolge infatti a singoli individui in sala, senza risparmiare loro osservazioni dure e talvolta offensive. Appare qui subito evidente l’eredità shakespeariana del personaggio del clown e della sua funzione di denuncia. Dova’le, infatti si presenta subito come un buffone al centro della scena. Con l’intento di alleggerire la rappresentazione, egli alterna al racconto drammatico vere e proprie barzellette, più gradite al pubblico. Non a caso informa quasi subito lo spettatore della sua abitudine giovanile di camminare sulle mani e vedere il mondo alla rovescia. Questo atteggiamento bizzarro nasconde una tragica visione della vita. Sin da bambino, infatti, Dova’le non riesce a stabilire un rapporto armonioso con la realtà che lo circonda. Dal racconto del suo tormentato viaggio attraverso il deserto per ritornare a casa dal campeggio militare dove si era recato, richiamato per la morte d’un genitore, emerge tutta la sua disperata solitudine accentuata dall’angoscia di non sapere se sia morto suo padre o sua madre. Ritornano così alla sua mente fatti della vita quasi sepolti in un piccolo spazio di memoria dove è sempre presente il dramma della Shoa.
Come i personaggi di Pinter, Dova’le è chiuso anch’egli nella sua “stanza dell’oppressione” nella quale egli intende trascinare anche il suo pubblico persuadendolo della necessità della ricerca della verità. Immergersi nel suo passato gli serve per denunciare insieme ai suoi limiti, anche i limiti e le colpe di chi lo aveva conosciuto nel passato e aveva mostrato indifferenza verso il suo destino.
Il contatto diretto con il pubblico agevola la comunicazione. Solo di tanto in tanto Dova’le si rifugia in una poltrona, unico arredo del palcoscenico, che ha lo scopo di sottolineare il limite entro cui egli stesso è chiuso. Il suo spettacolo tuttavia non è gradito a tutto il suo pubblico. Una parte di esso desidera rifugiarsi in qualcosa di illusorio e sfuggire alla cruda rappresentazione della realtà. 
La presenza del giudice Avishai, tanto desiderata da Dova’le, al suo spettacolo, assume un significato più sottile, proprio alla fine del monologo. Giudicare senza partecipare emotivamente non è sempre garanzia di equilibrio e obiettività. Giustizia non è negazione di umanità. Dova’le desidera che l’amico d’un tempo si senta finalmente partecipe della sua storia e ne dia un giudizio sereno.
“Per lo meno rimarrà qualche parola di me […] Come la segatura dopo il taglio di un albero ….”
Personalmente, egli ha finalmente preso coscienza del significato dei drammi vissuti. Rivisitare il passato gli ha permesso di penetrare nell’animo delle persone che ha amato. Presupposto essenziale per non dovere più camminare a testa in giù.